La prestazione medico-assistenziale nei confronti del latitante: i contorni di punibilità tra liceità, favoreggiamento ed associazione di stampo mafioso.

La prestazione medico-assistenziale nei confronti del latitante: i contorni di punibilità tra liceità, favoreggiamento ed associazione di stampo mafioso.

Sommario: 1. Introduzione – 2. Beneficiario della prestazione medica affiliato ad una associazione di tipo mafioso – 2.1 Criteri di discrimen. Il superamento del criterio cronologico – 2.1.2 Il criterio oggettivo e l’elaborazione di un modello causale – 2.1.3. Il criterio soggettivo. Il dolo dell’extraneus – 3. I confini di liceità della condotta sanitaria

1. Introduzione

Il tema della liceità penale della prestazione medica a beneficio di persona ricercata dalla giustizia trova nei precedenti della Corte di Cassazione il principio secondo cui non può rispondere penalmente il sanitario che si sia limitato alla prestazione della propria assistenza, senza osservare altri comportamenti attivi contrari alle indagini in corso da parte della polizia, e tali da far insorgere il pericolo che le investigazioni vengano eluse o che falliscano le ricerche della persona indagata. Le numerose pronunce sul tema sembrano delineare alcune proposizioni fondamentali. Primariamente la latitanza non può costituire in nessun caso ostacolo alla tutela della salute, neppure quando essa sia notoria «posto che il medico ha il dovere giuridico di assistere chiunque abbia necessità delle sue prestazioni professionali, salvo l’obbligo di referto»[1]. Altresì, nessuna incidenza nella valutazione della fattispecie può avere la circostanza dei precedenti rapporti personali tra il medico ed il latitante, attesa la natura oggettiva del dovere di assistenza, né il luogo pubblico (ospedale) in cui è stata effettuata la prestazione, dal momento che neppure la natura pubblicistica o privatistica del luogo medesimo interferisce in qualsiasi modo nell’obbligo di curare.  In ogni caso, ribadisce la Cassazione, se da un lato, la latitanza del paziente non sottrae il medico al dovere di prestare la propria opera, d’altra parte, questi, svolgendo la prestazione a beneficio del latitante, non può esorbitare dal limite della diagnosi e della terapia, onde non deve realizzare condotte aggiuntive di altra natura che travalichino tale limite e siano finalizzate soggettivamente e oggettivamente a sottrarre la persona assistita alle ricerche dell’Autorità.

È però opportuno dare conto delle linee interpretative della giurisprudenza di legittimità in tema di effettuazione di cure sanitarie a beneficio del soggetto latitante. Si constata, al riguardo, che se il principio di diritto costantemente affermato nelle varie pronunce della Suprema Corte, è effettivamente nel senso della irrilevanza penale della mera prestazione di cure mediche in favore di persona ricercata, e, viceversa, della illiceità di ogni forma di attivazione del sanitario idonea a creare intralcio alle ricerche di polizia ed a ciò diretta, è pur vero che si riscontrano letture variegate circa l’atteggiarsi della condotta da ritenersi non consentita. A tal uopo, si è stabilito integrarsi il delitto di cui all’art. 378 c.p. il fatto che il medico ospedaliero, dopo aver omesso il referto e la stessa compilazione della cartella clinica nei confronti del rapinatore assistito, si fosse anche adoperato per la ricerca di un radiologo e di una clinica privata in cui ulteriormente curarlo[2], come, anche, che integrasse condotta di favoreggiamento la compilazione di una cartella clinica, relativa al ricovero di un ricercato cui era stato estratto un proiettile, apponendovi false generalità[3].

Invero, sostanzialmente si riconosce il primato, comunque, della tutela della salute rispetto alle esigenze della giustizia penale, sancendosi la illiceità unicamente delle condotte, per così dire susseguenti, del sanitario, che risultano oltrepassare gli ambiti della semplice assistenza e cura, ovvero che siano volte a dissimulare l’intervento terapeutico eseguito, facendone scomparire le tracce.

Tuttavia, il panorama della giurisprudenza di legittimità pare offrire una sostanziale diversità valutativa anche in relazione al tema specifico dell’apprezzamento dei comportamenti cautelativi adottati dal sanitario in itinere, e cioè nel recarsi a prestare l’assistenza richiesta dal latitante.  Si è così ritenuto integrare il delitto di cui all’art. 378 c.p. la condotta del medico che, all’evidente scopo di non farsi localizzare, raggiunge una masseria in cui si trova il latitante bisognoso di cure, dopo aver disattivato il proprio telefono cellulare[4]. A tale stregua diventa determinante per la sussistenza del delitto «il fatto che il medico si rechi a fornire la sua prestazione nel luogo fuori mano in cui il latitante si nasconde, adottando particolari accorgimenti (disattivazione del telefonino) per impedire la propria localizzazione, rivelatori di una consapevole volontà protettiva».

Peraltro, la stessa suprema Corte  ha escluso la configurabilità del reato in esame nella, invero analoga, fattispecie in cui il medico, recandosi presso un latitante per prestargli le cure del caso, aveva usato accorgimenti e comportamenti depistanti, per impedire che la polizia, che lo seguiva, potesse individuare il nascondiglio del ricercato: ed infatti, si è detto, il medico non è gravato dell’obbligo giuridico di rimuovere intralci all’attività della polizia, ed in assenza di tale obbligo la omissione di comportamenti certamente utili alle indagini (ma non doverosi) non può assumere rilevanza penale[5].

In particolare, la sentenza n. 220025 del 2001 si raccomanda, tra le altre, per una disamina assai accurata della problematica giuridica in questione, sicché sembra opportuno per lo meno enuclearne i principali passaggi. Questi possono così riassumersi:

a) se, sul piano etico-professionale, è indubbia la facoltà del professionista – salvi i casi di intervento d’urgenza – di selezionare le richieste che gli provengono «privatamente», e cioè al di fuori del servizio pubblico eventualmente prestato, non essendo egli certamente tenuto a prestare una ordinaria assistenza a beneficio di persona latitante, viceversa, sul piano giuridico, una volta accettato l’incarico fiduciario, è altrettanto certo che il medico abbia l’obbligo professionale di assicurare al paziente la necessaria assistenza terapeutica, specie nei casi – come quello di cui alla fattispecie in esame – in cui essa sia volta ad evitare possibili complicazioni della patologia, tali da mettere a rischio l’integrità fisica e persino la sopravvivenza dell’assistito;

b) non può integrare il reato di favoreggiamento personale il comportamento, adottato dal medico, di astensione dal completamento dell’esatto itinerario che avrebbe condotto la polizia alla casa del latitante, anzitutto perché non esiste un obbligo giuridico a carico dello stesso – e, più in generale, del cittadino – di collaborare con le istituzioni nelle difficili e rischiose operazioni di ricerca e cattura dei latitanti. Il nostro ordinamento, in effetti, non prevede doveri collaborativi del medico finalizzati all’impedimento od al perseguimento di reati, al di là degli specifici obblighi stabiliti in relazione a determinate situazioni (di denuncia o di referto) e ciò perché esso conferisce rilievo maggiore ai beni giuridici della salute e della vita rispetto all’interesse dell’amministrazione della giustizia alla punizione dei colpevoli ed alla cattura dei latitanti;

c) è ben vero – rileva conclusivamente la suprema Corte – che anche l’astenersi dal visitare il latitante per non farsi seguire dalle forze dell’ordine implica inadempienza del dovere in questione; e peraltro, a parte la provvisorietà dell’inadempimento, le conseguenze della violazione sarebbero rilevanti solo sul piano del rapporto interno con il paziente, salva ovviamente l’ipotesi della rilevanza penale della condotta omissiva per il caso in cui l’intervento medico fosse necessario «quoad vitam seu valitudinem» e la mancata prestazione avesse prodotto effetti letali o gravemente pregiudizievoli per l’integrità fisica dell’assistito.

A parere di chi scrive si tratta di proposizioni del tutto ragionevoli e condivisibili, e non solo per la parte in cui si collocano nel solco della tradizione interpretativa, secondo cui l’indiscusso primato dei beni della salute e della vita del soggetto, rispetto ad ogni altro interesse perseguito dall’ordinamento, coerentemente comporta una potestà di intervento del medico anche a beneficio del paziente che versi in una situazione di illegalità e sia oggetto di ricerche o di indagini da parte dell’«Autorità».

Appare, invero, allo stesso modo convincente l’assunto, decisamente innovativo almeno nella lettura giurisprudenziale, secondo cui la configurabilità del reato previsto e punito dall’art. 378 c.p., mediante un contegno omissivo, può ipotizzarsi solo nei casi in cui il soggetto sia gravato da un obbligo giuridico di attivarsi ed abbia tradito l’aspettativa dell’ordinamento, astenendosi dalla condotta dovuta. In effetti, sinora era stata sempre genericamente affermata, nell’interpretazione dominante dei giudici, sostenuta dalla latitudine della locuzione verbale impiegata dal legislatore, la natura di reato a forma libera del delitto in esame, integrabile da qualsiasi condotta, attiva o omissiva, oggettivamente volta a favorire altri; senza che per il vero ci si soffermasse sulle eventuali condizioni di rilevanza dell’omissione, in particolare sotto il profilo della necessità del presupposto dell’esistenza di un obbligo giuridico di agire[6]. Aspetto, quest’ultimo, viceversa, analizzato in dottrina, ove, a fronte di una posizione tradizionale anzi orientata a valorizzare semanticamente solo una condotta attiva come significazione di «aiuto» e quindi a negare la rilevanza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 378 c.p., di condotte omissive[7], si ammette da alcuni autori la configurabilità in forma omissiva del reato in questione unicamente alla presenza di obblighi giuridici di collaborazione espressamente previsti dall’ordinamento, con espresso richiamo alla previsione dell’art. 40 cpv. c.p.[8].

2. Beneficiario della prestazione medica affiliato ad una associazione di tipo mafioso

Con la nota sentenza 5909/2011 la Corte di cassazione ritorna sul tema della assistenza sanitaria prestata a persona ricercata dalla giustizia, confermando la condanna per partecipazione all’associazione mafiosa «Cosa Nostra» dell’infermiere professionista che aveva somministrato un farmaco antitumorale al massimo esponente di vertice dell’organizzazione, durante il periodo della sua latitanza. Per il vero, all’imputato erano contestate anche condotte ulteriori rispetto all’assistenza di carattere medico, che comprendevano interventi nel funzionamento e nella vita dell’organizzazione mafiosa: tali condotte hanno concorso a determinare la configurabilità del delitto di partecipazione all’associazione mafiosa, sgravando la Corte dall’onere di prendere esplicita posizione sulla sufficienza della sola assistenza sanitaria a integrare i requisiti materiali della fattispecie.

Tuttavia, ad un più attento esame, come sopra si è dato cenno, le pronunce della Corte di legittimità sulla questione rivelano l’esistenza di almeno due orientamenti distinti, che divergono in punto di localizzazione della soglia di rilevanza penale delle condotte «ulteriori», superata la quale l’attività del sanitario sconfinerebbe nel campo del favoreggiamento personale. In alcune occasioni, infatti, la Corte riconosce il “primato” della tutela della salute (anche quando debba consistere nella somministrazione di cure a beneficio di latitante) rispetto alle esigenze della giustizia penale. In questo modo attraendo nell’orbita della liceità anche quei comportamenti intenzionalmente tenuti dal medico e volti ad evitare che la sua attività di cura renda localizzabile il soggetto alle autorità investigative. Rientrano in questo orientamento quelle pronunce che sanciscono l’irrilevanza penale delle condotte del medico che si siano risolte nel non favorire le ricerche del latitante, sul presupposto che non vi sia un obbligo del sanitario di attivarsi per permettere la cattura del soggetto ricercato.

Significativa in questo senso la sentenza « Avola »[9], che si sofferma in primo luogo sulla liceità dell’attività del medico: « non sfugge, altresì, la necessità di tenere in limine rigorosamente distinti il piano etico-professionale (e della sfera della sensibilità sociale del cittadino-medico) da quello squisitamente giuridico, posto che, sotto il primo profilo, è indubbia la facoltà del professionista, salvo che non sia richiesto di intervenire in casi di assoluta necessità ed urgenza, di selezionare le richieste di intervento che gli pervengano privatamente, e cioè al di fuori del servizio pubblico eventualmente prestato, non essendo certamente tenuto a prestare un’ordinaria assistenza in casa di persona latitante, che possa oggettivamente significare espressione di solidarietà o compiacenza. Ma in chiave giuridica, una volta accettato l’incarico fiduciario, non può sicuramente dubitarsi dell’esistenza in capo al medico di un obbligo professionale di assicurare al paziente la necessaria assistenza terapeutica tanto più se volta, come nel caso di specie, ad evitare possibili complicazioni della patologia, tali da mettere a rischio l’integrità fisica e persino la sopravvivenza del paziente ».

Ciò premesso, in quella occasione la Corte di cassazione ha annullato la sentenza di condanna del medico che, accortosi di essere pedinato dalle forze dell’ordine, aveva omesso di completare il percorso programmato per recarsi dal paziente latitante, in quanto « la possibilità che il favoreggiamento si realizzi mediante omissione postula […] l’esistenza di un obbligo giuridico » di favorire la cattura del ricercato, che nel caso del medico non potrebbe sussistere senza porsi « in irriducibile contrasto con il dovere di cura al quale il sanitario – che abbia comunque accettato l’incarico – è deontologicamente tenuto ».

Nella giurisprudenza della Suprema Corte si rinviene, tuttavia, anche un diverso orientamento, in base al quale la liceità della condotta del medico sarebbe subordinata alla completa mancanza di comportamenti, anche omissivi, finalizzati a garantire la clandestinità al beneficiario delle cure, con particolare attenzione al luogo di svolgimento dell’attività di cura e alle eventuali precauzioni adottate dal sanitario. Si sono così ravvisati gli estremi del reato di favoreggiamento nei confronti del medico che si rechi a fornire la sua prestazione nel luogo fuori mano in cui il latitante si nasconde, adottando particolari accorgimenti (disattivazione del telefonino) per impedire la propria localizzazione[10].

La presenza di queste « condotte ulteriori » è altresì importante per comprendere la decisione della Corte in merito alla configurabilità del delitto di partecipazione nell’associazione di tipo mafioso invece del più mite, seppur aggravato ex art. 7, d. lgs. n. 152 del 1991, reato di cui all’art. 378 c.p. Ciononostante, si rinvengono alcune affermazioni nelle motivazioni della sentenza che lasciano intendere come anche la sola attività sanitaria realizzata dall’imputato sia stata ritenuta tale da dar luogo al delitto di cui all’art. 416-bis c.p.

Tale presa di posizione ascrive la pronuncia in commento nell’annoso dibattito sulla fattispecie configurabile a carico del professionista, non formalmente affiliato, che presta la sua opera al servizio dell’organizzazione criminale; dibattito che si gioca sulla opzione di fondo tra le figure della partecipazione all’associazione mafiosa, del concorso c.d. esterno nel reato associativo, del favoreggiamento personale (aggravato) a taluno dei membri dell’organizzazione.

A proposito dei contorni della condotta di partecipazione di cui all’art. 416-bis, co. 1, c.p., è noto come giurisprudenza e dottrina abbiano dato luogo ad almeno tre indirizzi interpretativi, basati di volta in volta sul modello causale, che fa leva sull’oggettivo contributo fornito in favore dell’associazione; sul modello c.d. organizzatorio, che focalizza l’attenzione sull’inserimento permanente nella struttura organizzativa e sull’assunzione di un ruolo; e sul modello c.d. misto, che combina l’elemento organizzativo, pur sempre prevalente, con il riferimento al contributo di tipo causale del sodale.

Quanto alla tipologia delittuosa del concorso eventuale di persone rispetto all’associazione di tipo mafioso, sovente contestata ai « colletti bianchi » che operano nell’orbita dell’associazione fornendo un contributo di natura materiale, sono noti i problemi connessi con un certo deficit di tipicità, ai quali le Sezioni Unite hanno in diverse occasioni tentato di porre rimedio,[11] in base alla quale il contributo del concorrente deve configurarsi come « condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione o di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale ».

La terza delle fattispecie considerate è quella del favoreggiamento personale prestato al soggetto che debba rispondere del reato di cui all’art. 416-bis c.p. Com’è stato osservato, « tale delitto si distingue dalla partecipazione all’associazione di tipo mafioso (dalla quale sarà eventualmente assorbito) perché vi è assente il contributo da parte dell’agente all’esistenza e al rafforzamento dell’associazione criminosa nel suo complesso, essendo la condotta diretta a favorire il singolo associato e, come talora si precisa, episodica e posta in essere da chi non sia “elemento strutturale” del sodalizio» .

Ebbene nella sentenza testé menzionata 5909/2011, la S.C. ha ravvisato gli estremi della figura più grave, quella di partecipazione all’associazione mafiosa, evidenziando come la condotta dell’imputato abbia « procurato un importante aiuto diretto non ad un qualunque componente ma al massimo esponente di vertice di “Cosa nostra” », garantendogli « il mantenimento della sua capacità gestionale nella difficile situazione della latitanza, con correlativo vantaggio per l’intero sodalizio », ed escludendo invece che la condotta dell’imputato si fosse realizzata nell’ambito di un rapporto personalistico con il capo, ritenuto « ben difficilmente immaginabile, d’altronde, stante la statura e il ruolo del personaggio ». È evidente, dalla letture di questi passaggi, come il ruolo di vertice ricoperto dal beneficiario dell’assistenza medica abbia rivestito un ruolo decisivo ai fini dell’individuazione di un contributo materiale che fosse rilevante per l’intera organizzazione criminale e non esclusivamente per il singolo appartenente; e dalle motivazioni si evince che la Corte abbia ritenuto anche la sola assistenza medica sufficiente a giustificare la configurazione della partecipazione nell’associazione mafiosa.

Questa conclusione stride invero non poco con altre pronunce che la S.C. ha reso in casi analoghi.

La più recente di queste[12] riguarda l’applicazione di misura cautelare al medico accusato – tra le altre condotte – di aver messo a disposizione di una cosca della « ’ndrangheta » le sue competenze, in particolare per la cura di latitanti, anche appartenenti a cosche amiche. Dopo aver riconosciuto, sulla scorta della sentenza « Mannino », che la partecipazione « ben può esprimersi con la “messa a disposizione” dell’organizzazione criminale, purché sia ben chiaro che codesta messa a disposizione deve rivolgersi incondizionatamente al sodalizio ed essere di natura ed ampiezza tale da dimostrare l’adesione permanente e volontaria ad esso per ogni fine illecito suo proprio », i giudici di legittimità hanno ritenuto che tale partecipazione non possa « risolversi perciò nella mera disponibilità eventualmente manifestata nei confronti di singoli associati, a servizio di loro interessi particolari, né con la promessa, e neppure con la prestazione, di contributi a specifiche attività, che, pur indirettamente funzionali alla vita dell’associazione, si risolvano in apporti delimitati, nel tempo e quanto a soggetti e oggetto cui sono rivolti ». Quanto, dunque, alla fattispecie configurabile, la Corte sostiene che « eventuali condotte d’ausilio al sodalizio realizzate da colui che non è stabilmente inserito nella struttura associativa, sono semmai punibili a titolo di concorso esterno, sempre però che esplichino un’effettiva rilevanza causale per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione ».

In un’altra pronuncia, resa anch’essa in un procedimento de libertate, la S.C. si è trovata a dover individuare « il punto delicato che segna il discrimine tra l’ottemperanza ineludibile di doveri deontologici e professionali, che impongono al medico l’obbligo di prestare cura ed assistenza a chiunque ne abbia bisogno (e sia pure con atteggiamento, nient’affatto commendevole, di riguardo e rispetto per esponenti mafiosi) e la piena consapevolezza di prestare – e piegare strumentalmente – la sua istituzionale attività di servizio, in forma organica e funzionale alle esigenze di una consorteria mafiosa, della quale condivida – in un perverso e scellerato patto – natura, ispirazione e linee strategiche al perseguimento di obiettivi di potere, da perseguire con ogni mezzo e ad ogni costo, se del caso anche con violenza, sopraffazione ed eliminazione fisica di chiunque osi contrapporsi » [13].

In queste affermazioni, che riguardano il caso del medico accusato di aver agito come stabile punto di riferimento per ogni necessità di cura degli associati (e a cui era contestata la fattispecie di partecipazione nell’associazione mafiosa), si coglie con chiarezza la pregnanza dei requisiti necessari perché tale « punto delicato » possa dirsi superato. Ecco perché la Corte richiede che sia « adeguatamente spiegato se l’assistenza sanitaria, di volta in volta prestata, fosse ragionevolmente leggibile, in virtù di verosimile conoscenza della caratura delinquenziale dei pazienti, come prestazione in favore di soggetto, se ed in quanto appartenente ad identica aggregazione delinquenziale, in ossequio ad un diabolico vincolo di sangue, o non piuttosto come prestazione ad personam, a beneficio esclusivo di quel determinato soggetto in quanto tale, al di fuori o indipendentemente da vincoli di appartenenza ».

Tra i precedenti giurisprudenziali ve n’è uno tuttavia[14] che meglio di tutti pare rendere evidenti le differenze tra le figure delittuose della partecipazione e del favoreggiamento, e che permette di toccare con mano tale differenza proprio sul terreno dell’assistenza sanitaria ai membri dell’associazione. Tra i diversi imputati, infatti, ve ne erano due che rappresentano quasi stereotipicamente la differenziazione tra le due fattispecie: nel primo caso si trattava di un medico che aveva eseguito diverse visite ad un membro dell’associazione mafiosa, rimasto ferito in un incidente direttamente riferibile alle attività criminali dell’organizzazione, apprestando in suo favore le cure di cui aveva bisogno; il secondo, pure medico professionista, aveva tenuto numerosi incontri con esponenti di spicco dell’associazione, « anche al di fuori delle occasioni legate alla sua attività di medico e con modalità (venivano adottate certe cautele volte a tenere riservati gli incontri) indicative di un rapporto che andava al di là dei normali rapporti medico-paziente ».

Prima di valutare la correttezza dell’inquadramento giuridico delle condotte degli imputati, la Corte di cassazione si sofferma sugli elementi differenziali delle due figure delittuose.

Il primo è individuato nell’atteggiamento psicologico: « l’attività di favoreggiamento » – scrivono i giudici – « è ispirata dalla cosciente volontà di fornire un aiuto a chi si sa essere sottoposto alle investigazioni o alle ricerche dell’autorità, in relazione ad un reato precedentemente commesso, mentre l’elemento soggettivo del reato associativo consiste nella coscienza e volontà di far parte di un sodalizio avente come scopo principale quello di compiere una serie indeterminata di reati, con la consapevolezza di partecipare alla vita associativa e contribuire attivamente alla realizzazione del comune programma delittuoso ». Sotto questo profilo, la sentenza in commento è senz’altro in debito di adeguata motivazione.

Il secondo elemento differenziale, che riguarda l’elemento materiale della condotta, corrisponde invece formalmente al principio affermato dalla S.C. nella sentenza in epigrafe, per cui ai fini della partecipazione si rende necessario che il soggetto operi organicamente e sistematicamente con gli associati come elemento strutturale del sodalizio criminoso, mentre nel reato di favoreggiamento il soggetto aiuta in maniera episodica uno degli associati. L’elemento differenziale, conclude la Corte nella sentenza del 1998, « consiste quindi, oltre che nell’atteggiamento psicologico, propriamente nelle modalità con cui l’aiuto viene dato, nel senso che l’aiuto sistematicamente e permanentemente prestato configura l’ipotesi del reato associativo, mentre l’episodicità di tale aiuto dà vita all’ipotesi del favoreggiamento, sia pure aggravato ex comma 2 dell’art. 378 c.p. ».

In coerente applicazione di questi principi, la Corte di cassazione confermava la condanna del primo medico per favoreggiamento aggravato, in ossequio, per il vero, a quell’orientamento molto restrittivo nel riconoscere l’esistenza di una esimente per la prestazione di assistenza sanitaria, la cui affermazione la Corte ritiene « ardita ».

Il secondo medico, invece, è stato condannato per partecipazione ad associazione di tipo mafioso, ma solo in virtù dell’accertamento « di un rapporto che va nettamente al di là, non soltanto dei normali rapporti medico-paziente, ma anche, per quel che qui interessa, al di là della “semplice” finalità di favorire i singoli aderenti », che si estrinseca nella « ricezione e trasmissione di messaggi segreti a personaggi dei quali era noto lo stato di latitanza, accompagnamento personale a visite specialistiche dei parenti del “boss”, consigli su come ottenere gli arresti domiciliari », e che rivela che egli « si rappresentava chiaramente la sua condotta come di ausilio all’intera organizzazione, la quale trasse indubbiamente vantaggio dalla sua opera, non soltanto dallo specifico punto di vista dell’assistenza medica, ma anche e soprattutto sul piano del supporto generico dato agli associati sotto diversi aspetti ».

In definitiva, anche quando la Corte di cassazione ha assunto una posizione “recessiva” sul riconoscimento di una causa di esclusione della illiceità penale per la condotta del sanitario, cionondimeno ha sempre richiesto, per la configurabilità della partecipazione nell’associazione di cui all’art. 416-bis c.p., un quid pluris sul piano materiale, da provarsi in via autonoma, che consista in un sostegno ulteriore ed estraneo alla mera prestazione di cure mediche, nonché uno specifico atteggiarsi dell’elemento soggettivo, tale da abbracciare la stessa partecipazione alla vita associativa e la volontà di contribuire attivamente alla realizzazione del comune programma criminoso.

Orbene, al fine di esaminare funditus la questione, la pronuncia in commento testé menzionata offre l’occasione per tornare su un tema ampiamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza, cioè quello della rilevanza penale della condotta medico-assistenziale che acceda a un reato associativo. La suprema Corte ha applicato il criterio della “stabile e consapevole appartenenza del soggetto all’organizzazione criminosa, con un effetto di concreta utilità della sua condotta per l’intera associazione” – considerato pacifico e univoco. Questo criterio, a un più attento esame, non solo sembrerebbe discutibile e incerto su un piano di stretta dogmatica, ma risulterebbe essere uno soltanto dei molteplici criteri ricavabili in via interpretativa dal dato normativo. Se, da un lato, è ormai negata ogni rilevanza discretiva al rapporto cronologico esistente tra condotte associative e assistenza, non dipendendo dalla mera contestualità d’azione l’ascrivibilità o meno del contributo accessorio all’associazione criminosa, dall’altro, è avvertita la necessità di porre attenzione non solo alla causalità oggettiva dell’ausilio “esterno” ma anche all’atteggiamento psicologico che l’abbia sorretto.

La complessità della materia in esame impone, anzitutto, una ricostruzione dei rapporti tra le fattispecie applicabili in astratto, dalla partecipazione al sodalizio nella veste di intraneus all’ipotesi “di chiusura” di cui all’art. 418 c.p. (assistenza agli associati per delinquere), passando per il concorso eventuale nel reato associativo e il delitto di favoreggiamento personale. È noto come la natura necessariamente plurisoggettiva che caratterizza i reati associativi renda più ambigui i confini tra le condotte qualificabili propriamente come interne al sodalizio, perciò incriminabili direttamente ex art. 416 e 416-bis c.p., e le condotte “assistenziali” e accessorie, perseguibili a titolo di concorso o autonomamente rispetto alla fattispecie principale. La diversa risposta sanzionatoria a seconda dell’inquadramento che si dia al fatto non può, tuttavia, discendere esclusivamente da canoni discrezionali formulati di volta in volta dall’organo giudicante, soprattutto se la descrizione normativa delle fattispecie presenta già indici strutturali inconfondibili. Fermo restando che, nel caso di specie, la somministrazione di farmaci antitumorali al boss mafioso latitante ha costituito solo una delle molteplici condotte dell’imputato accertate in corso di causa – poiché questi si è altresì adoperato al fine di garantire i collegamenti epistolari dell’assistito oltrepassando il confine delle cure mediche.

2.1 Criteri di discrimen. Il superamento del criterio cronologico

Un orientamento ormai risalente riconosceva quale spartiacque tra il favoreggiamento e le condotte associative o di assistenza in senso stretto la cessazione del reato associativo, quindi lo scioglimento del sodalizio. L’espressione “dopo che fu commesso un delitto” contenuta nell’art. 378 c.p. veniva, infatti, interpretata in termini di necessaria consumazione di un’altra fattispecie, il che significa, nell’ipotesi di favoreggiamento in reati permanenti, quali le fattispecie associative, la cessazione della condotta criminosa protrattasi nel tempo. In altri termini, perché si abbia favoreggiamento, secondo quest’indirizzo ermeneutico, è necessario che il sodalizio non sia più in vita o che il soggetto “favorito” abbia perso la qualifica di associato. Ogni condotta che acceda all’associazione, finché essa sia operativa e persegua le finalità descritte agli artt. 416 e 416-bis c.p., deve essere invece qualificata o come partecipazione “interna” o come concorso o come assistenza ex art. 418 c.p.. Nonostante siano state ampiamente rilevate le crepe di questa interpretazione, che pecca di approssimazione e indifferenza verso le coordinate dell’intero sistema penale, il “criterio cronologico” continua a riaffiorare saltuariamente nella motivazione di alcune pronunce.

Innanzi tutto, è sul piano letterale che il criterio de quo non appare condivisibile: l’ambiguità del termine “commissione” in diritto penale non può risolversi sbrigativamente in una sostanziale coincidenza con la nozione di “consumazione”, come momento conclusivo dell’azione criminosa. Né si deve relegare la questione a disquisizioni puramente accademiche, ritenute avulse dal contesto normativo e prive di un riscontro pratico. Invero, si fa tradizionalmente ricorso ad un’ampia gamma di sostituti più specifici del concetto indefinito di “commissione” – quali “realizzazione” e “perfezione” – che consentono di coglierne il distacco logico e cronologico dal momento consumativo, in particolare nei c.d. reati di durata. Il legislatore ha, infatti, riconosciuto in modo esplicito, in alcune disposizioni chiave, la peculiarità dei reati permanenti che, essendo strutturati su una protrazione indeterminata dell’azione criminosa, esigono previsioni ad hoc in materia, ad esempio, di prescrizione (art. 158 c.p.), di competenza territoriale del giudice (art. 8, comma 3, c.p.p.) e di stato di flagranza (art. 382, comma 2, c.p.p.). Il dogma della necessaria consumazione del reato-presupposto ai fini dell’integrazione del favoreggiamento personale si rivela infondato proprio quando l’interprete si trovi a dover qualificare l’ausilio fornito al membro di un’associazione o al sequestratore volto a favorire l’elusione delle investigazioni dell’Autorità. L’operatività dell’art. 378 c.p. rimarrebbe così confinata alle ipotesi del tutto residuali di aiuto prestato dopo lo scioglimento dell’intera associazione o dopo la rottura del vincolo associativo del singolo affiliato “favorito”, mentre è del tutto evidente come il raggiungimento della soglia minima di rilevanza penale del sodalizio criminoso – senza doverne attendere la cessazione – già fornisca una base su cui potrebbe innestarsi una condotta lesiva dell’interesse alla regolare amministrazione della giustizia. Perciò l’accessorietà che lega il favoreggiamento alla fattispecie (cioè reato “principale” in quanto strutturalmente presupposto), lungi dal fondare il criterio del post crimen patratum, non fa altro che rappresentare la ratio stessa dell’incriminazione, cioè tutelare “l’interesse alla persecuzione giudiziaria del previo reato”.

L’equiparazione della “commissione” del reato-presupposto alla sua consumazione trasforma un’osservazione empirica in principio normativo, cioè attribuisce al risultato di una valutazione condotta secondo l’id quod plerumque accidit il crisma del diritto positivo, valorizzando più del dovuto un’indicazione, a dire il vero equivoca, contenuta nella Relazione ministeriale sul Progetto definitivo del codice penale. Il dato letterale che permette di escludere con certezza il “criterio cronologico” della consumazione del reato “principale”, ritenendo necessaria e sufficiente la sola integrazione della fattispecie nei suoi requisiti “minimi” perché vi possa accedere una condotta di favoreggiamento – e confermando altresì come tra fattispecie coordinate mediante “clausole di riserva” vi possa solo essere un rapporto di gerarchia normativa e non di mera successione temporale – è la formulazione della “doppia” sussidiarietà stabilita all’art. 418 c.p., che qualifica l’assistenza agli associati come residuale rispetto sia al concorso nel reato sia al favoreggiamento. Per un evidente sillogismo, infatti, se la condotta di assistenza di cui alla norma citata è senz’altro contestuale alla permanenza del reato associativo – poiché prestata “a persone che partecipano all’associazione” – e se, in base alla “doppia riserva” richiamata, un medesimo contributo può assurgere alternativamente a concorso nel delitto, favoreggiamento o assistenza, ne discende la possibilità di configurare un favoreggiamento accessorio rispetto ad un contesto associativo ancora operativo. Ulteriore argomento contrario all’assunto aprioristico che vorrebbe ridurre il favoreggiamento nei reati permanenti ad un posterius del tutto residuale, se non addirittura impossibile, è l’innovazione apportata dalla l. 13 settembre 1982, n. 646, che ha introdotto una circostanza aggravante per il favoreggiamento connesso al delitto di associazione di tipo mafioso, evidenziando una chiara volontà legislativa a favore dell’intersecazione tra condotte associative in corso e contributi ad adiuvandum qualificabili ex art. 378 c.p..

2.1.2 Il criterio oggettivo e l’elaborazione di un modello causale

Negata ogni cittadinanza al “criterio cronologico”, che, oltre ad essere privo di fondamento normativo, potrebbe costituire soltanto una linea di demarcazione tra le condotte lato sensu associative (partecipazione interna, concorso eventuale e assistenza ex 418 c.p.) e l’ausilio qualificabile come favoreggiamento, è opportuno spostare l’indagine sul piano dei requisiti peculiari di ciascuna fattispecie in esame. Si può far perno, quindi, sull’intrinseca diversità delle singole condotte penalmente rilevanti, per ricavarne un criterio discretivo di natura “oggettiva”, più aderente al dettato delle norme incriminatrici e di più ampia portata rispetto alla mera valutazione del rapporto di presupposizione temporale di un reato rispetto all’altro. La sentenza in commento si inserisce, in parte, in questo filone interpretativo – che è l’orientamento maggioritario attualmente seguito dalla suprema Corte – ma occorre, prima di esaminarne gli sbocchi giurisprudenziali, guardare alle sue premesse dogmatiche.

Punto di partenza è la portata discretiva e fondante attribuita al bene o interesse tutelato da ciascuna norma incriminatrice, cioè l’oggettività giuridica effettivamente violata dalla condotta che si prenda in esame. L’ausilio apportato ad un contesto associativo configurerebbe, pertanto, un’ipotesi di favoreggiamento nel caso in cui offenda, in termini di messa in pericolo, “l’interesse della giustizia al regolare svolgersi del processo penale nel momento delle investigazioni e delle ricerche”. Qualora, invece, si inserisca nell’iter offensivo del reato associativo, la sua natura partecipativa o concorsuale sarebbe innegabile, residuando infine come ipotesi di chiusura l’assistenza di cui all’art. 418 c.p.. Sorgono, tuttavia, diversi dubbi sulla validità e sulla praticità del “criterio del bene giuridico”. Anzitutto, se si accoglie la concezione che interpreta le fattispecie de quibus secondo una rigida gerarchia normativa, fondata sulle “clausole di riserva”, cioè come un sistema architettonico in cui la norma prevalente ha una “oggettività giuridica complessa” che assorbe quelle sussidiarie, diventa vano ogni tentativo di considerare quale discrimine il diverso bene o interesse tutelato: operazione che su un piano pre-normativo sarebbe anche possibile, ma è esclusa dalla volontà legislativa e dalla natura, appunto, giuridica e non ontologica dell’interesse stesso. Ove non si voglia condividere l’interpretazione a favore di un oggetto giuridico “complesso” e assorbente, è, tuttavia, opinione ormai ampiamente condivisa che il ruolo del bene (rectius: interesse) giuridico debba essere ridimensionato e ridefinito. Il piano dell’offensività non va, infatti, confuso con quello della tipicità, almeno muovendosi all’interno della c.d. concezione realistica del reato: ciascuna fattispecie è strutturalmente caratterizzata dai suoi connotati tipici oggettivi e soggettivi, da cui si distingue normativamente il momento offensivo che, seppur contestuale al fatto sul piano storico, costituisce viceversa il contenuto sostanziale dell’illecito. Per quanto in particolare qui interessa, ostativa all’accoglimento del “criterio del bene/interesse giuridico” come assolutamente valido e sempre applicabile è la difficoltà di individuare in concreto l’oggetto di tutela e, conseguentemente, una causalità offensiva della condotta assistenziale rispetto alla direzione lesiva del reato associativo. Il problema è, infatti, capire quando un dato comportamento consenta la protrazione della situazione antigiuridica esistente o, invece, si limiti a ostacolare le indagini dell’Autorità, soprattutto in presenza di un oggetto giuridico di categoria dai confini interpretativi molto incerti, com’è per la nozione di “ordine pubblico” tutelato dalle fattispecie di cui agli artt. 416, 416-bis, 418 c.p.. La struttura sui generis che caratterizza le fattispecie associative, la cui incriminazione è fondata sulla costituzione di un sodalizio (“per ciò solo”) con finalità criminose, cioè come reato di pericolo che consenta un’anticipazione “differenziata” della tutela rispetto ai delitti-scopo dell’associazione, rende l’individuazione della direzione lesiva un compito tutt’altro che agevole e, anche ove si voglia intraprendere questa strada, richiederebbe poi un ulteriore criterio di graduazione che funga da discrimine tra partecipazione, concorso eventuale e mera assistenza ex art. 418 c.p. – trattandosi di contributi indistintamente riconducibili in chiave causale all’offesa contenuto del reato associativo.

Il c.d. concorso “esterno” nel delitto di cui all’art. 416-bis c.p. è attualmente oggetto di accesi dibattiti e di un attento vaglio critico, al fine di colmarne le lacune dogmatiche e, soprattutto, di risolvere i problemi che l’esplicito riconoscimento di un ferreo modello “causale” comporta. L’adozione dello schema condizionalistico per le condotte accessorie al reato associativo incontra, infatti, innumerevoli ostacoli che, nonostante gli sforzi interpretativi profusi, rimangono insormontabili: in particolare, appare del tutto irrisolvibile il quesito su quale sia il secondo termine della relazione causale individuata. Se di nesso eziologico si vuole parlare, occorrerà, infatti, trovare un elemento rispetto al quale la condotta lato sensu assistenziale sia causalmente collegata. Se si guarda all’evento in senso giuridico, riemergono i problemi insiti nell’indagine sull’interesse tutelato dalle norme incriminatrici de quibus; se si cerca, viceversa, un evento naturalistico, questo non può che essere l’associazione – quale risultato delle condotte degli affiliati da distinguere rispetto ai singoli delitti-scopo – associazione che tuttavia, al tempo stesso, preesiste a ogni contributo “esterno” ulteriore, data la permanenza della fattispecie associativa, con la conseguenza pertanto di capovolgere la stessa logica causale e di proporre, dietro una coltre di forte ambiguità, i concetti di rafforzamento e conservazione del sodalizio già formatosi. Se si prendono, infine, come termine della relazione causale le condotte degli associati, dunque prescindendo dal c.d. evento-associazione, il criterio condizionalistico viene sostituito dal carattere di “strumentalità” del contributo fornito, che è qualcosa di diverso, potendosi arrestare ad un’idoneità meramente agevolatrice ex ante.

2.1.3Il criterio soggettivo. Il dolo dell’extraneus

Coloro che si sono occupati della materia de qua sono giunti in via maggioritaria a sostenere l’imprescindibilità dell’accertamento del dolo dell’extraneus al fine di tracciare un discrimine univoco – per quanto di univocità possa parlarsi nella valutazione di un elemento squisitamente psicologico quale il dolo – tra condotte che sul piano oggettivo possono presentarsi come del tutto equivoche e astrattamente riconducibili a molteplici fattispecie. Senza giungere a riconoscere nel delitto di favoreggiamento un’ipotesi di dolo specifico, posto che l’irrilevanza dell’intralcio alle indagini sul piano oggettivo si spiega tramite la ricostruzione della fattispecie come reato di pericolo, muta l’oggetto della rappresentazione e della volizione dell’agente a seconda del diverso titolo di incriminazione. Sarà, dunque, qualificabile come concorrente necessario il soggetto agente ove, oltre all’affectio societatis, condivida le finalità del sodalizio, cioè si associ al fine di realizzare determinati delitti-scopo. Diversamente, applicando l’interpretazione più convincente in materia di dolo dell’atto di partecipazione ex art. 110 c.p., il c.d. concorso “esterno” non richiederebbe un accertamento dell’esistenza nell’extraneus di uno o più degli scopi illeciti perseguiti dalla societas, ma la sola rappresentazione del fatto di reato associativo in sé (rappresentazione comprensiva pertanto anche del dolo specifico sussistente in capo agli affiliati) e la volontà di cooperarvi. Favoreggiamento e assistenza agli associati si connoterebbero, invece, come ipotesi di ausilio prestato soltanto ad alcuni associati, sorrette da un atteggiamento psicologico nettamente distinto: il favoreggiatore agirebbe sempre con la rappresentazione della latitanza del “favorito” e con la volontà di agevolarne l’elusione delle indagini; in via del tutto residuale, l’art. 418 c.p. si applicherebbe solo a colui che presti assistenza senza la peculiare rappresentazione psichica richiesta dall’art. 378 c.p.

Dall’accoglimento del “criterio soggettivo” discende, tuttavia, la sua necessaria complementarietà e interdipendenza rispetto alla portata oggettiva della condotta concretamente posta in essere. Non può, infatti, scindersi la valutazione dell’atteggiamento psicologico dai connotati obiettivi del fatto, dovendosi trovare un giusto equilibrio nell’attribuire valore discretivo all’uno o all’altro piano d’indagine. 

3. I confini di liceità della condotta sanitaria

Fissati i criteri per un inquadramento delle condotte “accessorie” al reato associativo che sia il più possibile aderente al dato normativo, è indispensabile a questo punto esaminare gli aspetti peculiari della prestazione di natura sanitaria a favore degli affiliati ad associazioni criminali. In altri termini, si deve valutare l’an e il quomodo dell’incidenza della natura medica degli atti posti in essere sulla configurabilità penale del fatto come partecipazione associativa o condotta favoreggiatrice. Anzitutto, occorre tener presente la tradizionale impostazione per cui l’assistenza sanitaria si qualificherebbe, in base all’art. 32 Cost. e ad alcune previsioni nel codice penale, come un’attività doverosa; sul punto, tuttavia, la pronuncia in commento giunge a conclusioni che appaiono piuttosto apodittiche. Infatti, pur costruendo un impianto argomentativo complessivamente condivisibile – posto che, oltre alla somministrazione di farmaci al capo mafioso, erano state accertate nel merito diverse e ulteriori condotte causalmente partecipative poste in essere dall’imputato – la Cassazione fa discendere, nel caso di specie, l’esclusione del dovere di curare e di una “pretesa non punibilità in ragione della finalità di tutela del bene supremo della salute” dalla qualifica di semplice infermiere professionale posseduta dal soggetto incriminato.

Una simile ricostruzione sembra entrare in contraddizione con il fondamento dell’attività sanitaria, tanto sul piano della tutela garantita dall’ordinamento al diritto alla salute, quanto sul piano più strettamente tecnico delle scriminanti operanti nell’attività medica. La risposta al problema dei limiti di liceità e del carattere di doverosità dell’assistenza sanitaria è interamente ricompresa nella nozione di salute formulata all’art. 32 Cost. come diritto dell’individuo e interesse della collettività. Il riconoscimento della sua utilità sociale ne fa, infatti, un’attività giuridicamente autorizzata, organizzata o nella forma dell’amministrazione statale indiretta quale servizio pubblico o nell’esercizio della professione privata, adeguatamente disciplinata. È proprio in virtù di questa contestuale autorizzazione e regolamentazione, sia del pubblico che del privato, che si deve ritenere che l’attività sanitaria vada interpretata in senso estensivo, abbracciando non soltanto la figura del medico-chirurgo ma anche quella dell’infermiere (e in genere di qualsiasi esercente una professione sanitaria).

La rilevanza dell’interesse alla vita e all’incolumità fisica fa sì, quindi, che l’esercizio del diritto alla salute si traduca in una doverosità della prestazione sanitaria professionale, tale da escludere l’antigiuridicità della condotta anche nel caso in cui il sanitario abbia curato un soggetto latitante. Coerente con quest’impostazione è la prevalenza che l’ordinamento assegna al diritto-dovere di assistenza alla salute sull’interesse pubblico alla repressione dei reati, prevedendo all’art. 365, comma 2, c.p. l’esonero dall’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria quanto possa presentare carattere di delitto perseguibile d’ufficio per chi eserciti una “professione sanitaria” – ancora una volta facendo ricorso il legislatore a un’accezione lata della professione de qua e non limitata al personale medico . Il quesito sul tipo di scriminante che opererebbe in casi come quello oggetto della sentenza annotata trova un’immediata soluzione nel ragionamento che si è finora tentato di sviluppare: lungi dal porsi, cioè, problemi di consenso (art. 50 c.p.) o di soccorso di necessità (art. 54 c.p.), e dall’interrogarsi sulla sussistenza di c.d. scriminanti non scritte, nella fattispecie esaminata si è di fronte all’inconfondibile esercizio di un diritto di rango costituzionale e del dovere speculare di assistenza alla salute ex art. 32 Cost., dovere che deve essere parametrato sullo specifico ruolo professionale di ciascun operatore sanitario.

Le più recenti pronunce giurisprudenziali in materia di favoreggiamento dell’operatore sanitario, preso atto dell’assurdità di riconoscere in via generale un obbligo giuridico di collaborare con la giustizia, e in particolare un obbligo di collaborare nella ricerca e nella cattura di soggetti latitanti – obbligo invero inesistente tanto in capo ai professionisti sanitari quanto a ciascun cittadino, al di fuori di specifiche ipotesi tra cui quelle richiamate, e tenuto conto della portata scriminante dell’attività di assistenza alla salute, sono ormai pressoché unanimi nel richiedere, ai fini della contestazione del favoreggiamento personale, condotte “ulteriori” che, travalicando il dovere professionale di cura, contribuiscano a ostacolare le investigazioni e le ricerche dell’Autorità. Questa è la posizione su cui sembra essersi ormai assestata la suprema Corte in materia di favoreggiamento del medico, una posizione decisamente contraria a far coincidere la prestazione sanitaria doverosa con la condotta di “aiuto” incriminata dall’art. 378 c.p., non potendosi ricavare da questa norma, in evidente contrasto con il principio di legalità, un obbligo a contenuto positivo di collaborare alle indagini.


[1] Cass. Pen., 5 aprile 2005, n. 26910, sez. VI
[2] Cass. Pen., 28 gennaio 1983, n. 158821, Sez. VI.
[3] Cass. Pen., 15 marzo 1985, n. 169517, Sez. VI.
[4] Cass. Pen., 30 ottobre 2001, n. 221161, Sez. VI.
[5] Cass. Pen., 13 febbraio 2001, n. 220025, Sez. II.
[6] Sez. I, 14 dicembre 1994, Guglielmo ed altri, in Riv. pen., 1996, I, p. 231; Sez. VI, 25 gennaio 1995, Mandola, in questa rivista, 1996, p. 2572.
[7] Maggiore, Diritto penale, parte speciale, Zanichelli, 1950, p. 293; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, 5ª ed., Utet, 1981-1986, vol. V, 1003, p. 992; Pagliaro, voce Favoreggiamento (dir. pen.), in Enc. giur., Giuffrè, 1968, vol. XVII, p. 41.
[8] Padovani, voce Favoreggiamento, in Enc. giur. Treccani, 1989, col. XIV, p. 5 ss.; Pulitanò, Il favoreggiamento personale tra diritto e processo penale, Giuffrè, 1984, p. 158 ss. V., in tema, altresì, Pisa, voce Favoreggiamento personale e reale, in Dig. d. pen., Utet, vol. V, p. 166 ss
[9] Cass. pen., Sez. V., 13 marzo 2001, n. 31657 in Cass. pen., 2003, p. 2657.
[10] Cass. pen., Sez. VI, 30 ottobre 2001, Di Noto, in CED rv. 221161.
[11] Cass. pen., Sez. un. 28 dicembre 1994, in Cass. pen., 1995, p. 842, con nota di Iacoviello; Cass. pen., Sez. un., 30 ottobre 2002, n. 22327, in Cass. pen., 2003, p. 3276), da ultimo con la sentenza «Mannino» (Cass. pen., Sez. un., 20 settembre 2005, n. 33748).
[12] Cass. pen. , Sez. I, 7 giugno 2011, n. 26331, in De Jure.
[13] Cass. pen., sez. V, 24 gennaio 2007, n. 12679, in Cass. pen., 2008, p. 1506.
[14] Cass. pen., sez. I, 28 settembre 1998, n. 13008, in Cass. pen., 1999, p. 2510.

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