La portata antitrust dei Big Data: i dati digitali come infrastruttura essenziale
Abstract: Nel corso degli anni, diversi sono stati i casi in cui si è imposto ad un’azienda in posizione dominante di concedere ai concorrenti l’utilizzo di un’infrastruttura di propria disponibilità per permetter loro di competere nello stesso mercato di riferimento. L’infrastruttura di cui si forza la condivisione prende il nome di “essential facility”, una dottrina che nasce dall’interpretazione dell’art. 102 del TFUE. Tale dottrina in un primo momento aveva ad oggetto le sole infrastrutture classiche, tangibili (si pensi alle ferrovie); successivamente, la giurisprudenza comunitaria ha esteso i suoi confini applicandola anche ai diritti di proprietà intellettuale, tra cui i brevetti per invenzione. Oggetto centrale di questa trattazione sarà la possibilità di concepire anche l’insieme di dati digitali (cd. “Big Data”) come essential facility – dati che però per loro natura differiscono di molto dalle infrastrutture classiche e dai diritti di proprietà intellettuale prima citati -, il tutto dopo aver tratteggiato i caratteri comuni a qualunque infrastruttura che si dica essenziale ai sensi del diritto antitrust.
Sommario: 1. Lineamenti della dottrina sull’infrastruttura essenziale – 2. I requisiti dell’infrastruttura essenziale – 3. L’utilizzo dei Big Data come essential Facility – 4. Il caso Android Auto – JuicePass – 5. Considerazioni finali
1. Lineamenti della dottrina sull’infrastruttura essenziale
All’interno del mercato vige la libertà assoluta di un operatore economico di contrattare o meno con un’altra azienda. Tale regola generale vale anche per l’impresa che gode di una certa posizione dominante, la quale ben potrà decidere di rifiutarsi di contrattare con un’altra azienda, a prescindere che sia o meno una sua concorrente. Eppure, esiste un’eccezione a tale regola che qualifica come abusiva la condotta dell’impresa dominante che si rifiuti di contrattare con un’azienda terza impedendole di utilizzare un’infrastruttura di sua proprietà, sempre purché tale infrastruttura sia indispensabile per operare nel mercato di riferimento.
Si parla in questo caso dell’”essential facility doctrine”, una teoria che inizialmente qualificava anticoncorrenziali le sole condotte che avessero ad oggetto l’impedimento all’utilizzo di infrastrutture di carattere materiale, quali i porti, nonché per infrastrutture a rete, quali ferrovie, reti energetiche e di comunicazione;[1] solo in un secondo momento la giurisprudenza comunitaria ha superato la sua iniziale ritrosia estendendo la dottrina anche ai diritti di proprietà intellettuale. In tempi relativamente recenti, quindi, si è ampliata l’interpretazione di questa teoria fino a ricomprendere nella nozione di infrastruttura essenziale anche beni immateriali, come i diritti derivanti dai brevetti per invenzione.[2]
Dal punto di vista normativo, questa dottrina viene ricompresa nella condotta del rifiuto ingiustificato di contrarre, quale atto unilaterale con cui un’impresa in posizione dominante si rifiuta di contrarre producendo, infatti, effetti anticoncorrenziali quali la limitazione degli sbocchi, espressamente prevista sia dall’art. 102, paragrafo 2, lett. b) TFUE che dall’art. 3, paragrafo 1, lett. b) L. 287/1990.
2. I requisiti dell’infrastruttura essenziale
Utilizzando le parole della giurisprudenza italiana, ci si trova dinanzi ad un’infrastruttura essenziale quando “l’impresa in posizione dominante dispone di un fattore della produzione, sia esso bene o servizio, l’accesso al quale sia essenziale per operare in un mercato in cui anch’essa opera. Non vi è invece abuso quando il servizio possa essere duplicato con costi ragionevoli o vi siano comunque modalità alternative, siano esse attuali o anche potenziali, di operare sul mercato interessato e il rifiuto non determini l’eliminazione di una effettiva concorrenza dal mercato poiché la finalità dell’art. 102 TFUE è la tutela dell’efficace processo concorrenziale e non dei concorrenti.”[3]
Da queste parole si possono desumere i diversi requisiti necessari per identificare l’infrastruttura oggetto di questa trattazione, tra cui si evidenzia in prima battuta la caratteristica della sua indispensabilità: il servizio oggetto della facility dovrà essere in sé essenziale, appunto, per lo svolgimento dell’attività del concorrente. Tale requisito sussiste fintantoché non vi siano alternative all’infrastruttura di cui si richiede l’accesso che sia ugualmente efficace nell’espletamento di un certo servizio o di un certo prodotto da parte della concorrente.
Una seconda peculiarità, strettamente connessa alla prima, riguarda la non facile duplicabilità dell’infrastruttura a cui l’azienda concorrente chiede l’accesso, condizione che sussiste nel momento in cui “la riproduzione dell’infrastruttura risulti impossibile o estremamente difficile a causa di vincoli di natura fisica, geografica o giuridica oppure sia estremamente inopportuna per motivi di natura politica”[4] oppure quando non sia “economicamente redditizio” occuparsi di una seconda struttura alternativa alla prima detenuta dall’impresa in posizione dominante. Per valutare quest’aspetto prettamente economico occorrerebbe dimostrare che l’entità dell’investimento necessario per “costituire un’infrastruttura alternativa sia tale da scoraggiare dall’entrare sul mercato”[5] l’ingresso di un mercato di un concorrente intraprendente.
Peraltro, è necessario che il rifiuto, oltre a determinare l’eliminazione di una concorrenza sul mercato a valle, determini anche un danno per i consumatori, quando, cioè, “in conseguenza del rifiuto stesso, s’impedisca ai concorrenti d’immettere sul mercato beni o servizi innovativi”[6] o comunque quando sia probabile che venga frenata l’innovazione successiva.
Come già ricordato poc’anzi, un’estensione dell’ambito d’applicazione della normativa è stata realizzata, dopo un momento di iniziale ritrosia della giurisprudenza comunitaria, nei confronti di alcuni diritti di proprietà intellettuale. Proprio su questa particolare categoria di diritti si è estesa l’interpretazione di questa dottrina, richiedendo però in tal caso la sussistenza di un ulteriore requisito: l’impresa richiedente la licenza del brevetto per invenzione, ad esempio, non può limitarsi a riprodurre prodotti o servizi che siano già offerti sul mercato derivato dal titolare del diritto di proprietà intellettuale, ma dovrà offrire prodotti o servizi nuovi che il titolare non sta offrendo e per i quali esiste una potenziale domanda da parte dei consumatori.[7] Trattasi di una peculiarità di importanza particolare per la riflessione oggetto di questa trattazione, stante il carattere di immaterialità comune sia ai dati digitali che ai diritti di proprietà intellettuale.
3. L’utilizzo dei Big Data come essential Facility
Oggetto di questo paragrafo sarà una profonda riflessione su come i dati digitali possano incidere nella concorrenza di un dato settore e sulla possibilità che questi integrino i parametri prima descritti per cui un’infrastruttura possa dirsi “essential”. Con l’espressione “Big Data” si fa riferimento a set enormi di dati digitali che permettono alle aziende che ne dispongono di inferire conoscenza e produrre valore, insomma, un vantaggio informativo-competitivo da opporre alle aziende loro concorrenti.[8][9]
Riprendendo qui i requisiti cumulativi elencati nei paragrafi precedenti che, secondo la giurisprudenza nazionale e comunitaria, configurano una certa infrastruttura come essenziale, sarà necessario che i dati di cui si vede opporre il rifiuto siano oggettivamente indispensabili per permettere la competizione in un certo mercato, ostacolando a monte la concorrenza effettiva, arrivando quindi alla costituzione di un vero e proprio danno per i consumatori. Sarà inoltre necessario che l’infrastruttura in sé non sia duplicabile facilmente e che il rifiuto dei dati in questione impedisca l’offerta di un nuovo prodotto o servizio, prevedendo quest’ultimo un requisito esteso dalla giurisprudenza nel caso di essenzialità dell’infrastruttura esistente in un diritto di proprietà intellettuale.
Alla scrivente appare automatico riflettere in prima battuta sul requisito della non facile duplicabilità proprio di un’infrastruttura essenziale: per quanto in un’economia sempre più data driven come quella attuale sia chiaro come il dato sia diventato sempre più fondamentale, in realtà esso può essere raccolto da diverse fonti. Si evidenzia in tal senso la caratteristica della “non rivalità” dei dati, ossia la peculiarità per cui l’afferenza di un dato ad una fonte non impedisce la possibilità di ottenere quello stesso dato da fonti ulteriori; insomma, gli utenti possono condividere gli stessi identici dati con più imprese. La non rivalità, quindi, sembra cozzare con il requisito della non facile duplicabilità dell’infrastruttura essenziale classica. Eppure, a dover essere considerata come infrastruttura essenziale secondo molti autori[10], non deve essere la massa elevata di dati bensì “la combinazione dei big data e delle più efficaci, nonché efficienti, tecniche di analisi degli stessi.” Di conseguenza, a dover essere al centro della valutazione in esame non deve essere tanto l’insieme dei dati digitali raccolti da un’impresa in posizione dominante, quanto la “capacità di estrarre informazioni utili da grandi volumi e varietà dei dati”.[11]
Tale requisito dovrà, inoltre, convivere con quello dell’essenzialità dell’infrastruttura in senso stretto, per cui sarà necessario sottoporre i dati di cui si fa richiesta d’accesso ad un’impresa in posizione dominante ad un rigido test di essenzialità e di sostituibilità che permetterà di stabilire se il prodotto finale dell’impresa dominante o un mercato vicino sia isolato dalla concorrenza se viene negato l’accesso all’infrastruttura. Si faccia l’esempio dell’offerta di una particolare applicazione per la casa intelligente: essa può dipendere dall’accesso continuo al modello di consumo energetico specifico di un utente e al suo calendario online, peculiarità tecnica che non può che rendere l’accesso al dato indispensabile per fornire un certo servizio.[12]
Come evidenziato già precedentemente nel paragrafo inerente alle essential facilities, valutare l’essenzialità di un’infrastruttura e quindi obbligare alla sua condivisione l’impresa che ne dispone e gode di una posizione dominante, può ostacolare quello che è il fine primario della normativa antitrust, ossia stimolare gli operatori tutti all’innovazione. Una condivisione forzata dell’infrastruttura ha come conseguenza diretta e negativa, infatti, quella di disincentivare un operatore ad innovare perché costretto alla condivisione con i propri competitors dell’asset su cui ha investito. Da questa minore innovazione, la conseguenza ulteriore che ne discende è un pregiudizio diretto dei consumatori che si sostanzia in un mancato beneficio di costi inferiori, nuovi prodotti e una migliore qualità produttiva. Pertanto, il diritto della concorrenza deve tener conto degli effetti di incentivazione prima di imporre un obbligo di trattare, o più specificamente un dovere di concedere l’accesso ai dati. Insomma, l’ideale sarebbe il raggiungimento di un compromesso tra la conservazione degli interessi delle aziende a investire e la possibilità effettiva delle aziende ad accedere ad un certo tipo di innovazione.
In sintesi, quindi, senza dubbio la condivisione forzata dei dati solleva delle preoccupazioni per le società soggette a tale obbligo di innovare e investire, ma occorre sempre – in mancanza di una regolamentazione ad hoc – una valutazione caso per caso.
Per ciò che concerne il requisito del “nuovo prodotto” che ha permesso l’estensione della dottrina delle essential facility anche ai diritti di proprietà intellettuale, urge un focus sull’eterogeneità dei fini che con l’utilizzo dei Big Data può raggiungersi. Si dice che questi dati abbiano “un rilievo economico in termini relazionali, ossia in quanto vengono utilizzati in rapporto ad uno scopo: una certa informazione prodotta potrà essere diffusa nel mercato e impiegata dall’azienda per innovare i suoi processi e i beni al mercato destinati.”[13] Ciò distingue l’accesso alle richieste di dati dall’accesso alle richieste di infrastruttura. Le infrastrutture “classiche” hanno uno scopo chiaramente identificabile e le condizioni di accesso, sebbene possano essere complesse, possono essere standardizzate al fine di soddisfare tale scopo. Lo stesso può dirsi, con le minime differenziazioni del caso, anche per i diritti di proprietà intellettuale; in generale, quindi, così come il proprietario dell’infrastruttura “classica”, anche il titolare dei diritti di proprietà intellettuale avrà a sua disposizione una solida base per valutare i meriti di una richiesta di accesso, ovvero se l’accesso è effettivamente indispensabile per competere e quale tipo di accesso è giustificato.[14] Per i dati digitali, il discorso in tal senso muta radicalmente dal momento che gli obiettivi perseguiti da una data richiesta di accesso ai dati possono essere molto diversi. Per ogni tipo di obiettivo potrebbe essere necessario definire un mercato rilevante diverso e per ogni singola richiesta di accesso ai dati potrebbe richiedere un’analisi separata per valutare qualora un rifiuto di accesso dovesse costituire un abuso o meno; una valutazione caso per caso, però, potrebbe essere un’attività particolarmente onerosa. Sarebbe preferibile quindi una normativa di regolazione del settore che standardizzi la disciplina da attuare a seconda del tipo di dato di cui si richiede l’accesso e a seconda dello scopo che si vuole perseguire.[15]
Un’altra problematica afferente alla potenziale configurazione dei dati digitali come infrastruttura essenziale si fonda sulla natura personale o meno dei dati oggetto della richiesta di accesso; trattandosi di dati, è obbligatorio considerare la relazione tra il General Data Protection Regulation (GDPR) e un eventuale obbligo a fornire i dati cd. “personali”. L’accesso forzato ai dati potrebbe infatti sollevare problemi di riservatezza dei dati personali poiché la loro condivisione forzata potrebbe violare le leggi sulla privacy se le aziende decidessero di scambiarsi dati senza il consenso dei consumatori. Rinviando all’articolo 6 del predetto Regolamento, infatti, si dispone che il trattamento dei dati personali sia lecito solo se e nella misura in cui l’interessato abbia espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità; dal momento che l’interessato deve essere informato della condivisione dei dati secondo il GDPR, si imporrebbe quindi alle singole aziende l’enorme incombenza di ottenere il consenso al trattamento ogni qualvolta si voglia cambiare lo scopo per i quali i dati sono stati raccolti in prima battuta; sarà obbligatorio, quindi, per le aziende che abbiano richiesto di accedere ai Big Data a disposizione di un’azienda in posizione dominante chiedere un ulteriore consenso al trattamento ai consumatori. Trattasi di un onere particolarmente gravoso, dato che – al momento dell’originario ottenimento del consenso al trattamento da parte dell’utente – lo scopo della richiesta del consenso non era certamente quello della condivisione dei dati con altre aziende afferenti allo stesso mercato.
È una problematica che non sorge in quelle che nel corso di questa trattazione sono state definite “infrastrutture classiche”, in cui la rilevanza della condivisione forzata dei dati è praticamente inesistente. Insomma, nell’uso dei Big Data come infrastruttura essenziale, si intersecano sia gli scopi propri del diritto antitrust – quali la garanzia della libera concorrenza e della tutela dei consumatori – che dell’obiettivo delle normative sulla privacy dei dati, e quindi la protezione dei dati personali. Secondo gli esperti[16], però, parte dei problemi potrebbero essere risolti implementando appositi strumenti tecnici che consentono l’uso anonimo di dati individuali raggruppati.
Peraltro, problematiche non trascurabili si avrebbero anche qualora i dati a disposizione dell’azienda dominante non fossero dati personali. I dati non personali di cui sarebbe obbligatoria la condivisione in forza della dottrina dell’infrastruttura essenziale potrebbero riguardare informazioni strategiche dell’impresa dominante, potendo quindi far sorgere preoccupazioni in merito a uno scambio di informazioni anticoncorrenziali, condotta sanzionata in virtù dell’articolo 101 TFUE.
4. Il caso Android Auto – JuicePass
Vi è un caso su cui proprio recentemente l’AGCM si è pronunciata che fa intendere da un lato quanto l’acquisizione di dati possa comportare un rafforzamento del potere di mercato, dall’altro quanto la potenzialità di una piattaforma possa assurgere a infrastruttura essenziale per competere in un certo mercato. Si parla del caso che ha coinvolto Google, che detiene il sistema operativo Android, ed Enel – nello specifico Enel X Italia, la sua divisione per i servizi di efficienza energica e mobilità sostenibile -.
Google detiene anche l’estensione Android Auto che consente agli automobilisti di utilizzare varie app in tutta sicurezza attraverso la loro visualizzazione nella head unit del cruscotto attraverso i comandi del volante o mediante i comandi vocali. Enel X Italia, invece, ha sviluppato l’app JuicePass per gli utilizzatori di automobili elettriche; quest’app consente di visualizzare su una mappa le colonnine di ricarica delle vetture nonché di accedere alle informazioni rilevanti di ciascuna colonnina (tipologia di presa, stato della presa, potenza massima erogabile, disponibilità della colonnina, ecc.), di prenotare tali colonnine nonché di monitorare e pagare la sessione di ricarica.
Ad oggi, l’applicazione JuicePass può essere facilmente utilizzata dallo smartphone; non si può dire altrettanto per il suo utilizzo mediante l’estensione Android Auto: ad Enel X è stato opposto un rifiuto da parte di Google per poter integrare la sua applicazione nell’estensione Android Auto. Ad Enel, insomma, in questo modo viene impedito di competere nell’offerta dei servizi di mobilità elettrica.
Google propone ad Enel, in alternativa, di integrare i dati delle colonnine all’interno di Google Maps lasciando JuicePass al di fuori di Android Auto, consentendo in questo modo a Google di acquisire il flusso di dati derivante dall’interazione con Maps; peraltro, questa scelta obbligherebbe gli utenti che vogliano conoscere l’ubicazione delle colonne di ricarica a cedere i propri dati a Google, che potrebbe così rafforzare la propria posizione di mercato difendendo il modello Google Maps, rafforzando così il proprio patrimonio di dati.
Ad avviso dell’Autorità, quindi, Google, opponendo un rifiuto alla richiesta di Enel di integrare l’app JuicePass in Android Auto, abusa della posizione dominante che detiene nel mercato dei sistemi operativi per dispositivi mobili intelligenti che possono essere concessi in licenza. Si tratta di un rifiuto che ad avviso dell’Autorità Antitrust è del tutto ingiustificato dal momento che la multinazionale aveva addotto due motivazioni – poi ritenute non fondate – per legittimare il mancato ingresso di JuicePass nel sistema Android; una prima, per cui le applicazioni autorizzate all’ingresso in Android Auto sarebbero state solo quelle di messaggistica e media e non quelle adibite alla navigazione – motivazione che cozza in toto con la presenza di app come Google Maps e Waze nell’infrastruttura Android Auto – ed una seconda relativa alla possibilità che l’app di Enel non avrebbe garantito la sicurezza alla guida, pur avendo Enel seguito pedissequamente le specifiche linee guida Android per la qualità delle applicazioni da integrare nell’estensione Android Auto.
Per questi motivi, l’Autorità decide di comminare una sanzione di 100 milioni di euro nella sua adunanza del 27 aprile 2021. Ad avviso dell’Autorità, è insita nella condotta tenuta da Google la natura di abuso escludente “i cui effetti investono il benessere del consumatore e la struttura del mercato e possono ostacolare l’innovazione nei servizi connessi alla mobilità elettrica forniti tramite app”[17] Inoltre, l’AGCM aggiunge che una condotta del genere ostacola lo sviluppo della mobilità elettrica in una sua fase cruciale di potenziamento. Nella determinazione del quantum della sanzione ha rilevato in prima battuta la gravità della condotta, la recidività dell’operatore (dal momento che Google è stato più volte condannato in ambito antitrust nell’Unione Europea) e l’entità del fatturato dell’operatore stesso.
5. Conclusioni
Con la diffusione dei Big Data si è avuta una vera e propria rivoluzione che ha toccato non solo il mondo della pubblicità online, che è divenuta sempre più targettizzata, ma anche la serie di attenzioni che il mondo del diritto della concorrenza deve valutare.
La prorompenza dei dati digitali, unitamente ai confini spesso di difficile determinazione della dottrina delle infrastrutture essenziali, non fa altro che rendere il tema oggetto di questa trattazione di complessa definizione. Peraltro, la non tangibilità del dato digitale rende la riflessione circa la possibile sussunzione del dato come infrastruttura essenziale ancora più ardua. Come ricordato precedentemente nel corso di questa trattazione, solo in tempi relativamente recenti, dopo un primo periodo di reticenza da parte della giurisprudenza comunitaria, i confini dell’essential facility sono stati estesi fino a ricomprendere i diritti di proprietà intellettuale. Ad avviso della scrivente, per i Big Data una semplice e ulteriore estensione dei confini della dottrina non sarà sufficiente: sarà necessaria un’apposita fonte di regolazione che disciplini il fenomeno, ciò per una serie di motivi. Tra questi, non vi è tanto la caratteristica di intangibilità del dato digitale – peculiarità se vogliamo già in parte superata con l’estensione della dottrina al diritto di proprietà intellettuale – quanto il fatto per cui l’utilizzo dei Big Data non ha ancora del tutto mostrato le sue molteplici funzionalità e potenzialità (si pensi al recentissimo utilizzo dei dati per motivi sanitari); come per molti altri fenomeni, anche qui si mostra in maniera chiara la sfida del mondo del diritto per antonomasia, quale quella di stare al passo delle nuove dirompenti innovazioni e colmare il prima possibile le lacune legislative che vengono così alla luce. Questa sfida, peraltro, assume una certa urgenza dal momento che, esattamente come nel caso Google – Enel suindicato, si tratta non solo di imprese dominanti che acquisiscono potere con la raccolta di dati, ma di imprese che assolvono la funzione di gatekeeper.
Un’altra motivazione sottesa alla necessità assoluta di una regolazione apposita risiede nella natura stessa del dato digitale che lo discrimina dalla “classica infrastruttura” oggetto dell’essential facility doctrine, ossia l’eventualità che possa riguardare uno o più dati personali del consumatore. Insomma, nel caso dei Big Data come infrastruttura essenziale, nasce un problema di protezione di dati personali che per l’infrastruttura tangibile, classica, sicuramente non sussiste. È necessario, quindi, che lo sviluppo dell’utilizzo dei Big Data vada di pari passo all’attenzione che le aziende devono orientare verso un loro sfruttamento senza danneggiare i consumatori; in questo modo, secondo la Commissaria Vestager, la tensione tra Big Data e concorrenza verrebbe a cessare del tutto[18]. Peraltro, anche in caso di dati non personali, l’eventualità che questi possano riguardare informazioni sensibili a livello strategico-aziendali sussiste, rendendo meritevole anche la condivisione forzata di un dato non personale sotto un profilo più anticoncorrenziale in senso stretto che di privacy, rendendo potenziale la violazione dell’art. 101 del TFUE.
Per ciò che concerne invece una generale riconduzione dell’asset dei dati digitali come infrastruttura essenziale, si può affermare che – così come in passato si è detto sulle infrastrutture classiche – costringere le aziende a condividere le proprie risorse di dati potrebbe ridurre i loro incentivi a innovare e investire e, di conseguenza, i vantaggi dei Big Data non verrebbero effettivamente posti in essere. Proprio sul punto, un ulteriore problema meritevole di essere valutato in una potenziale normativa sta nelle modalità di quantificazione della remunerazione per l’azienda dominante che condivide l’infrastruttura con i propri concorrenti; dinanzi ad un’equa remunerazione per la società dominante, l’incentivo ad innovare per poi condividere un certo asset non si annullerebbe del tutto.
Ad avviso della scrivente, in definitiva, solo eccezionalmente si potrebbe considerare un set di dati digitali una vera e propria infrastruttura essenziale e considerare abusivo il rifiuto da parte di una società dominante di condividere lo stesso con i competitor. Proprio per questo motivo, un’apposita fonte di regolazione, magari settoriale, può essere il giusto compromesso per colmare una pericolosa lacuna normativa. Anche nel campo pubblico, “regolazioni settoriali che consentano allo Stato di accedere a banche dati raccolte da imprese private e utili per ragioni di salute pubblica, ambientali, sicurezza, mobilità, sembrano lo strumento più appropriato per garantire obiettivi di interesse pubblico ed evitare inutili e costose duplicazioni di dati già disponibili”[19].
[1] MAGGIOLINO M. “I Big Data e il Diritto Antitrust, Egea Editore, prima edizione, p. 216
[2] GHEZZI F., OLIVIERI G., “Diritto Antitrust”, Giappichelli editore, II edizione, p.217
[3] Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di imprese, R.G. 15836/2015
[4] Conclusioni dell’Avv. gen. Jacobs — causa c-7/97 presentate il 28 maggio 1998, punto 65
[5] Ibidem, punto 68
[6] Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di imprese, R.G. 15836/2015
[7] Sentenza CGUE, Causa C-418/01. IMS Health GmbH & Co. OHG e altri contro la Commissione pubblicata il 29 aprile 2004 p. 49
[8] M. MAGGIOLINO. “I big data e il diritto antitrust”, Egea Editore, 2018, pp. 1,3
[9] Per ulteriori approfondimenti sulla materia dei Big Data, si rinvia al mio precedente articolo su Salvis Juribus “Le operazioni di concentrazione nei mercati digitali: i casi Facebook – Whatsapp e Google – Fitbit a confronto” http://www.salvisjuribus.it/le-operazioni-di-concentrazione-nei-mercati-digitali-i-casi-facebook-whatsapp-e-google-fitbit-a-confronto/?fbclid=IwAR1i5uM0o4O0YmaJNI0uK4rd4oXZGZvO5nhF5PjWZeyRAo8JHC-Ku5qioiU#_ftn6
[10] MAGGIOLINO M. “I Big Data e il Diritto Antitrust, Egea Editore, prima edizione, p. 42
[11] OCSE (2016), “Big data: bringing competition policy to the digital era – Background note by the Secretariat”, https://one.oecd.org/document/DAF/COMP(2016)14/en/pdf, pag. 22.
[12] “Competition policy for the digital era”, Report della Commissione Europea a cura di Jacques Crémer, Yves-Alexandre de Montjoye, Heike Schweitzer
[13] MAGGIOLINO M. “I Big Data e il Diritto Antitrust, Egea Editore, prima edizione, p. 28
[14] “Competition policy for the digital era”, Report della Commissione Europea a cura di Jacques Crémer, Yves-Alexandre de Montjoye, Heike Schweitzer
[15] Come spiegato sinteticamente ed efficacemente dal Report della Commissione più volte citato in quest’elaborato, “i rifiuti di concedere l’accesso dovrebbero essere soggetti a una valutazione più elaborata ai sensi dell’articolo 102 TFUE laddove (1) il titolare del trattamento ricopra una posizione di gatekeeper di qualche tipo pertinente, ossia l’accesso ai suoi dati è essenziale per competere su uno o più mercati vicini; (2) le richieste di accesso ai dati per questo scopo sono in qualche modo standardizzate
[16] “Competition policy for the digital era”, Report della Commissione Europea a cura di Jacques Crémer, Yves-Alexandre de Montjoye, Heike Schweitzer
[17] Provvedimento A529 dell’AGCM, adunanza del 27 aprile 2021, p. 419
[18] Discorso di M. Vestager tenuto alla Conferenza EDPS-BEUC a Bruxelles il 29 settembre 2016
[19] Indagine conoscitiva sui Big Data delle Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, per le Garanzie nelle Comunicazioni il Garante per la Protezione dei Dati Personali p. 111.
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Carmen Naclerio
Laureata in Giurisprudenza con lode presso l'Università degli Studi di Roma Tor Vergata con una tesi in Diritto Amministrativo intitolata "Natura, compiti e vigilanza dell'ANAC sugli appalti pubblici e i suoi poteri nel precontenzioso". Svolge poi un tirocinio presso l'Autorità Nazionale Anticorruzione e consegue la Laurea Magistrale in Economia e Management presso lo stesso ateneo. Ora corsista nel Master di II Livello in Diritto della concorrenza e dell'innovazione presso l'Università LUISS Guido Carli.
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