La possibilità di tassare la perdita di chance
di Ciro Punzo, Francesca Di Santo, Rocco Antonio Albanese
Sommario: 1. La perdita di chance come ipotesi di indennizzo o risarcimento danni? – 1.1. Orientamenti dottrinali – 2. Tassazione della perdita di chance valutata come un indennizzo? – 3. Tassazione della perdita di chance parametrata come risarcimento danni?
1. La perdita di chance come ipotesi di indennizzo o risarcimento danni?
Sotto il profilo tributaristico, la figura del danno da perdita di chance pone la questione della imponibilità della somma ricevuta a titolo di risarcimento da parte del danneggiato.
Il problema è particolarmente rilevante e richiede di essere affrontato in una prospettiva sistematica, che affronti, in primo luogo, un’analisi delle voci di danno sottoposte a tassazione.
Esso prescinde dalla natura aquiliana o contrattuale della responsabilità e, dunque, dalla connotazione propria della obbligazione tipicamente risarcitoria.
Le categorie civilistiche assumono rilievo solo ai fini della qualificazione della somma ricevuta dal danneggiato: operazione necessaria per poter verificare la possibilità che la stessa sia imponibile ai fini fiscali. Ciò significa che, in questo campo, “occorre guardarsi […] dal rischio di trasporre concetti e istituti di natura prettamente civilistica”, atteso che il settore tributario è “regolato da principi e vieppiù da norme giuridiche specifiche […] la cui fondamentale distinzione non attiene […] alla fonte del danno (atto lecito o illecito), bensì alla natura del danno oggetto di ristoro (lucro cessante o danno emergente)”[1].
In sede di imposizione fiscale, il carattere risarcitorio della somma percepita non è atto a tenere la stessa indenne da tassazione.
Occorre, tuttavia, interrogarsi sulla natura reddituale della somma medesima, per comprendere se effettivamente la stessa possa essere tassata a fini IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche). A tal proposito, appare determinante ricordare la distinzione tra danno emergente (perdita) e lucro cessante (mancato guadagno) ex art. 1223 c.c. e, quindi, tra danno attuale e danno futuro.
Questa summa divisio è stata richiamata a più riprese da parte dell’Amministrazione finanziaria per distinguere le somme fiscalmente imponibili da quelle, invece, non rientranti nel reddito della persona fisica. Se il risarcimento è diretto a una reintegrazione nel patrimonio del danneggiato di un quid che quest’ultimo avrebbe conseguito nell’ipotesi in cui non si fosse verificata la condotta illecita che ha dato causalmente origine alla lesione, la somma conseguita non ha valore di ripristinare un reddito già presente nel patrimonio, depauperato a seguito dell’eventus damni.
Come evidenziato dalla dottrina, “l’utile economico conseguibile deve essere diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguir[e] [un dato bene della vita], alla stregua di una valutazione equitativa”[2].
In questo caso, il danno da perdita di chance è inquadrato quale lucro cessante e la somma percepita dal danneggiato a titolo di risarcimento ha funzione di sostituzione del mancato guadagno. In altri termini, essa assume un ruolo di compensazione o di integrazione di quanto non percepito dal soggetto che ha subito il danno.
La diversa ipotesi del danno emergente presuppone, invece, una deminutio patrimonii, ossia una effettiva perdita economica da parte del soggetto danneggiato.
Si tratta di un vero e proprio risarcimento per una privazione subita, atto a reintegrare di una perdita di reddito. Esso si qualifica come “impoverimento patrimoniale immediato del danneggiato e non prospettico, come nel caso di lucro cessante, la determinazione del quale è effettuata secondo un ragionevole criterio di attendibilità dei guadagni”[3].
Tale integrazione può essere intesa quale indennizzo; invece, le somme erogate a titolo di mancato guadagno possono essere connotate come risarcimento del danno stricto sensu inteso.
Pertanto, ai fini tributari, “al di fuori delle ipotesi in cui vi sia una norma speciale che preveda la disciplina fiscale dell’indennità corrisposta, vi è la necessità di individuare puntualmente la funzione di ciascuna attribuzione, al fine di determinare se essa è stata concessa per risarcire un danno o reintegrare un reddito, a titolo, cioè, di reintegrazione del danno emergente o del lucro cessante”[4].
La stessa Corte di Cassazione ha sostenuto che appare “esatto”, dal punto di vista giuridico, concludere che “le somme corrisposte come risarcimento per danno emergente” non debbano e non possano, in nessun caso, essere tassate[5].
1.1. Orientamenti dottrinali
Per comprendere le posizioni dottrinali delineatasi a partire dalla distinzione tra danno emergente e lucro cessante entro la sistematica della perdita da chance, occorre richiamare un principio fondante la materia tributaristica, contenuto nell’art. 53 Cost.
Alla luce del dettato costituzionale di cui al primo comma di suddetta norma, “[t]utti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Di conseguenza, non possono essere tassate le somme che non sono espressione di tale capacità[6].
Risulta indispensabile interrogarsi sul significato di “capacità contributiva”, per comprendere se somme ricevute a titolo di risarcimento del danno da perdita di chance possano o meno rientrare in questa nozione.
Se letto in combinato con l’art. 3 Cost., soggetti passivi del tributo possono essere solo e soltanto quei soggetti che esprimono una certa forza economica; pertanto, la “capacità contributiva” pone un limite all’attività impositiva dello Stato, oltre a costituirne il fondamento. Sotto l’aspetto formale, un ulteriore baluardo è rappresentato dalla riserva di legge posta dall’art. 23 Cost., ai sensi del quale “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.
In ossequio al principio di legalità, un soggetto potrà essere colpito da una imposizione fiscale solo e nel caso in cui ciò sia previsto dal legislatore.
Ne deriva che l’imposta deve essere disciplinata ex lege, almeno nei suoi profili generali, potendo la normativa secondaria intervenire a regolamentarne gli elementi peculiari.
Più nel dettaglio, la nozione di “capacità contributiva” richiede che l’obbligo contributivo sia giustificato da un fondamento di carattere economico.
Come rilevato da risalente giurisprudenza dalla Corte costituzionale, “[t]ale collegamento esige prima di tutto che la somma sia parte della ricchezza considerata e che vi sia proporzionalità, inoltre, fra l’una e l’altra: il collegamento non deve essere distorto per effetto di una dilatazione del carico tributario, con alterazione in eccesso del risultato quantitativo”[7].
A partire da questa ricostruzione, alcuni commentatori hanno evidenziato come le somme ricevute a titolo di indennizzo non possano costituire indice di capacità retributiva perché non creano nuova ricchezza, ma si sostituiscono a quella di cui il soggetto danneggiato è stato privato. Ne discende, pertanto, che non sia possibile assoggettare a tassazione le somme ricevute a titolo di risarcimento del danno c.d. emergente.
Questa conclusione è stata sostenuta anche da quella dottrina che rileva come non possa sussistere una “ricchezza nuova se il beneficio economico che taluno realizza in determinate circostanze, rappresenta soltanto la reintegrazione di una perdita sofferta o di un danno subito”[8]. Parimenti, è stato messo in evidenza che “[n]on ha carattere di reddito la ricchezza affluita al soggetto per indennizzare un danno o per reintegrare una perdita subita”[9].
Quindi, “si deve ammettere che le somme aventi natura risarcitoria sono escluse dal reddito […] in virtù della stessa nozione di reddito che è a fondamento del sistema, vale a dire per assoluta carenza dell’indefettibile requisito rappresentato dalla esistenza ed emersione di una nuova ricchezza”[10].
Da questa teoria, si ricava che restano imponibili esclusivamente le somme corrisposte al danneggiato a titolo di lucro cessante, ossia con funzione di colmare un mancato introito nel patrimonio del soggetto.
Tali somme, difatti, sostituiscono un reddito non percepito dal soggetto.
Invece, le somme liquidate quale danno emergente non sono soggette a tassazione, in quanto prive di funzione integrativa ovvero sostitutiva di redditi non conseguiti.
Il lucro cessante, a differenza dell’indennizzo, è finalizzato a sostituire i mancati introiti nel patrimonio del soggetto percipiente.
Il reddito non conseguito può avere carattere presente ovvero futuro.
Resta fermo il punto per cui la tassazione stabilita ordinariamente dal TUIR si applica solo in caso di lucro cessante e, dunque, di percezione del soggetto di somme riconosciute a titolo di restituzione per mancato guadagno.
Il contribuente, che richieda la restituzione delle somme versate a fini IRPEF, deve dimostrare che la somma percepita in sede risarcitoria debba essere a tassazione, in quanto priva di carattere reddituale. In altri termini, grava sul danneggiato la prova della sussistenza dei requisiti per la non tassazione del quantum risarcitorio, ossia della qualificazione dello stesso come danno emergente e non già quale lucro cessante.
Siffatto onus probandi si configura sia in giudizio, per somme liquidate con sentenza, che in caso di specifica richiesta da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Ai fini dell’attribuzione alla somma risarcitoria di un rilievo reddituale, occorre prendere le mosse dal riferimento normativo in materia, ossia dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), di cui al D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986, da ultimo aggiornato con le modifiche ex Legge n. 178 del 30 dicembre 2020 – c.d. Legge di bilancio 2021.
L’art. 6, primo comma, TUIR distingue varie categorie di redditi: a) redditi fondiari; b) redditi di capitale; c) redditi di lavoro dipendente; d) redditi di lavoro autonomo; e) redditi di impresa; f) redditi diversi.
Le somme percepite a titolo di risarcimento del danno non rientrano in questa elencazione, non potendo essere inquadrati neanche come redditi diversi, la cui elencazione è contenuta, in via tassativa e non già meramente esemplificativa, nella norma di cui all’art. 67 TUIR.
Pur trattandosi di una categoria avente un carattere residuale ed eterogeneo, la stessa non può includere redditi che non siano esplicitamente indicati dal legislatore.
È necessario, quindi, procedere con l’esame dell’art. 6 TUIR, arrivando a esaminare il secondo comma, che precisa: “[i] proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti. Gli interessi moratori e gli interessi per dilazione di pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati”.
Con questa norma, il legislatore distingue le indennità percepite quale risarcimento del danno per redditi non conseguite e quelle costituenti un risarcimento del danno da evento morte o per invalidità permanenti.
Solo in questa ultima fattispecie, la tassazione è esclusa, perché le somme non rientrano ex lege in quelle che concorrono alla formazione del reddito imponibile, ovverosia quelle afferenti alla medesima categoria dei “redditi sostituiti o perduti”.
Pertanto, “l’art. 6 enuncia un principio: se le somme sono erogate in sostituzione di redditi (ovviamente di redditi fiscalmente imponibili), esse costituiscono redditi (imponibili) della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti”[11].
Sul punto, la Suprema Corte ha sostenuto che “le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione soltanto se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi, mentre non costituisce reddito imponibile […] ogni risarcimento inteso a riparare un pregiudizio di natura diversa”[12].
Parimenti affermava la Sezione Tributaria della Corte, con sentenza del 20 giugno 2002, n. 9101, rilevando come l’art. 6, comma 2, TUIR rispondesse alla ratio di “compie[re] la sussunzione – nelle categorie di reddito nominate dal primo comma – di tutte quelle somme riscosse a titolo di risarcimento danni, basandosi non già sul titolo dell’erogazione ma sulla circostanza che il risarcimento sia diretto a compensare la perdita di redditi e non a reintegrare il patrimonio del contribuente. Essa, in conclusione, assoggetta a tributo solo quelle somme percepite dal contribuente, anche in via transattiva, a titolo di risarcimento del danno (da lucro cessante), che siano destinate a reintegrare il danno da mancata percezione dei redditi (e in questo novero compie un’ulteriore esclusione, con riguardo ai redditi non percepiti a causa dell’invalidità permanente o da morte)”.
Partendo da questa lettura della disposizione del TUIR, la Suprema Corte negava che le somme percepite a titolo di risarcimento del danno per lesione della sfera psico-fisica del lavoratore, costretto a lavorare oltre il tetto di orario “esigibile”, debbano essere risarcita a titolo di danno emergente e, quindi, non possano essere assoggettate a tassazione.
Quanto un secondo profilo di interesse, contenuto nel periodo finale della norma di cui al comma 2 dell’art. 6 TUIR, “la prassi amministrativa […] ha affermato che negli indennizzi corrisposti in presenza di eventi permanentemente invalidanti o che hanno, addirittura, provocato la morte del soggetto, il profilo risarcitorio del danno alla persona assume rilevanza assoluta ed è assente. Viceversa, qualsiasi funzione sostitutiva o integrativa di eventuali redditi”[13].
Ne deriva che le somme corrisposte per morte o invalidità permanente si sottraggono in qualsivoglia ipotesi alla tassazione, anche se corrisposte in sostituzione o reintegrazione di un mancato guadagno. Nel contesto della figura della perdita da occasione favorevole, il caso tipico è quello della responsabilità medica per morte del paziente che presentava un quadro clinico coerente con fondate chance di sopravvivenza.
La circolare n. 29/2001 dell’Agenzia delle Entrate ha sostenuto come “se l’evento a fronte del quale viene erogata la prestazione è la morte, questa non costituisce fattispecie imponibile ai sensi dell’art. 6 co. 2 del TUIR”[14].
Qualora si profili tanto un danno patrimoniale, quanto un danno non patrimoniale, che si produce sia nella sfera della vittima (deceduta), che dei prossimi congiunti (c.d. danno patrimoniale riflesso, patito dalle vittime secondarie).
Sia a fini liquidatori che di inquadramento delle somme a livello reddituale, il danno non patrimoniale può essere distinto nelle seguenti voci: a) danno morale, dato dalla sofferenza patita dalla vittima[15]; b) danno esistenziale, che presenta un profilo dinamico e relazionale, quale “pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare a-reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”[16].
Nel caso dell’evento-morte, tale danno si manifesta nella rottura della relazione affettiva intercorrente tra i congiunti e il soggetto deceduto (danno alla vita di relazione)[17]; c) danno biologico, quale lesione della integrità fisica del soggetto[18]. Tale danno è risarcibile oltre i limiti del disposto ex 2059 c.c., secondo cui “il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”, poiché il bene della salute è presidiato da una norma costituzionale (art. 32 Cost.)[19].
Alcuni autori, “sembrano propendere per la tendenziale imponibilità del risarcimento” da danno biologico, “nella considerazione che il sistema tributario non può accordare rilievo […] alla circostanza che una certa entrata fronteggi un logorio psico-fisico”[20].
Si tratta di una conclusione che non trova eco giurisprudenziale, in quanto la Suprema Corte ha ritenuto privo di veste reddituale il risarcimento da danno biologico, facendo rientrare lo stesso nella categoria del danno emergente[21]. Pertanto, non hanno carattere reddituale le somme percepite in sede risarcitoria di un danno biologico.
Prendendo le mosse da questa soluzione, accolta anche da parte della dottrina, occorre rilevare come l’ipotesi della morte e della invalidità permanente attenzionata dal legislatore fiscale al comma secondo dell’art. 6 TUIR elimina qualsivoglia potere d’imposizione, che viene meno quando la lesione indennizzata attraverso il risarcimento del danno concerna uno degli eventi descritti dalla fattispecie.
Si tratta, quindi, di un caso che sfugge alla stretta categorizzazione entro il binomio del danno emergente e del lucro cessante; esso deve essere valutato ex se, dando luogo ad applicazione della eccezione legislativamente prevista.
Questa conclusione viene rafforzata anche dalla relazione ministeriale al D. Lgs. n. 47 del 18 febbraio 2000 (Riforma della disciplina fiscale della previdenza complementare, a norma dell’articolo 3 della legge 13 maggio 1999, n. 133[22]), che sottolinea come le somme di denaro conseguite per morte o invalidità permanente rappresentano prestazioni non assoggettabili a tassazione, purché corrisposte a titolo di rendita.
Una simile esclusione era stata fatta discendere, per le indennità assicurative ottenute dai lavoratori per morte o invalidità permanente, dall’art. 34 del D.P. R. n. 601 del 29 settembre 1973 (Disciplina delle agevolazioni tributarie[23]), connotate come redditi di capitale.
Una ulteriore ipotesi da analizzare è quella relativa alla possibilità di considerare le somme ricevute dal contribuente a titolo risarcitorio per la perdita di chance quali oggetto di tassazione separata. La norma di riferimento è stata inserita nel testo del D.P.R. n. 917/1986, all’art. 17 (Tassazione separata), dopo aver trovato un primo recepimento nell’art. 16, comma primo, lettera a), del TUIR in vigore fino al 31 dicembre 2003, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lettera a), del Decreto-legge n. 41 del 23 febbraio 1995 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica e per l’occupazione nelle aree depresse), convertito in Legge n. 85 del 22 marzo 1995.
Essa non modifica il contenuto dell’art. 6, secondo comma, TUIR[24], ma è una norma di dettaglio che riguarda una determinata voce di reddito, la quale resta soggetta a tassazione separata[25]. Invero, “la collocazione sistematica della disposizione, nel contesto dell’articolo contemplante semplicemente un tipo di modalità di tassazione […] dimostra come la disciplina in esame non abbia, in ogni caso, efficacia di previsione di nuove situazioni imponibili, per cui, in ultima analisi, il solo significato attribuibile all’innovazione legislativa, è quello di avere meramente puntualizzato un particolare regime di tassazione in ordine a determinate fattispecie i cui presupposti di imponibilità trovano invece fondamento in altre prescrizioni normative (art. 6 TUIR)”[26]. La norma in parola elenca tassativamente le somme assoggettate a tassazione separata. L’art. 17 TUIR, primo comma, lettera a), stabilisce che si applica suddetta tassazione alle “indennità e somme percepite una volta tanto in dipendenza della cessazione dei predetti rapporti […] nonché le somme e i valori comunque percepiti, al netto delle spese legali sostenute, anche se a titolo risarcitorio o nel contesto di procedure esecutive, a seguito di provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di transazioni relativi alla risoluzione del rapporto di lavoro”.
Inoltre, la lettera i) del medesimo comma riporta nel novero dei redditi soggetti a tassazione separata anche “le indennità spettanti a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, dei danni consistenti nella perdita di redditi relativi a più anni” (comma 1, lettera i).
A parere di attenta dottrina, questa specificazione non incide sull’inquadramento generale delle somme derivanti da risarcimento del danno e, pertanto, “sui più generali presupposti del tributo, i quali restano disciplinati dall’art. 6 del Testo Unico”[27]. La norma risponde a una ratio antielusiva, poiché è diretta a scongiurare il rischio che le somme indicate siano qualificate come risarcitorie con la sola funzione di sottrarle a tassazione.
In relazione a quanto già evidenziato, l’art. 17 deve essere interpretato alla luce della norma di cui all’art. 6 TUIR: ne deriva, quindi, che le somme percepite dal soggetto come indennizzo a titolo di danno emergente saranno escluse da tassazione.
Secondo la Suprema Corte, la norma di cui all’art. 17 TUIR, “ha natura interpretativa e, perciò, efficacia retroattiva, come tale applicabile ad ogni situazione controversa sorta nella vigenza della pregressa disciplina e non ancora definita, sempreché le somme percepite, anche a titolo transattivo siano destinate a compensare, comunque, un lucro cessante […], e non soltanto un danno emergente”[28].
Per ricostruire il percorso ermeneutico svolto dalla Suprema Corte, si ricordi che il primo prospettato dalla stessa assegnava all’art. 32 del D. L. n. 41/1995 la forza di dotare di una nuova e diversa accezione il concetto di “reddito di lavoro dipendente”, con conseguente assoggettamento a tassazione delle somme ricevute in costanza di tale rapporto di lavoro; ciò sarebbe avvenuto in ogni caso, ossia anche quando le stesse venissero riconosciute come mancanti di una effettiva veste reddituale e, dunque, integranti una ipotesi di danno emergente[29]. In questo senso, la Corte si esprimeva affermando che una somma “risarcitoria in relazione a danno emergente [fosse] non tassabile prima della novella del 1995 e che successivamente […] le somme erogate [dovessero] essere tassate”[30] entro la categoria dei redditi soggetti a tassazione separata. Del resto, la sistematica dei redditi da lavoro non ha carattere assorbente al punto tale da potersi ritenere in essa attratte tutte le somme percepite dal lavoratore, se prive di consistenza reddituale.
La Corte aveva già messo in luce che, prima dell’intervento riformatore del 1995, “[i]n tema di imposte sui redditi, non ogni somma corrisposta in dipendenza del rapporto di lavoro deve considerarsi retributiva e pertanto, ai sensi dell’art. 48 d.p.r. n. 917, assoggettabile […]; infatti a monte della definizione di reddito dettata dal citato art. 48 […] deve porsi la distinzione tra prestazioni reddituali e risarcitorie […]”[31]. Le prestazioni risarcitorie, se qualificate alla stregua di danno emergente, non avrebbero potuto essere assoggettate a tassazione, almeno prima dell’entrata in vigore della novella.
Questo orientamento è stato nel tempo superato, lasciando spazio a una lettura del disposto di cui all’art. 32 del D. L. n. 41/1995 coerente con il principio della non concorrenza dei redditi soggetti a tassazione separata al reddito complessivo del contribuente.
Rientrano in tale categoria le indennità ricevute dal lavoratore a seguito di licenziamento illegittimo o recesso per giusta causa dal contratto di lavoro, così come quelle dirette a risarcire la perdita di occasioni professionali (caso emblematico di perdita di chance).
Nella recente evoluzione giurisprudenziale, è stato altresì sostenuto che sono tassate in via separata anche le somme conseguite dal lavoratore subordinato a seguito di transazione per rinuncia alla pretesa azionata nei confronti del datore di lavoro per licenziamento illegittimo[32].
In conclusione, le somme conseguite dal danneggiato possono essere assoggettate a tassazione solo se sono finalizzate a un reintegro di un reddito che sarebbe stato ragionevolmente perseguito dal contribuente. In altre parole, la somma tassata è quella che copre l’area del reddito non conseguito e non già quella del reddito andato perduto.
Sul punto, la decisione finale in ordine al carattere della somma liquidata e, dunque, alla ripartizione qualificatoria delle singole componenti spetta all’Amministrazione finanziaria.
Come sarà illustrato in seguito, in questo ambito si è sviluppata una vasta casistica diretta a riportare le somme ricevute dal contribuente in sede risarcitoria alle diverse categorie del danno emergente o del lucro cessante.
2. Tassazione della perdita di chance valutata come un indennizzo?
La perdita di chance è stata riportata nell’alveo del danno emergente, soggetto a indennizzo e, quindi, non imponibile ai fini IRPEF, dalla recente giurisprudenza della Corte di Cassazione e da parte della dottrina[33].
Questo filone interpretativo si è sviluppato in ambito lavoristico, ove è emersa con tutta evidenza la questione della risarcibilità del danno cagionato dal mancato sfruttamento di occasioni professionale, soprattutto in termini di progressioni di carriera.
Secondo la Suprema Corte, la chance è valutabile economicamente e, quindi, la sua perdita cagiona una diminuzione patrimoniale, che deve essere ristorata in sede di indennizzo[34].
Tuttavia, le somme conseguite a titolo di perdita di chance possono assumere una funzione indennizzante laddove il danneggiato fornisca la prova della sussistenza e dell’ammontare del danno subito. In mancanza di prova, le somme liquidate a titolo di perdita di chance professionali possono essere correttamente qualificate alla stregua di risarcimenti di danno emergente solo ove l’interessato abbia fornito – in conformità alle indicazioni della Suprema Corte – prova concreta dell’esistenza e del quantum del danno.
In questo senso, un caso degno di nota è stato sottoposto al parere dell’Agenzia delle Entrate.
La fattispecie verteva sulla cessazione della carica di amministratore ricoperta dal contribuente, revocato senza giusta causa dal proprio ufficio.
Egli “aveva ricevuto somme anche a titolo di risarcimento di danni patrimoniali connessi alla perdita di immagine e di opportunità professionali derivanti dalla rimozione della carica ricoperta”[35].
L’Agenzia delle Entrate rammentava che il diritto all’immagine non è oggetto di attenzione legislativa e che la materia si caratterizza per numerose lacune normative, che impediscono di delineare una nozione univoca di danno all’immagine.
Essa si richiama, quindi, alla giurisprudenza della Suprema Corte, che aveva affermato come tale danno comportasse la lesione di una prerogativa “la cui integrità trova fondamento nei diritti della persona umana tutelati dall’articolo 2 Cost. inerente alla lesione della reputazione personale intesa come la valutazione che di un certo soggetto viene fatta nel contesto in cui egli vive. La reputazione personale è individuabile nella valutazione che, in base alla sua storia personale, la comunità (locale, nazionale o internazionale) dà di un determinato soggetto […]”[36]. Con la sentenza del 24 marzo 1995 n. 3247, la Corte ha precisato che l’immagine coincide con “il senso della dignità personale in conformità dell’opinione del gruppo sociale secondo il particolare contesto storico”.
Nel citare un consolidato orientamento della Corte di Cassazione, l’Agenzia delle Entrate[37] ricordava che il contribuente deve dimostrare in concreto l’esistenza del danno emergente, non potendo semplicemente rinviare al contenuto dell’atto transattivo anche se riportato nel verbale di una conciliazione esperita ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, “in assenza di tale prova torna applicabile il principio […], secondo cui alla somma versata dal datore di lavoro in base ad una definizione transattiva della controversia, che tenga ferma la cessazione del rapporto, deve essere presuntivamente attribuita, al di là delle qualificazioni formalmente adottate dalle parti, la natura di ristoro della perdita di retribuzioni che la prosecuzione del rapporto avrebbe implicato, e quindi il risarcimento di un danno qualificabile come lucro cessante”[38].
Tuttavia, in assenza del legame tra rapporto di lavoro e accordo transattivo, le somme percepite sono qualificate alla stregua di indennizzo e non sono assoggettabili a tassazione[39].
Affinchè le somme possano assurgere a indennizzo qualificabile come risarcimento di un danno attuale, “[i]n assenza di specifici elementi di prova risultanti dagli atti transattivi conclusi, tale individuazione deve essere effettuata sulla base di ogni utile elemento fornito dal contribuente interessato dal quale possa desumersi quale parte dell’indennità percepita sia diretta a risarcire il danno emergente subito […]”[40].
In conclusione, a livello fiscale, le somme risarcitorie della perdita di chance, come mancato sfruttamento di una immagine derivante dal mantenimento di una certa carica lavorativa, non sono imponibili ai fini IRPEF.
La Corte ribadisce quanto già evidenziato dalla Sezione tributaria, con sentenza del 3 settembre 2002, n. 12798: “In tema di imposte sui redditi, alla stregua del dettato dell’art. 6, secondo comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 (applicabile nella specie “ratione temporis”), secondo il quale i proventi conseguiti in sostituzione di redditi e le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti, le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione soltanto se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi, mentre non costituisce reddito imponibile (anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 32, comma primo, lett. a, del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito in legge 22 marzo 1995, n. 85) ogni risarcimento inteso a riparare un pregiudizio di natura diversa (nella specie, con valutazione del giudice di merito adeguatamente motivata, insindacabile in sede di legittimità, è stata attribuita natura risarcitoria alla somma corrisposta al dipendente per il pregiudizio, costituente danno emergente, all’immagine professionale in conseguenza dell’anticipata risoluzione del rapporto di lavoro, escludendosene, pertanto, l’assoggettabilità ad IRPEF)”.
Ogniqualvolta venga con certezza configurato un danno da perdita di chance, la giurisprudenza prevalente ritiene il ristoro riconosciuto al danneggiato debba qualificarsi come indennità risarcitoria non tassabile, perché diretta a risarcire la perdita economica patrimoniale.
In altri termini, la perdita di chance è considerata quale parte di danno emergente irrilevante ai fini fiscali, sempreché ciò sia provato dal contribuente.
Una simile impostazione è stata proposta dalla Suprema Corte con l’ordinanza n. 3632 del 7 febbraio 2019, ove è stata ribadita la necessità di assoggettare a tassazione solo le somme percepite come risarcimento per mancato conseguimento di un reddito, ma non quelle ottenute in caso di un pregiudizio di carattere diverso, ossia patrimoniale.
Il caso verteva sulla mancata occasione lavorativa, derivante dalla perduta possibilità di partecipare a un concorso pubblico a seguito di illegittima esclusione dallo stesso.
Nella specie, il contribuente non aveva potuto accedere a una selezione interna al proprio comparto lavorativo, così subendo la perdita di una favorevole opportunità di avanzamento di carriera e di miglioramento professionale. Secondo la Suprema Corte, possono essere tassate solo le somme avente carattere di risarcimento del danno per mancata percezione di un reddito.
Il contribuente impugnava il silenzio-rifiuto dell’Amministrazione finanziaria, a seguito della domanda di rimborso delle somme trattenute a titolo di imposta sulla somma percepita come ristoro per la perdita di chance. Adita la Commissione Tributaria Regionale, lo stesso qualificava la somma de qua quale risarcimento per danno emergente, non soggetto a tassazione perché privo di carattere reddituale.
Invece, i giudici definivano la stessa quale ipotesi di danno patrimoniale futuro, rientrante nella categoria del lucro cessante e, quindi, tassabile ex art. 6 TUIR come indennità sostitutiva di un reddito di lavoro dipendente.
La Suprema Corte accoglieva il ricorso presentato dal contribuente[41] avverso la pronuncia della Commissione Tributaria Regionale, sostenendo che “non [fosse] tassabile il risarcimento […] da perdita di chance, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi e progressioni nell’attività lavorativa a seguito dell’ingiusta esclusione da un concorso per la progressione in carriera”[42].
La chance è un’entità patrimoniale suscettibile di autonoma valutazione economica, la cui perdita può dare luogo a un ristoro a favore del soggetto leso.
La somma percepita dal danneggiato non ha carattere reddituale e non sostituire il reddito non conseguito; pertanto, essa non può essere gravata da imposizione fiscale.
La perdita di chance deve, in ogni caso, essere dimostrata, così come la qualificazione del danno subito come attuale e, quindi, emergente.
Come già accennato, la prova deve essere prodotta dal contribuente, su domanda dell’Amministrazione finanziaria.
Invero, secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il danno da perdita di chance “non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo”.
Pertanto, della perdita di chance “ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore”[43].
3. Tassazione della perdita di chance parametrata come risarcimento danni?
Le somme percepite dal contribuente in sede di risarcimento del danno da perdita di chance sono tassate solo se e in quanto riconducibili alla categoria del lucro cessante.
Questa statuizione è stata ribadita dall’Agenzia delle Entrate, con Risoluzione del 24 maggio 2002, n. 155/E: se “l’indennizzo vada a compensare in via integrativa o sostitutiva la mancata percezione di redditi […], oppure il mancato guadagno, le somme corrisposte, in quanto sostitutive di reddito, vanno assoggettate a tassazione e così ricomprese nel reddito complessivo del soggetto percipiente”.
Tale Risoluzione è stata richiamata e posta a fondamento di un recente parere reso a seguito di una istanza di interpello presentata da un lavoratore (medico specializzato) che aveva percepito dal proprio datore di lavoro (Azienda sanitaria locale) una somma liquidata giudizialmente in via equitativa a titolo di risarcimento danno per illegittima revoca dell’incarico di lavoro, che aveva portato l’istante a perdere ulteriori possibilità professionali (perdita di chance).
La direzione dell’Agenzia delle Entrate osservava come “in tema di risarcimento danni o indennizzi percepiti da un soggetto, [sia] principio generale quello per cui laddove l’indennizzo vada a compensare, in via integrativa o sostitutiva, la mancata percezione di redditi di lavoro, ovvero il mancato guadagno, le somme corrisposte, in quanto sostitutive di reddito, vanno assoggettate a tassazione (cd. lucro cessante). Viceversa, laddove il risarcimento erogato voglia indennizzare il soggetto delle perdite effettivamente subite (c.d. danno emergente), ed abbia la precipua funzione di reintegrazione patrimoniale, tale somma non sarà assoggettata a tassazione. Infatti, in quest’ultimo caso assume rilevanza assoluta il carattere risarcitorio del danno alla persona del soggetto leso e manca una qualsiasi funzione sostitutiva o integrativa di eventuali trattamenti retributivi”[44].
In definitiva, le somme con attitudine sostitutiva rientrano nella categoria del lucro cessante e sono soggette a imposizione IRPEF.
Come già illustrato, non possono invece essere tassate le somme percepite dal danneggiato a titolo di risarcimento del danno c.d. emergente, meramente dirette a indennizzare una perdita patrimoniale.
Nel sostenere questo orientamento, la Suprema Corte ha ricordato la posizione assunta del Ministero delle Finanze, secondo cui “l’indennizzo dei danni costituisce reddito quando si tratta di lucro cessante (cioè di perdita di redditi) e non di danno emergente”[45].
Tracce di questa tesi, divenuta dominante anche in dottrina, si rinvengono specularmente anche nelle pronunce dei giudici di merito.
Tra queste, è possibile annoverare la sentenza n. 65 emanata il 9 aprile 2002 dalla Commissione tributaria regionale della Regione Lombardia.
Essa richiama l’art. 48, prima comma, del D.P.R. n. 597 del 23 settembre 1973[46] (recante norme relative alla Istituzione e disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), ai sensi del quale “[i]l reddito di lavoro dipendente è costituito da tutti i compensi ed emolumenti, comunque denominati, percepiti nel periodo d’imposta in dipendenza del lavoro prestato, anche sotto forma di partecipazione agli utili e a titolo di sussidio o liberalità”.
La disposizione in esame deve essere correlata a quella contenuta nell’art. 49 TUIR, per cui “sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri”.
Il successivo art. 51 TUIR prevede che “il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di elaborazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”[47].
Dalla lettura combinata di queste disposizioni, potrebbe concludersi che ogni somma ricevuta dal lavoratore dipendente in sede risarcitoria di un danno da perdita di chance debba essere assoggettata a tassazione. In realtà, come già evidenziato in sede di analisi dell’art. 17 TUIR, anche le norme sopra illustrate devono essere riportata alla disposizione-chiave di cui all’art. 6 TUIR, che ha carattere generale e, quindi, deve trovare applicazione in via principale rispetto alle norme di dettaglio. Proprio impiegando i parametri indicati all’art. 6 TUIR è possibile qualificare una somma quale dotata di carattere reddituale o meno.
Qualora la somma apporti nuova ricchezza nel patrimonio del contribuente, risulterebbe tassabile a titolo di lucro cessante ai fini IRPEF.
In materia lavoristica, occorre osservare come, di per sé, la retribuzione non includa le indennità percepite dal lavoratore-contribuente in sede di risarcimento del danno a titolo di rimborso di una deminutio patrimoniale (danno emergente).
Se “il reddito imponibile non è soltanto quello derivante dal lavoro effettivamente svolto, ma anche quello che si collega al rapporto e prescinde dalle prestazioni effettivamente svolte”[48], bisogna comprendere quali somme possano essere considerate effettivamente dotate di consistenza reddituale.
Restano difatti imponibili solo le somme rientranti nella voce del lucro cessante, fermo restando che le stesse devono essere percepite in costanza di rapporto di lavoro o comunque risultare collegate al rapporto medesimo[49].
A conferma di ciò, la Commissione Tributaria della Regione Lombardia ha sostenuto, con sentenza del 1° luglio 2003, n. 37, che ai sensi del secondo comma dell’art. 6 TUIR, sono soggette a IRPEF solo le somme conseguite dal lavoratore a titolo di reintegrazione per una perdita reddituale subita a seguito di un evento lesivo.
Anche in materia previdenziale, l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) aveva precisato con circolare n. 263/1997 come “le somme date per transazioni intervenute in rapporto al rapporto di lavoro e nascenti da pretese vertenti su elementi imponibili rientra[sser]o nell’imponibile contributivo”.
In via del tutto indipendente dalla qualificazione dell’atto transattivo proposta dalle parti, le somme percepite possono essere sottratte alla contribuzione solo in assenza di un nesso con il rapporto di lavoro.
Ancora in materia lavoristica, degna di nota è la sentenza della Corte di Cassazione, sezione tributaria, del 16 settembre 2005, n. 18369.
Con questa pronuncia, gli Ermellini hanno riportato all’area della tassabilità l’indennità supplementare conseguita da un dirigente licenziato illegittimamente[50], parimenti a quanto prospettato dall’Amministrazione finanziaria[51].
La somma conseguita, avendo valore di ristoro di un mancato guadagno, assumeva la configurazione di lucro cessante e veniva inquadrata nella categoria del reddito da lavoro dipendente. Nel caso di specie, il dirigente domandava il rimborso delle ritenute d’acconto applicate sulla somma ricevuta dal datore di lavoro ex art. 19, comma 15, del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) Dirigenti Industria, per poi ricorrere avverso il silenzio-rifiuto dall’Amministrazione finanziaria innanzi alla Commissione Tributaria provinciale, che accoglieva il ricorso qualificando la somma ricevuta dal dirigente come indennizzo non tassabile. L’Amministrazione finanziaria presentava ricorso avverso la sentenza alla Commissione Tributaria Regionale. Il giudice di secondo grado, rigettando il ricorso, rilevava come l’indennità in esame (c.d. indennità suppletiva o supplementare) rispondesse alla ratio di sanzionare il datore di lavoro per la condotta illecita, oltreché di ristorare la perdita di chance subita dal dirigente, in termini di opportunità professionali.
Essa non dipendeva dalla liquidazione del danno perché era definita nel quantum dalla fonte negoziale (CCNL), la quale prevedeva “scaglioni” di indennità, in base all’età del dipendente licenziato, stante la difficoltà potenzialmente maggiore per un soggetto in età più avanzata di trovare una nuova occupazione[52].
A parere dell’Amministrazione finanziaria, questa ricostruzione non considerava la lettera dell’art. 19 CCNL, che regolava esclusivamente le voci positive del reddito di lavoro dipendente e non l’indennizzo da perdita di chance, che invece avrebbero avuto rilievo sostitutivo rispetto al reddito e, quindi, avrebbero dovuto essere tassate a titolo di lucro cessante. Questa soluzione interpretativa ha trovato accoglimento da parte della Suprema Corte, che osservava: “l’indennità prevista dal contratto collettivo dei dirigenti di aziende industriali per l’ipotesi di licenziamento ingiustificato o di recesso per giusta causa è assoggettata a tassazione separata e a ritenuta d’acconto, atteso che, secondo la disciplina dettata dagli artt. 6 e 17 del Tuir, tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte e, quindi, tutte le indennità aventi causa o che traggono comunque origine dal rapporto di lavoro, comprese le indennità per la risoluzione del rapporto per illegittimo comportamento del datore di lavoro, costituiscono redditi da lavoro dipendente”.
L’art. 17 TUIR, il quale applica la tassazione separata alle somme di carattere risarcitorio, deve essere letto in combinato con l’art. 7 TUIR; dunque, la tassazione delle somme deve essere valutata alla luce dei redditi “sostituiti o perduti”.
Le somme sostituiscono i redditi di lavoro dipendente e non potranno pertanto essere sottratte a tassazione. Qualora esse fossero conseguite in un periodo d’imposta posteriore rispetto a quello a cui sono imputabili le somme che sostituiscono, rientreranno nella categoria dei redditi soggetti a tassazione separata, sempre se rientrano nella elencazione tassativamente prevista dall’art. 17 TUIR.
I giudici di legittimità stabilivano che le somme ricevute dal dirigente in sede di risarcimento del danno da perdita di chance costituiscono reddito imponibile ai fini IRPEF se volte a ristorare la mancata percezione del reddito di lavoro dipendente.
In linea con la propria costante giurisprudenza, la Corte rilevava che “l’indennità supplementare per licenziamento ingiustificato corrisposta, sulla base della contrattazione collettiva, ai dirigenti di azienda incorsi in licenziamento da ravvisarsi privo di giustificazione, in tanto può essere riscontrata tassabile, in quanto risulti accertata la relativa fattuale destinazione a coprire un danno, consistito nella perdita di redditi (delle retribuzioni che sarebbero state percepite nell’ipotesi di prosecuzione del rapporto di lavoro), e non un pregiudizio diverso”[53].
L’Agenzia delle Entrate, con la già citata risoluzione n. 155/E del 24 maggio 2002, ha chiarito che “laddove il risarcimento erogato voglia indennizzare il soggetto delle perdite affettivamente subite (il c.d. danno emergente), e abbia quindi la precipua funzione di reintegrazione patrimoniale, tale somma non sarà assoggetta a tassazione”.
Grava sul contribuente l’onere di provare, in sede di richiesta di rimborso di quanto ritenuto alla fonte a titolo d’imposta, che la somma non è finalizzata a sostituire il mancato conseguimento del reddito di lavoro, ma è volta a colmare una deminutio patrimonii.
In dottrina, è stato osservato che “le indennità aggiuntive corrisposte a seguito di ingiusto licenziamento sono intassabili quando non trovano il loro fondamento nel venir meno del sinallagma contrattuale, ma ad esso sono occasionalmente collegate e dipendono da un titolo diverso, quale, nella specie, il danno cagionato all’immagine del dipendente”[54].
Giova infine ricordare un importante mutamento di orientamento giurisprudenziale e dottrinale relativo al c.d. danno alla professionalità, derivante da demansionamento in violazione della disposizione di cui all’art. 2103, primo comma, c.c. (“Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”), e integrante una perdita di chance nei termini della mancata occasione di avanzamento lavorativo. Inizialmente, tanto la Suprema Corte, quanto l’Amministrazione finanziaria[55] avevano riportato questa figura all’ipotesi di lucro cessante.
Con sentenza n. 3082 del 17 febbraio 2004, la Cassazione aveva rilevato che “demansionamento del lavoratore da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all’obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del cosiddetto danno da dequalificazione professionale. Tale danno può assumere aspetti diversi in quanto può consistere sia nel danno patrimoniale, derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, sia in una lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione”.
Si tratta della tipica ipotesi di danno costituito da più voci (c.d. danno composito), liquidato come una somma che potrebbe, quindi, essere qualificata diversamente, in base alla presenza di prestazioni reddituali e altre non reddituali.
La dottrina ha osservato che, in questi casi, le voci del danno emergente e del lucro cessante possono essere parametrate alla luce del “rapporto proporzionale percentuale sussistente tra le quote retributive e non retributive (o non reddituali)”[56].
A parere della Corte, in caso di danno composito, “le cui componenti non è detto che sussistano tutte in una stessa fattispecie e delle quali, per ciascuna, deve essere data una specifica prova circa il nesso di causalità. In assenza di elementi probatori che ne consentano una diversa qualificazione, l’indennità percepita da un lavoratore a seguito di transazione avente ad oggetto la risoluzione del rapporto di lavoro, a titolo di risarcimento del danno da dequalificazione professionale, deve ritenersi diretta a risarcire la perdita di redditi cagionata al lavoratore dal comportamento illegittimo del datore di lavoro”[57].
Il danno all’immagine, come in seguito rilevato dall’Agenza delle Entrate con Risoluzione n. 356/E, non ha rilievo patrimoniale, in quanto volto a ripristinare “una perdita di credibilità e di stima agli occhi della clientela”.
Esso ha natura reddituale e deve essere tassato come lucro cessante. Nell’ipotesi di specie, le somme erano assoggettate alle ritenute previste dall’art. 25 (Ritenuta sui redditi di lavoro autonomo e su altri redditi) del D.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973.
Ancora in tema di demansionamento, si ricorda l’orientamento consolidato anche con la sentenza n. 28887/2008, ove la Corte ha rilevato che non possa essere soggetta a tassazione la somma che “non rappresent[i] alcuna reintegrazione di reddito patrimoniale non percepito, ma piuttosto il risarcimento del danno alla professionalità e all’immagine […]”[58].
Di soluzione più complessa risulta invece la qualificazione della somma percepita dal lavoratore demansionato.
Invero, l’adibizione a mansioni inferiori può cagionare una serie di pregiudizi non limitati alla perdita di occasione favorevole.
Come rilevato in dottrina, tale situazione, “oltre al depauperamento della professionalità del lavoratore, può produrre altre conseguenze negative, vuoi legate alla perdita di chance, vuoi incidenti sulla integrità fisica e morale in quanto tale”[59].
Fermo restando l’onus probandi, l’imposizione tributaria dovrebbe divergere in ragione delle varie voci di danno, potendo rientrare alcuni profili nel danno emergente, altri nel lucro cessante. Si tratta, in altre parole, di una fattispecie eterogenea, che richiede di essere esaminata secondo un approccio case by case.
Da ultimo, sono state escluse dall’area del lucro cessante le somme percepite a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da perdita di chance qualificato come danno alla professionalità. Tali somme sono considerate prive di consistenza reddituale e, dunque, non soggette a tassazione. Sul punto si è pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza n. 1472 del 3 febbraio 2021. Il caso verteva sulla richiesta di una lavoratrice di ottenere la restituzione da parte dell’Amministrazione finanziaria delle somme trattenute a titolo di imposta sui redditi di lavoro dipendente su un importo versato come risarcimento danno per dequalificazione.
La Corte inquadrava l’ipotesi nella categoria del danno emergente, non sussistendo un reddito non percepito da ristorare. Ne deriva, quindi, che il danno alla professionalità, come particolare forma di danno privo di consistenza patrimoniale che può atteggiarsi anche come danno da perdita di chance, non può essere imponibile ai fini IRPEF.
Non sono parimenti soggette a tassazione IRPEF le somme percepite dal danneggiato a seguito di danno alla salute. Come già osservato, anche in questo caso, la qualificazione entro la sfera del lucro cessante è stata riportata alla diversa area del danno emergente.
[1] S. Panseri, Il reddito da lavoro dipendente tra danno emergente intassabile e spese inerenti indeducibili, in Il Fisco, n. 39, 1999, p. 12426.
[2] C. Gobbi, Accertamento tributario illegittimo e diritto al risarcimento del danno, Giuffrè, Milano, 2013, p. 114.
[3] AA.VV., Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi, Ipsoa, Milano, 2003, p. 55.
[4] G. Melis, Lezioni di diritto tributario, Giappichelli, Torino, 2018, p. 547.
[5] Cass. civile, 11 giugno 2004, n. 11186.
[6] Per un approfondimento relativo a questo principio, si vedano E. De Mita, Il principio di capacità contributiva, in Interesse fiscale e tutela del contribuente, Giuffrè, Milano, 1991, p. 33 ss.; G. Falsitta, Storia veridica, in base ai “lavori preparatori”, della inclusione del principio di capacità contributiva nella Costituzione, in Riv. dir. trib., vol. I, 2009, p. 97 ss.; F. Moschetti, Capacità contributiva, in Enciclopedia giuridica Treccani, Istituto per l’Enciclopedia italiana, Roma, 1988, vol. 2. Inizialmente, il principio contenuto nell’art. 53 Cost. era stato qualificato come indeterminato, al punto tale da impedire alla dottrina di tracciare una netta demarcazione dei criteri in base al quale stabilire un quantum di capacità contributiva (c.d. teoria della “scatola vuota”, sostenuta in particolare da A. D. Giannini, Rapporto della Commissione Economica presentato all’Assemblea costituente. V Finanza, Roma, 1946, p. 33 ss.). A questa ricostruzione, si affiancava quella di coloro che ritenevano necessario rapportare la capacità contributiva al valore dei servizi pubblici goduti dal cittadino: invero, il concorso alla spesa pubblica consentiva anche di sostenere le spese di tali servizi offerti al contribuente. In questi termini, il tributo rappresenta la controprestazione del servizio, secondo la c.d. “teoria contrattuale dell’imposta” (così G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Giuffrè, Milano, 2008, p. 237). In entrambi i casi, si trattava di posizioni di svalutazione nei confronti della fondamentale portata del principio costituzionale, la cui ratio è essenzialmente garantista, perché pone un limite al possibile arbitrio all’esercizio del potere di imposizione fiscale da parte statale, nonché solidaristica ex art. 2 Cost. D’altra parte, la collocazione dell’art. 53 nel titolo IV della Carta costituzionale (Rapporti politici), rivela come l’imposizione tributaria costituisca un elemento indefettibile per lo Stato di diritto, secondo il principio ubi civitas ibi tributum. Oltre a esprimere la partecipazione a un interesse della collettività, l’art. 53 Cost. considera la posizione del singolo: uti singuli, invero, ciascuno è chiamato a concorre alla spesa pubblica.
[7] Corte cost., 10 maggio 1972, n. 92.
[8] A. D. Giannini, Istituzioni di diritto tributario, Giuffrè, Milano, 1995, p. 362.
[9] N. D’Amati, voce Ricchezza mobile, in Nuov. dig. it., XV, 1968, p. 874. Similmente, R. Oberti Becchi, Il concetto di reddito mobiliare, in Dir. Prat. Trib., XLVI, II, 1975, p. 694 ss., e Illecito e risarcimento del danno: riflessi impositivi, in Il Fisco, fasc. 12, 1994, p. 3214, secondo cui “[n]on ha carattere di reddito la ricchezza pervenuta nel patrimonio del soggetto per indennizzare un danno o per reintegrare una perdita subita”.
[10] M. Giua, Danno biologico: disciplina fiscale delle somme corrisposte a titolo risarcitorio ad un dipendente, in Filodiritto, www.filodiritto.com
[11] R. Betti, Le indennità risarcitorie nella determinazione del reddito di lavoro dipendente, in Il Sole 24 Ore, n. 12, 1994, p. 911.
Per completezza, appare utile riportare parte del contenuto della Circolare n. 326/E del 23 dicembre 1997, con la quale il Ministero delle Finanze è chiarito la portata dell’art. 6, comma 2, TUIR: “[i]n forza di questa disposizione tutte le indennità e le somme o i valori percepiti in sostituzione di redditi di lavoro dipendente o equiparati a questi (ad esempio, la cassa integrazione, l’indennità di disoccupazione, la mobilità, la indennità di maternità, etc.), comprese quelle che derivano da transazioni di qualunque tipo e l’assegno alimentare corrisposto in via provvisoria a dipendenti per i quali pende il giudizio innanzi all’autorità giudiziaria, sono assoggettabili a tassazione come redditi di lavoro dipendente. Conseguentemente a dette somme si applicherà l’articolo 48 del TUIR, per la determinazione del reddito e, se corrisposte da un sostituto d’imposta, questi dovrà operare le ritenute di acconto. Naturalmente, qualora le indennità o le somme sostitutive di reddito di lavoro dipendente si riferiscano a redditi che avrebbero dovuto essere percepiti in un determinato periodo d’imposta e, in loro sostituzione, vengono percepite in un periodo d’imposta successivo, si renderà applicabile anche la tassazione separata, se ricorrono le condizioni previste dall’articolo 16, comma 1, lettera b), del TUIR, altrimenti saranno tassabili secondo i criteri ordinari. Ad esempio, le somme e i valori percepiti a seguito di transazioni, diverse da quelle relative alla cessazione del rapporto di lavoro allorquando non è rinvenibile alcuna delle condizioni richieste dall’articolo 16, comma 1, lettere b), saranno soggetti a tassazione ordinaria. Si ricorda, invece, che le somme e i valori comunque percepiti, al netto delle spese legali sostenute, anche se a titolo risarcitorio o nel contesto di procedure esecutive, a seguito di provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di transazioni relative alla risoluzione del rapporto di lavoro, sono sempre assoggettati a tassazione separata ai sensi dell’articolo 16, comma 1, lettera a), ultima parte”.
[12] Cass. civile, sez. V, 3 settembre 2003, n. 12789. Si veda anche Cass. civile, 5 agosto 2002, n. 11687, secondo cui “in tema di imposte sui redditi, alla stregua del dettato dell’art. 6, II comma DPR 917/1986, le somme percepite dal contribuente a titolo di risarcimento vanno considerate reddito assoggettabile ad Irpef solo se e nei limiti in cui risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi”.
[13] G. Melis, Lezioni di diritto tributario, cit., p. 547.
[14] A. Cotto, G. Valente, G. Odetto, Commentario al TUIR, Ipsoa, Milano, 2014, p. 565.
[15] Come rilevato dalla Suprema Corte, sez. Unite, con sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008, legata ad altre tre sentenze “gemelle” c.d. di San Martino, rispettivamente n. 26973, 26974 e 26975, il danno morale è riconosciuto a seguito di una “sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di un più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato un turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferto […] senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano state dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente”.
[16] Cass. civile, 8 maggio 2012, n. 6930 che ripropone la nozione di danno non patrimoniale delineata dalle Sezioni Unite con sentenza n. 6572 del 24 marzo 2006.
[17] A seguito di due importanti pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – la già citata sentenza n. 6572 del 24 marzo 2006 (ibidem) e la sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008 –, che hanno riportato il danno non patrimoniale a una categoria unitaria diretta a indennizzare il soggetto leso da un pregiudizio con una somma che assume carattere non reddituale ed è, quindi, non soggetta a tassazione. La liquidazione del danno è finalizzata a un ripristino della situazione antecedente al fatto illecito.
[18] Si vedano anche gli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni Private (D. Lgs. del 9 settembre 2005, n. 209), da cui si ricava che il danno biologico consiste nella “lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato”.
[19] Cfr. Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184. Secondo risalente giurisprudenza della Corte di Cassazione, “il risarcimento del danno per la lesione del bene della salute non può essere limitato dalle conseguenze che incidono sull’attitudine a produrre reddito, ma deve comprendere anche il cosiddetto danno biologico – inteso come menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata in quanto incidente sul valore uomo – suscettibile di valutazione equitativa e costituente una species di danno ingiusto al pari delle tradizionali categorie del danno patrimoniale, comprendente le menomazioni del complesso dei rapporti giuridici patrimoniali che fanno capo al soggetto e del danno non patrimoniale, ristretto alla nozione classica della somma delle sofferenze fisiche e morali” (sentenza n. 6134/1984).
[20] G. Stancati, Le erogazioni risarcitorie nella determinazione del reddito di lavoro dipendente, in Boll. Trib., n. 20, 2006, p. 1602.
[21] Si veda Cass. civile, 13 gennaio 1993, n. 357, in Foro italiano, vol. I, 1993, p. 1897; Cass. civile, 22 ottobre 2002, n. 14908, in Rep. foro it., Impugnazioni civili, n. 12, p. 3460; Cass. civile, 4 novembre 2003, n. 16525, in Foro italiano, vol. I, 2004, p. 779; Cass. civile, 11 giugno 2004, n. 11186, in Riv. giur. trib., 2004, p. 1132.
[22] In Gazzetta Ufficiale, n. 57 del 9 marzo 2000 – Supplemento Ordinario n. 41.
[23] In Gazzetta Ufficiale n. 268 del 16 ottobre 1973 – Supplemento Ordinario n. 2.
[24] Così Cass. civile, 14 novembre 2002, n. 15991.
[25] Cass. civile, 17 agosto 2004, n. 16014.
[26] C. Russo, La nuova disciplina fiscale dei redditi di lavoro in materia di risarcimenti e transazioni, in Il Fisco, n. 29, 1996, p. 6954.
[27] M. Villani, La giurisprudenza in tema di tassazione ai fini Irpef delle somme percepite a titolo di risarcimento del danno, in Commercialista telematico, 2005, p. 205.
[28] Cass. civile, sez. V, 2 febbraio 2001, n. 1467. Cfr. anche Cass. civile, sez. I, 11 ottobre 1997, n. 9893. In dottrina, si veda V. Ficari, Tassazione delle somme corrisposte a titolo transattivo e di risarcimento del lucro cessante, in Rass. trib., 1998, p. 1377.
[29] Cass. civile, 11 ottobre 1997, n. 9893; analogamente, Cass. civile, 14 dicembre 1999, n. 14008.
[30] Ibidem.
[31] Cass. civile, sez. I, 26 maggio 1999, n. 5081.
[32] Cass. civile, 3 maggio 2019, n. 11634.
[33] F. Petrucci, Cassazione sul regime delle somme risarcitorie ai lavoratori. I danni emergenti senza Irpef, in Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2004, p. 25.
[34] Si vedano le già citate sentenze Cass. civile, sez. III, 21 luglio 2003, n. 11322; Cass. civile, sez. III, 7 luglio 2006, n. 15522; Cass. civile, sez. III, 25 maggio 2007, n. 12243.
[35] Cit. in G. Dan, M. Gabelli, Fringe benefits e rimborsi spese, Ipsoa, Milano, 2010, p. 27.
[36] Ibidem.
[37] Si vedano le sentenze n. 360/2009, n. 14167/2003 e n. 4099/2000.
[38] Agenzia della Entrate, Divisione contribuenti. Direzione Centrale persone fisiche, lavoratori autonomi ed enti non commerciali, Risposta n. 27, 2020, p. 5.
[39] Cass. civile, 11 ottobre 1997, n. 9893, e 28 luglio 2000, n. 995. Cfr. anche Commissione Tributaria Lazio, 20 aprile 2005, n.48.
[40] Agenzia della Entrate, Risoluzione n. 106/E del 22 aprile 2009. Sul punto, si veda anche Cass. civile, sez. V, 17 febbraio 2004 n. 3082, in Dir. e prat. trib., 2004, n. 2, p. 1639 ss., anche in Rass. Tributaria, fasc. 5, 2004, p. 1836 ss., con nota di G. Galletti, Demansionamento del lavoratore e dequalificazione professionale: l’onere probatorio nel giudizio e nella qualificazione della natura del risarcimento del danno ai fini tributari.
[41] “Il ricorrente ha percepito il risarcimento per la perdita di possibilità conseguente ad irregolarità verificatesi nello svolgimento di un concorso interno per la promozione a funzionario; il giudice del lavoro ha riconosciuto al ricorrente il risarcimento del danno emergente (consistente appunto nella perdita delle possibilità ricollegate complessivamente alla progressione di carriera) e, per la quantificazione dell’importo dovuto, ha fatto ricorso al criterio di valutazione equitativa con riferimento al maggior stipendio non conseguito” (Cass., Sez. Trib., 7 febbraio 2019, n. 3632).
[42] Ibidem.
[43] Cass., Sez. Unite, 24 marzo 2006, n. 6572.
[44] Agenzia della Entrate, Divisione contribuenti. Direzione Centrale persone fisiche, lavoratori autonomi ed enti non commerciali, Risposta n. 222, 2021, pp. 5-6.
[45] Cass. civile, sez. V, 17 agosto 2004, n. 16014, in Corriere Tributario, n. 46, 2004, p. 3647 ss.
[46] In Gazzetta Ufficiale n. 268 del 16 ottobre 1973.
[47] Si veda F. Crovato, I redditi da lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, Cedam, Padova, 2001. Si ricordi, inoltre, che l’enunciato conclusivo della disposizione in esame – “in relazione al rapporto di lavoro” – sostituisce la precedente versione, modificata dal D. Lgs. 314 del 2 settembre 1997 (“in dipendenza al rapporto di lavoro”), recante norme di Armonizzazione, razionalizzazione e semplificazione delle disposizioni fiscali e previdenziali concernenti i redditi di lavoro dipendente e dei relativi adempimenti da parte dei datori di lavoro.
[48] F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Utet, Torino, 2020, p. 56.
[49] Questo principio è stato ribadito anche dalla dottrina, che ha sottolineato come tali somme “debb[a]no afferire a danno da “lucro cessante” (e non a danno emergente) ma essere anche correlate o relative all’evento “risoluzione del rapporto” (il che normalmente risalta per il dato temporale della contestualità di conferimento o per l’inerenza di un licenziamento all’atto di rescissione del rapporto)” (M. Meucci, Esenzione contributiva e e fiscale delle somme risarcitorie dei danni emergenti, in Diritto e Lavoro, 2002, disponibile all’indirizzo www.dirittolavoro.org).
[50] Questo tipo di licenziamento dà luogo a estinzione del rapporto di lavoro e permette al lavoratore di ricevere un indennizzo quale “indennità risarcitoria onnicomprensiva” ex art. 18, comma 5, Statuto dei Lavoratori (Legge 20 maggio 1970, n. 300).
[51] Qualche anno prima, la Commissione tributaria provinciale di Savona, Sezione IV, sentenza n. 219 del 2 maggio 2000, aveva stabilito, richiamando l’art. 6 TUIR, che il “risarcimento di danno (emergente) riguardante una perdita patrimoniale, non costitu[isce] reddito tassabile, e quello riguardante il mancato guadagno (lucro cessante), invece tassabile ai fini IRPEF”. Pertanto, “l’emolumento corrisposto a lavoratore dipendente alla fine del rapporto di lavoro è volto a risarcire il mancato guadagno conseguente a licenziamento ed è, dunque, assoggettabile ad IRPEF, a norma del citato art. 6 D.P.R. n 917/86”.
[52] “Il dirigente licenziato ingiustamente nella fascia bassa dell’intervallo di età previsto dalla contrattazione, subisce un danno dovuto dalla difficoltà di ritrovare un impiego che viene compensato dalla giovane età (che si presume essere un atout nella ricerca di un nuovo impiego); al converso, il dirigente licenziato tra i 52 e i 56 subisce analogamente un danno per la difficoltà indotta dal disonore del licenziamento: tale danno è però mitigato dal fatto di ritrovarsi a ridosso del periodo in cui è consentito raggiungere la quiescenza16; vengono “premiati” quindi dall’indennità coloro che risultano non più così giovani da poter confidare in un facile reimpiego, né così vicini al periodo di quiescenza” (E. Marello, Il controverso trattamento reddituale dell’indennità supplementare dirigenziale, nota a Comm. Reg. Trieste, sez. I, 21 novembre 2006, n. 84, in Giurisprudenza italiana, 2007, p. 1819).
[53] Cass. civile, sentenze n. 9893/1997, n. 10419/1998, n. 3109/2000, n. 11687/2002 e n. 1467/2001.
[54] L’Autore prosegue rilevando come “l’evidente distinzione fatta tra il danno da lucro cessante, derivante dal mancato guadagno direttamente correlato al licenziamento, ed il danno emergente, rappresentato dall’ingiusta diminuzione del valore professionale del lavoratore, conseguita allo scioglimento del rapporto lavorativo senza causa ad esso adeguata, ed il corretto riferimento dell’intassabilità della somma alla sua percezione per quest’ultimo danno, escludono, dunque, la violazione e la falsa applicazione della norma tributaria” (M. Villani, La giurisprudenza in tema di tassazione ai fini Irpef delle somme percepite a titolo di risarcimento del danno, p. 207).
[55] Si veda la Risoluzione n. 356/E del 7 dicembre 2007.
[56] M. Meucci, La tassazione delle somme risarcitorie di danno, in Diritto e Lavoro, 2010, disponibile all’indirizzo www.dirittolavoro.org
[57] Cass. civile, 17 febbraio 2004, n. 3082.
[58] Cass. civile, 23 settembre 2008, n. 28887.
[59] G. Stancati, Le erogazioni risarcitorie nella determinazione del reddito di lavoro dipendente, cit., p. 1602.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.
Ciro Punzo
Latest posts by Ciro Punzo (see all)
- La possibilità di tassare la perdita di chance - 6 December 2024
- Supporto al lavoro di cura dei caregiver familiari ed iniziative a livello regionale - 5 December 2024
- Comparazione dei codici etici - 29 November 2024