La pericolosità sociale tra misure di sicurezza e misure di prevenzione
La pericolosità sociale è un concetto generico ed in continua evoluzione che racchiude in sé una moltitudine di significati e, secondo il sentire comune, costituisce una comoda etichetta attribuita a gruppi di persone percepite come socialmente pericolose. Tale nozione, le cui radici affondano nel positivismo criminologico di fine Ottocento, veniva a coincidere con la probabilità che un soggetto, a causa delle sue caratteristiche psichiche e/o dell’influenza esercitata dall’ambiente, potesse compiere in futuro fatti di reato. La definizione di pericolosità sociale è stata codificata dal legislatore e si rinviene nell’art. 203 c.p., il quale stabilisce che «Agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati». Alla luce di tale disposizione, essa può essere definita come un giudizio prognostico operato dal giudice in ordine alla probabilità che una persona possa commettere in futuro fatti previsti dalla legge come reato. Pertanto, non basta la semplice “possibilità” di ricaduta nel reato, bensì il legislatore esige quell’elevato grado di possibilità corrispondente al concetto di probabilità.
Secondo l’originaria disciplina codicistica, vi erano alcune forme di presunzione di pericolosità: era la stessa legge che, in presenza di una serie di presupposti relativi alla gravità del fatto commesso e/o alle particolari condizioni psicologiche dell’agente, determinava la pericolosità sociale di una persona con una presunzione juris et de iure, che non ammetteva prova contraria. Tuttavia, la Corte Costituzionale ha successivamente riconosciuto che ipotesi di pericolosità presunta erano in palese contrasto con la Costituzione. Sulla scia di tale statuizione, il legislatore, con la l. n. 663/86, ha abolito ogni forma di presunzione legale di pericolosità, stabilendo che il giudice deve sempre procedere all’accertamento in concreto della pericolosità sociale dell’autore del reato. Per farlo, deve necessariamente tenere conto delle circostanze stabilite dall’art. 133 c.p., quali i motivi a delinquere e il carattere del reo, i precedenti penali e giudiziari, la condotta e la vita antecedente, contemporanea o susseguente al reato, nonché le sue condizioni di vita individuali, familiari e sociali.
In altri termini, il giudizio prognostico di accertamento della pericolosità sociale è costituito da due momenti: dall’analisi della personalità del soggetto compiuta attraverso gli anzidetti elementi e dalla formulazione della prognosi criminale, ossia il giudizio diretto a predire il futuro comportamento criminale del reo.
Invero, tenuto conto che gli elementi di cui all’art. 133 c.p. sono assolutamente generici e non consentono la formulazione di un giudizio prognostico avente il carattere della scientificità, il metodo di accertamento più diffuso nella prassi giudiziaria è quello c.d. intuitivo, secondo cui il giudice ricostruisce un quadro generale della personalità del soggetto sulla base della sua personale esperienza ed attitudine a conoscere gli uomini. Ciononostante, nella maggior parte dei casi vi sono incertezze e difficoltà in ordine al suo concreto accertamento in sede giudiziale, cosicché il giudizio finale risulta arbitrario e poco affidabile, in quanto risultano inevitabili rischi di arbitrio.
Lo studio e la ricostruzione di questa categoria risultano fondamentali poiché essa costituisce il necessario presupposto per l’applicazione sia delle misure di sicurezza sia delle misure di prevenzione.
Le misure di sicurezza assolvono ad una funzione special-preventiva diretta alla neutralizzazione, alla cura e alla rieducazione della persona socialmente pericolosa e, dal momento che restringono fortemente le libertà del singolo, sono sottoposte al principio di legalità in ossequio all’art. 199 c.p.; quest’ultimo stabilisce che «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti».
La natura giuridica delle misure de qua è stata al centro del dibattito della dottrina, la quale si è chiesta se esse appartengano al diritto amministrativo o al diritto penale. La dottrina più moderna le colloca nel secondo ramo per un triplice ordine di ragioni: sono regolamentate dal codice penale, presuppongono un fatto costituente reato e, al pari delle pene, sono strumenti di contrasto al reato e alle sue conseguenze giuridiche.
Ebbene, il giudice, ai sensi dell’art. 202 c.p., le applica sulla base di un elemento oggettivo costituito dalla commissione di un fatto previsto dalla legge come reato e di uno soggettivo, ossia la pericolosità sociale del soggetto.
Le misure di sicurezza si suddividono in personali – detentive e non detentive – e patrimoniali. Nella prima categoria rientrano: l’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro (detentiva), l’assegnazione in una casa di cura e custodia (detentiva), il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (detentiva), il ricovero in un riformatorio giudiziario (detentiva), la libertà vigilata (non detentiva), il divieto di soggiorno (non detentiva), il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche (non detentiva) e l’espulsione dello straniero dallo Stato (non detentiva). Invece, alla seconda categoria appartengono la cauzione di buona condotta e la confisca.
Si ricordi che l’Autorità giudiziaria, alla scadenza del termine minimo di durata della misura, deve procedere al riesame della pericolosità per stabilire se la persona sia o meno ancora socialmente pericolosa.
L’imprescindibilità del requisito oggettivo, consistente nella commissione di un reato, ha portato la dottrina a definire le misure di sicurezza come misure di prevenzione post delictum, al fine di distinguerle dalle misure di prevenzione ante o praeter delictum.
Le due categorie hanno in comune il requisito soggettivo, in quanto applicabili agli individui socialmente pericolosi, e la finalità di prevenire il crimine. La differenza risiede nel presupposto oggettivo, poiché per l’applicazione delle misure di prevenzione è sufficiente la qualità di soggetto socialmente pericoloso, non essendo necessario la commissione di un fatto di reato. Invero, queste ultime vengono disposte non su un mero sospetto, bensì su un’oggettiva valutazione dei fatti da cui risulti la pericolosità della persona, allo scopo di evitare valutazioni puramente soggettive ed arbitrarie. La loro ratio è quella di difendere la società da quei soggetti che, per le loro abitudini di vita, rappresentano un grave pericolo per la pubblica sicurezza.
Le misure di prevenzione presentano, nondimeno, problemi di costituzionalità, posto che limitano diritti e libertà fondamentali – basti pensare alla libertà personale (art. 13 Cost.), alla libertà di circolazione (art. 16 Cost.), alla libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) od al diritto di proprietà (art. 42 Cost.) – sulla scorta del solo requisito della pericolosità sociale del soggetto, a prescindere dalla precedente commissione di un fatto criminoso. Sul punto, con sentenza 14 giugno 1956, n.2, è intervenuta la Corte Costituzionale fissando alcuni principi, ancora oggi attuali, come la necessità di provvedimenti basati su fatti e non su sospetti, l’obbligo di motivazione e l’operatività del diritto di difesa.
Esse, la cui disciplina risiede principalmente nel D.lgs. n. 159/2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione) oltre che nelle leggi speciali, si distinguono in personali, dirette a limitare diritti di libertà, e patrimoniali che incidono sul diritto di proprietà e di impresa. Nella prima categoria rientrano il foglio di via obbligatorio, l’avviso orale e la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza: le prime due vengono applicate dall’Autorità giudiziaria, mentre l’ultima dal Questore. Invece, le misure di prevenzione patrimoniali sono: il sequestro, la confisca, la cauzione e le garanzie reali, l’amministrazione giudiziaria di beni personali, l’amministrazione giudiziaria di beni connessi ad attività economiche e delle aziende ed il controllo giudiziario delle aziende.
Sicché, per applicare una misura di prevenzione è necessaria la riconducibilità della persona ad una delle categorie di pericolosità indicate dal legislatore (artt. 1 e 4 del Codice antimafia) e l’attualità della pericolosità sociale.
L’ art. 1 del Codice antimafia indica una categoria di soggetti considerati generalmente come socialmente pericolosi e, pertanto, si parla di “pericolosità generica”. Si tratta di coloro che, sulla base di elementi di fatto, debbono ritenersi abitualmente dediti a traffici delittuosi ovvero coloro che, per la condotta ed il tenore di vita, vivono abitualmente con i proventi di attività illecite, nonché di coloro che sono dediti alla commissione di reati che ledono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. Tuttavia, sulla scia della sentenza De Tommaso c. Italia ad opera della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha fortemente stigmatizzato la tecnica di redazione dell’art. 1, co. 1, lett. a) del Codice antimafia, la Corte Costituzionale (sentenza. n. 24/2019) ha conseguentemente dichiarato l’illegittimità costituzionale della lettera a) del citato articolo in ragione dell’irrisolto contrasto interpretativo in merito al concetto di “traffici delittuosi”, richiamato dalla norma. Ciò comportava una radicale imprecisione, genericità e indeterminatezza della disposizione, in palese contrasto con il principio di tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie penale.
A contrario, l’art. 4 del Codice antimafia fa riferimento alla categoria della “pericolosità qualificata” ove rientrano, tra gli altri, gli indiziati di appartenere alle associazioni di stampo mafioso ovvero coloro indiziati di uno dei reati previsti dagli artt. 51, commi 3-bis e 3 quater, c.p.p.
È altresì necessario che il destinatario della misura abbia una condotta espressione di una pericolosità sociale non solo effettiva, ma anche attuale e non meramente potenziale. Si richiede, perciò, una valutazione globale della personalità del soggetto risultante da tutte le manifestazioni sociali della sua vita. Tuttavia, l’attualità della pericolosità sociale del soggetto non rappresenta più un presupposto indispensabile per l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, in quanto secondo la giurisprudenza di legittimità non è necessario che il soggetto sia socialmente pericoloso al momento dell’attivazione dei poteri ablatori, essendo sufficiente che lo sia stato all’atto dell’acquisto del bene oggetto del procedimento di prevenzione.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
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Francesco Castaldo
Classe 1995, laureato in Giurisprudenza presso l´Università degli Studi di Salerno con una tesi di ricerca in Diritto Processuale Penale dal titolo ”Le indagini della Polizia Penitenziaria tra prevenzione e repressione”, con votazione di 105/110. Ha conseguito il certificato di qualifica professionale in ”Forensic Examiner - Esperto di Sciente Forensi, Criminologia investigativa e Criminal Profiling” presso la CSI Academy Srl , nonché l'attestato di frequenza del Corso di Perfezionamento in diritto penale ”Giorgio Marinucci” - II Modulo , dal titolo ”Criminalità dei colletti bianchi e misure di prevenzione” presso l´Università degli Studi di Milano.
Attualmente, è Praticante Avvocato e Tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso la Procura della Repubblica di Avellino.