La portata offensiva della non punibilità

La portata offensiva della non punibilità

Sommario: 1. Inquadramento dogmatico – 2. Chiave definitoria – 3. Chiavi di lettura – 4. Offensività e non punibilità – 5. Elementi differenziali – 6. Una conclusione – 7. Una incoerenza sistematica

 

1. Inquadramento dogmatico

La clausola generale di “non punibilità per particolare tenuità del fatto” ex art. 131 bis c.p. si colloca, nell’impianto codicistico, come una misura di sistema che intercetta i principi generali di proporzionalità e di sussidiarietà-extrema ratio.

Nell’ambito dell’attività ermeneutica, tuttavia, si pone l’interrogativo circa la possibilità che sia stato interessato, nell’ambito della novella legislativa, anche il principio di offensività.

2. Chiave definitoria

Per offensività si intende la capacità di un fatto, naturalisticamente inteso, di ledere o di porre quantomeno in pericolo un determinato bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Così, detto principio si rivolge, in primo luogo al legislatore, il quale – nella sua opera di selezione del penalmente rilevante – deve interessarsi, in primo luogo, dei fatti in grado di ledere o mettere in pericolo un bene della vita giuridicamente rilevante; mentre, nella sua portata cd secondaria, è principio che si rivolge al giudice, il quale può utilizzarlo come criterio ermeneutico per la dismissione delle cause che non siano tali da richiedere l’operatività della macchina penale (cd selezione secondaria).

3. Chiavi di lettura

Riprendendo le fila del tema introdotto, è d’uopo tenere a mente che l’attività dell’interprete – foriera delle diverse implementazioni pratiche degli istituti giuridici – non può prescindere dalla valutazione di principio in ordine alla coerenza del sistema tutto[1].

Si impone, dunque, al giudice l’onere di valutare se la realizzazione di un determinato fatto abbia una carica offensiva tale da rendere penalmente rilevante il fatto sussunto nella norma incriminatrice. Tradizionalmente, il fondamento positivo della offensività è stato rinvenuto nell’ art. 49 co. 2 c.p. che delinea i connotati del c.d. reato impossibile per carenza di offensività: si tratta, cioè, di fatti che, seppur astrattamente configurabili come reati perché perfettamente sussumibili nella fattispecie astratta, non presentano affatto una carica di disvalore tale da necessitare la risposta penale.

4. Offensività e non punibilità

È parso che detta norma sia, in qualche modo, in corto circuito con il nuovo istituto ex art. 131 bis, nella misura in cui entrambi fanno riferimento alla portata offensiva, mancante o esigua. Si tratta, infatti, di due ipotesi di non punibilità, così che guardando alla declinazione secondaria del principio di offensività (come criterio ermeneutico giustiziabile), è parso che dice sia, in qualche modo, posto nell’alternativa tra l’esercitare il suo potere nelle forme dell’art. 49 co. 2 c.p. ovvero dell’art. 131 bis c.p.

Si è posta subito in evidenza la possibile interferenza tra l’istituto di cui all’art. 131 bis e quello di cui all’art. 49 comma 2: la linea di demarcazione tra reato impossibile, caratterizzato da assenza di portata offensiva e reato non punibile, caratterizzato da portata offensiva esigua, è particolarmente labile, intercettando entrambi la portata offensiva del fatto, declinata come assente (o assolutamente marginale) ovvero come particolarmente tenue.

Sembra, però, che il dubbio, derivi, più che da genuine esigenze ermeneutiche in virtù di piani tematici limitrofi, dal fatto che, tradizionalmente, il principio di offensività rappresenti il leitmotiv principale del diritto penale del fatto ispirato alla concezione realistica.

Per questa teorica, dall’art. 49 co. 2 c.p. scaturiscono tanto l’obbligo per il legislatore di ricorrere alla sanzione penale solo quando vi sia la necessità di tutelare un bene giuridico, quanto il dovere del giudice di verificare se la fattispecie concreta non solo corrisponda a quella astratta – prevista dalla norma incriminatrice – ma anche se integri l’offesa (in termini di lesione o messa in pericolo) dell’interesse tutelato.

Ma particolare tenuità ed offensività possono, solo apparentemente, sembrare concetti sovrapponibili. È, dunque, necessario chiarire le differenze delle due cause di non punibilità.

5. Elementi differenziali

Già la relazione illustrativa allo schema di D. Lgs. 28/2015 chiariva che “la c.d. ‘irrilevanza del fatto’ è istituto diverso da quello della c.d. ‘inoffensività del fatto’. Quest’ultimo attiene alla totale mancanza di offensività del fatto che risulta pertanto privo di un suo elemento costitutivo e in definitiva atipico e insussistente come reato. Com’è noto, l’ipotesi della inoffensività del fatto è stata ricondotta normativamente all’art. 49, comma 2, c.p. Diversamente, l’istituto in questione della “irrilevanza” per particolare tenuità presuppone un fatto tipico e, pertanto, costitutivo di reato ma da ritenere non punibile in ragione dei principi generalissimi di proporzione e di economia processuale. Ne viene che la collocazione topografica della sua disciplina non può che essere quella delle determinazioni del giudice in ordine alla pena: e, pertanto, lo schema di decreto delegato ha ritenuto di inserire la disciplina sostanziale del nuovo istituto in apertura del Titolo V del. Libro. I del Codice penale, subito prima degli articoli concernenti l’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della’ pena. Conseguentemente i primi due commi dell’art. 1 dello schema provvedono a modificare l’intitolazione del Titolo V del Libro I e del suo Capo I per estenderla alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, introducendo poi un nuovo articolo 131 bis destinato ad accogliere la disciplina sostanziale del nuovo istituto”.

Non è trascurabile, dunque, il rischio che la novella possa obliterare l’ambito applicativo dell’art. 49 co. 2, nella misura in cui un fatto privo di offensività potrebbe essere considerato un fatto dotato di particolare tenuità.

Dopo essere stato a lungo considerato un mero doppione negativo dell’art. 56 c.p., oggi il ruolo che l’art. 49 co. 2 si è faticosamente ritagliato sembra essere ristretto così che finirebbe col trovare applicazione solo rispetto a quei fatti che non presentino i requisiti di cui all’art. 131 bis ovvero per quelli per i quali il reo ha espresso il suo dissenso acché siano considerati come particolarmente tenui.

In realtà, solo prima facie è possibile operare la sovrapposizione perché, ad uno sguardo più attento, si nota come l’esclusione della punibilità generale (di cui all’art. 49 co. 2) riguarda fatti privi di idoneità offensiva o dotati di carica lesiva assolutamente marginale e, comunque, il vaglio positivo di detta ipotesi porta il giudicante all’esclusione della tipicità. Infatti, l’art. 49 co. 2 si pone tra le norme che dettano i requisiti per la determinazione della tipicità, così che un fatto inidoneo a produrre un’offesa al bene giuridico non è neanche configurabile come reato per carenza dell’elemento strutturale della tipicità.

La nuova figura ex art. 131 bis, invece, concerne fatti che già sono tipici e offensivi, sebbene in maniera non del tutto marginale ma particolarmente tenue.

Dunque, volendo penetrare la natura prima degli istituti, si può ragionare – seguendo i principi generali della materia, nei termini che seguono.

La non punibilità ex art. 49 co. 2 implementa il c.d. principio di offensività, principio fondamentale del diritto penale di valenza anche costituzionale che opera, come visto, su un duplice livello: quale canone politico-criminale avente come destinatario il legislatore – così che questi selezioni i fatti penalmente rilevanti sulla base della lesione che essi provocano agli interessi tutelati (nella duplice forma di realizzazione oggettiva-materiale e di messa in pericolo del bene) –  quale criterio ermeneutico che indirizzi l’agere del giudicante nella scelta dell’essere o non essere di un reato, ai fini della implementazione della prima categoria del reato: la tipicità.

La non punibilità per particolare tenuità ex art. 131 bis c.p., invece, afferisce ad un fatto già completo degli elementi costitutivi essenziali così che – riferendosi esclusivamente al giudicante – permette di escluderne la punibilità in ossequio allee esigenze di sussidiarietà secondaria e di deflazione processuale.

6. Una conclusione

Sembra ora facile snocciolare il fondo della questione. Mentre nel caso del reato impossibile per inoffensività del fatto la non punibilità è orientata sul versante oggettivo del disvalore d’evento, ponendo in analisi soltanto questa particolare sfaccettatura della fattispecie, nel caso della particolare tenuità, invece, il giudice – al fine di addivenire alla scelta di non punire – deve analizzare tanto il disvalore d’evento quanto quello d’azione, con necessario riferimento alla pregressa condotta del reo e fermo, comunque, il limite edittale di pena (in ragione del criterio di ripartizione oggettivo che ne prevede l’applicabilità solo ai reati con pena infra-quinquennale).

Dunque, più che di concorrenza e/o di scelta alternativa tra l’una e l’altra causa di non punibilità, sembra che le due ipotesi rientrino – entrambe e nello stesso momento – nel paniere di valutazioni del giudicante, come diversi gradi di accertamento nella sua attività di analisi del fatto.

Infatti, se – in sede di tipicità e ai fini dell’inquadramento di un fatto come tipico – il giudicante può servirsi del canone ermeneutico della offensività nella sua declinazione secondaria così da, eventualmente, azionare la causa di non punibilità ex art. 49 co. 2; laddove abbia, invece, già riscontrato che il fatto sia tipico, antigiuridico e colpevole potrà, avendo valutato la ricorrenza dei presupposti ex art. 131 bis, ritenerlo non punibile per particolare tenuità del fatto.

Con non trascurabili conseguenze sul piano extra-penale, il giudice si servirà, dunque, di formule conclusive diverse: nel primo caso, utilizzando la formula “perché il fatto non sussiste”, nel secondo, utilizzando la formula “perché il fatto non è punibile”. In quest’ultima ipotesi, ne deriverà che l’accertamento penale sarà utile ai fini del risarcimento del danno in sede civilistica con conseguenze in ordine all’iscrizione nel casellario giudiziale della pronuncia di assoluzione per non punibilità, e relativa impossibilità di applicazione futura dell’art. 131 bis.

La conferma del distinguo tra art. 49 co. 2 e art. 131 bis è arrivata anche a livello giurisprudenziale da diverse Sentenze della suprema Corte di cassazione. Vanno ricordate, tra le altre le c.d. “Sentenze gemelle” del 2016[2].

7. Una incoerenza sistematica

Tracciata l’autonomia concettuale tra le due cause di non punibilità, residua, una incongruenza, retaggio della diversa anima storica che ha ispirato le due norme. Detta incongruenza, che si traduce in vera e propria incoerenza sistematica, deriva dal fatto che la disciplina dell’art. art. 49 consta di un co. 4 che prevede la possibilità di applicare una misura di sicurezza in caso di reato impossibile, valutata la pericolosità sociale dell’agente. Orbene, dal punto di vista sistematico, ciò si tradurrebbe in una incoerente disciplina della non punibilità lato sensu, dal momento che il giudice, dichiarato un fatto non punibile ex art. 131 bis c.p. non produrrebbe alcun’altra conseguenza, se non quella della iscrizione nel casellario giudiziale, laddove in caso di reato impossibile per inoffensività dell’azione, con una pronuncia assolutoria perché il fatto non sussiste, il giudice potrebbe comunque disporre una misura di sicurezza, valutata la pericolosità sociale dell’agente. Dunque, un fatto tipico, antigiuridico e colpevole ma non punibile ex art. 131 bis c.p. sarebbe trattato più favorevolmente di un fatto per il quale non sarebbe possibile neanche pronunciarsi in termini di tipicità ex art. 49 c.p. per carenza di offensività. Evidentemente un assurdo dettato dalla diversa ispirazione storica delle due norme. La dottrina ha provato a superare l’antinomia sganciando il principio di offensività dall’art. 49. Tuttavia, già in passato era stato fatto un simile tentativo considerando l’art. 49 co. 2 un mero duplicato dell’art. 56 c.p. e si era risolto in una inammissibile interpretatio abrogans.

 

 

 

 

 

 


[1] Così Corte di Cassazione, Sezioni Unite – Sentenza 30 settembre 2013, n.40354 – Pres. Santalucia. “La riflessione scientifica sui fondamenti della penalità ha rimarcato l’esigenza che il fatto di reato esprima oltre ad un dato naturalistico anche un momento di valore, un evento giuridico inteso come concreta offesa all’interesse della vita tutelato dalla norma incriminatrice. La tesi ha dapprima trovato fondamento normativo nell’art. 49 c.p. (…). In breve, il fatto, oltre a possedere i connotati formali tipici, deve anche presentarsi in concreto carico del significato in forza del quale è assunto come fattispecie produttiva di conseguenze giuridiche. (…) Il principio di offensività ha trovato la più alta e compiuta espressione con la sua costituzionalizzazione (…). Nel segno dell’offensività, il legislatore è vincolato ad elevare a reati solo fatti che siano concretamente offensivi di entità reali”.
[2] Cass. SSUU, sent. 25 febbraio 2016 (dep. 6 aprile 2016), n. 13681, Pres. Canzio, Rel. Blaiotta, Imp. Tushaj ed a Cass. SSUU, sent. 25 febbraio 2016 (dep. 6 aprile 2016), n. 13682, Pres. Canzio, Rel. Blaiotta, Imp. Coccimiglio.
Così, nella sentenza “Tushaj” e, ancora, nella sentenza “Coccimiglio”, leggiamo: “l’ordinanza di rimessione, dunque, non coglie nel segno e pecca di astrattezza quando lega il nuovo istituto al principio di offensività. (…) il principio di offensività attiene all’essere o non essere di un reato o di una sua circostanza (…).  La distinzione va sottolineata, anche per rispondere alle preoccupazioni espresse da chi teme che la nuova figura, consentendo di devitalizzare vicende marginali, finisca con il depotenziare il principio di offensività quale chiave per la congrua restrizione dell’area del penalmente rilevante. In realtà, il nuovo istituto è esplicitamente, indiscutibilmente definito e disciplinato come causa di non punibilità e costituisce dunque figura di diritto penale sostanziale. Esso persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio; con effetti anche in tema di deflazione (…). La tesi espressa dall’ordinanza di rimessione condurrebbe a conseguenze paradossali: l’inapplicabilità dell’istituto ai reati bagatellari, caratterizzati di solito dall’omissione di una prescrizione, con conseguente frustrazione delle finalità deflative sottese alla novella”.

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Andrea Cristiano

Ha intrapreso - dopo aver conseguito la maturità presso il Liceo scientifico ”Emilio Segrè” - gli studi giuridici presso l´Università degli studi di Napoli ”Federico II” dove, nell´ottobre 2019, si è laureato con lode discutendo una tesi in diritto penale con il Chiarissimo Prof. Vincenzo Maiello dal titolo ”la non punibilità per speciale tenuità del fatto”. Ha preso parte, dal novembre dello stesso anno al maggio 2021, ad un tirocinio formativo presso l´Ufficio G.I.P. del Tribunale di Napoli, affiancando un Giudice togato nelle funzioni giurisdizionali con attività di ricerca e presenza in udienza. Ha svolto, nel medesimo arco temporale, la pratica forense in ambito civile presso uno Studio Legale con sede in Napoli e Milano specializzato nel contenzioso bancario e societario, ivi svolgendo attività di redazione atti giuridici e partecipando, a seguito dell´abilitazione al patrocinio sostitutivo anche in sostituzione del titolare, alle udienze. Ha conseguito, nell´ottobre 2022, l´abilitazione all´esercizio della professione di avvocato superando la doppia prova dell´esame di stato. E´ autore di diversi articoli giuridici, pubblicati su Cammino Diritto e Salvis Juribus.

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