La presunta “meritevolezza astratta” del trust
Il trust è un istituto tipico degli ordinamenti di common law e, quindi, dei paesi di diritto anglosassone. Si tratta, come il nome chiaramente suggerisce – “to trust” significa “fidarsi di” o “avere fiducia in” –, di un istituto fonte di obbligazioni di natura fiduciaria, tramite le quali il soggetto disponente (c.d. settlor) sceglie di imporre specifici vincoli di destinazione su beni di sua appartenenza e di affidare gli stessi, poi si vedrà in che forma, ad un soggetto fiduciario (detto trustee), il quale sarà tenuto a gestirli e amministrarli in vista dello scopo perseguito dal disponente, spesso coincidente con l’apporto di vantaggi finali ad un soggetto terzo, detto beneficiary.
È evidente la complessità dell’istituto e il suo stretto intrecciarsi con la disciplina del diritto di proprietà e della responsabilità patrimoniale nei confronti dei creditori: il trustee, infatti, non può essere considerato, neanche dai suoi creditori, l’effettivo proprietario dei beni che fiduciariamente gestisce. Tuttavia, prima di interrogarsi sulla possibile qualificazione della situazione soggettiva costituita in capo al trustee tramite l’operazione negoziale descritta, è necessario comprendere quale sia stata l’esigenza che ha spinto gli interpreti e, indirettamente, anche il legislatore a far proprio un istituto così distante, nella sua peculiare struttura, dalla nostra tradizione giuridica. A tal fine può essere utile, in via deduttiva, inquadrarlo nella categoria dogmatica astratta, a noi nota, che più gli si avvicini e, solo successivamente, individuarne le differenze di disciplina.
La categoria di riferimento è quella dei c.d. negozi fiduciari, a dire il vero già di per sé priva di una disciplina normativa espressa e i cui tratti essenziali sono stati nel tempo ricostruiti dagli interpreti.
Il negozio fiduciario viene comunemente definito come l’accordo intercorrente tra due soggetti, tramite il quale il primo (fiduciante) trasferisce in capo al secondo (fiduciario) una situazione giuridica soggettiva, reale o personale, per il conseguimento di uno scopo pratico, ulteriore rispetto all’effetto tipico del negozio traslativo. Lo scopo ulteriore viene enunciato nel c.d. pactum fiduciae valido solo fra le parti e non opponibile ai terzi. Il fiduciario, per la realizzazione di tale risultato, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva e di comportarsi in modo coerente e congruo. L’inadempimento dell’obbligo in questione può, al massimo, legittimare la richiesta di risarcimento del danno da parte del fiduciante, ovvero, secondo l’interpretazione più diffusa, il ricorso allo strumento dell’esecuzione in forma specifica, di cui all’art. 2932 c.c., ove il negozio abbia ad oggetto un bene infungibile.
Il nostro codice civile menziona, in modo marginale e perlopiù in materia di successioni, la categoria generale della fiducia. Si pensi, ad esempio, alla c.d. disposizione fiduciaria disciplinata dall’art. 627 c.c., ove la fiducia è lo strumento giuridico attraverso il quale il testatore dispone realmente a favore di un soggetto, a cui viene però segretamente – e fiduciariamente – imposto l’obbligo di trasferire i beni ricevuti ad altro soggetto. Questo tipo di fiducia testamentaria non genera alcuna obbligazione civile, ma dà semmai luogo ad una obbligazione naturale, come tale irripetibile in caso di suo spontaneo adempimento, ex art. 2034 c.c.
Sono invece molto più frequenti i riferimenti alla fiducia nell’ambito della legislazione speciale e di settore: si pensi, per tutti, al caso delle società fiduciarie, disciplinate dalla legge n. 1966 del 1939. Si tratta delle società che, comunque denominate, si propongono di assumere, in forma di impresa e per conto di terzi, l’amministrazione dei beni ovvero la rappresentanza di azioni e obbligazioni. La società fiduciaria rappresenta un’opportunità per chi, per varie ragioni, preferisce mantenere riservatezza sui propri beni immobili o sulle proprie attività finanziarie. Lo scopo di questa società, quindi, non è quello di garantire un rendimento del bene – come avviene, invece, nelle società di investimento – ma di custodirlo e garantirne la riservatezza.
Si usa comunemente distinguere due grandi modelli di fiducia, rappresentativi anche di contrapposte tradizione giuridiche: la fiducia romanistica e la fiducia germanistica.
La prima è caratterizzata da un trasferimento pieno della proprietà in capo al fiduciario, salvo il vincolo puramente obbligatorio e, come tale, inopponibile ai terzi, che lo vincola a gestire il bene in conformità all’interesse del fiduciante. La seconda, invece, non conosce un vero e proprio trasferimento della proprietà in capo al fiduciario, limitandosi, semmai, ad attribuire a quest’ultimo la legittimazione a disporre di un bene, vincolandolo ad una determinata destinazione. Essa si caratterizza, in altri termini, per la scissione tra titolarità del diritto e legittimazione al suo utilizzo: la prima resta in capo al soggetto disponente, che potrà così farla valere nei confronti dei terzi, mentre la legittimazione all’utilizzo del bene (una sorta di possesso) spetta al fiduciario.
La caratteristica principale del modello germanistico è quella di consentire l’opponibilità ai terzi del vincolo fiduciario risultante, in maniera esplicita, dall’accordo delle parti, fornendo così al fiduciante una tutela reale rispetto alle eventuali pretese dei terzi sul bene oggetto del vincolo. Nel modello romanistico, invece, il patto fiduciario è espresso in un accordo che ha valenza solo obbligatoria fra le parti e non è in grado, quindi, di produrre alcun effetto nei confronti dei terzi che mirino ad appropriarsi del bene oggetto del negozio. Ammettere l’opponibilità di un simile patto significa, infatti, riconoscere che in capo al fiduciario possa sorgere un diritto di proprietà atipico e “ridotto” nel suo contenuto, in quanto gravato da un vincolo fiduciario e quindi di destinazione del bene, che gli impedisce di goderne appieno. In altri termini, restringendo la valenza del patto ai rapporti interni e fiduciari fra i due soggetti originari si garantisce, almeno formalmente, il sorgere in capo al fiduciario di un diritto di proprietà pieno, in quanto tale fonte di garanzia per i suoi creditori. Una garanzia che, invece, è tendenzialmente esclusa nella fiducia germanistica.
È per le ragioni esposte che, nell’ordinamento italiano, la fiducia germanistica ha un ruolo del tutto residuale ed eccezionale: essa comporta il riconoscimento di una forma di proprietà atipica, non capace di attribuire al titolare né una esclusiva e piena facoltà di disposizione del bene, né l’assicurazione della perpetuità del diritto, in contrasto con la disciplina del diritto di proprietà di cui all’art. 832 c.c. Tanto è vero che i beni trasferiti fiduciariamente, nel modello germanistico, vanno a formare un patrimonio separato, di fatto non aggredibile da parte dei creditori del fiduciario. Questo tipo di aggredibilità è invece pacifica nel modello di fiducia romanistica, salve le attenuazioni ricavabili analogicamente dalla disciplina del mandato (art. 1707 c.c.): quanto ai beni mobili, l’iniziativa dei creditori del fiduciario può essere bloccata se il pactum fiduciae ha data certa anteriore al pignoramento; quanto ai beni immobili e mobili registrati, se prima del pignoramento il fiduciante trascrive domanda ex art. 2932 c.c.
Il negozio fiduciario romanistico è stato spesso, infatti, affiancato dalla dottrina al modello del mandato senza rappresentanza (art. 1705 c.c.), in cui il mandatario agisce in proprio nome, ma per conto del mandante: ciò al fine di riconoscere al fiduciante una tutela più pregnante nei confronti del fiduciario e dei suoi eventuali creditori. Si tenga presente, però, che il negozio fiduciario non può essere rinchiuso negli angusti spazi del solo contratto tipico di mandato, imponendosi una maggiore considerazione della funzione in concreto svolta dall’assetto contrattuale, in modo da poter distinguere i casi di mandato dalle molteplici ipotesi di matrice fiduciaria che operano nella pratica degli affari.
L’effetto che i due tipi di fiducia mirano a produrre è, in definitiva, esattamente lo stesso, senonché nel modello romanistico il rispetto del concetto di proprietà tradizionalmente intesa impone una sorta di fictio giuridica: si verifica il trasferimento effettivo della proprietà come conseguenza del negozio traslativo tipico posto in essere dalle parti, ma esso è di fatto – e solo nei rapporti interni fra le parti – vincolato dallo scopo ultimo imposto dal fiduciante. Nel modello germanistico, invece, si svolge tutto alla luce del sole: il reale fine perseguito dal disponente emerge in modo esplicito dall’accordo fra le parti, tanto da essere opponibile anche ai terzi, pur se ciò implichi una deroga al regime proprietario, ovvero il riconoscimento, in capo al fiduciario, di un diritto reale del tutto atipico, che di reale ha quasi solo la sua opponibilità ai creditori. Una sorta di legittimazione reale, che presuppone sempre la titolarità del diritto in capo ad altro soggetto. Si è parlato a tal proposito di un diritto reale “funzionalizzato” in vista dell’obiettivo da perseguire, senza che si debba distinguere tra un effetto esterno di natura reale e uno interno puramente obbligatorio, come invece accade nel modello romanistico.
Ebbene, è proprio a causa dell’incapacità del modello romanistico di realizzare in maniera efficace e soddisfacente gli interessi del fiduciante – del tutto esposto agli eventuali abusi del fiduciario, in caso di trasferimento del bene a terzi – che in Italia si è avvertita l’esigenza di aprirsi a tipologie di negozi fiduciari con caratteristiche assimilabili, invece, al modello teorico della fiducia germanistica.
E il riferimento è proprio al trust, il quale, d’altra parte, anche nei sistemi di common law ha la stessa origine: la necessità di individuare un rimedio di tutela efficace per il settlor a fronte della avvenuta violazione dell’obbligazione fiduciaria, la quale risultava essere sanzionata esclusivamente sul piano obbligatorio, tramite il generale rimedio del risarcimento del danno. Senonché in quei sistemi il problema fu facilmente risolto in via giurisprudenziale, riconoscendo al giudice, in caso di vendita del bene da parte del fiduciario in violazione degli obblighi fiduciari su di esso gravanti, il potere equitativo di costituire i beni medesimi in un trust, così da vincolare il terzo acquirente alle stesse obbligazioni già gravanti sul fiduciario in forza del pactum fiduciae.
Nei sistemi di civil law, invece, il giudice non è titolare di poteri equitativi così ampi e, soprattutto, manca, come si è visto, l’abitudine a considerare la proprietà come un diritto suscettibile di essere modulato in modo differente in relazione alla funzione che è chiamato a svolgere. Ciò spiega le difficoltà che incontrano gli interpreti nel cercare di dare adeguata sistemazione all’istituto del trust nel nostro ordinamento. Esso non può essere tout court considerato un negozio fiduciario, in un sistema in cui quest’ultimo è sempre stato considerato uno strumento inidoneo a produrre qualsiasi tipo di effetto reale nei confronti dei terzi.
L’unico ambito in cui si riconoscono simili effetti al negozio fiduciario è, non a caso, quello dei diritti di credito: si tratta, infatti, di una materia sottratta al principio di tipicità, che invece caratterizza i diritti reali, e, soprattutto, in cui è pacificamente ammessa la scissione tra titolarità e legittimazione. È paradigmatica, in questo senso, la disciplina dell’intermediazione finanziaria di cui al Testo Unico della Finanza (d.lgs. n. 58 del 1998): l’art. 22 stabilisce che, nella prestazione dei servizi di investimento, gli strumenti finanziari e le somme di denaro dei singoli clienti, a qualunque titolo detenuti dagli intermediari finanziari, costituiscono patrimonio distinto a tutti gli effetti da quello dell’intermediario (rectius fiduciario) e da quello degli altri clienti. Ne consegue che i creditori personali del fiduciario non possono far valere le loro ragioni nei confronti dei beni fiduciari e l’intermediario finanziario non può utilizzare, nell’interesse proprio o di terzi i beni in questione, salvo il consenso scritto dei clienti.
Invero, una prima vera apertura al modello germanico di fiducia e, quindi, all’ammissibilità, anche nel nostro ordinamento, di vincoli fiduciari “reali” su beni immobili (o beni mobili registrati) opponibili a terzi si è registrata con l’introduzione, tramite la l. 51 del 2006, dei c.d. vincoli di destinazione patrimoniale di cui all’art. 2645- ter c.c.
Tale norma stabilisce che: “gli atti in forma pubblica, con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela, riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’art. 1322, co.2, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione”.
Si parla, a tal proposito, di negozio di destinazione, ma la struttura è esattamente la stessa dei negozi fiduciari: il disponente, titolare del bene, impone un vincolo di destinazione sullo stesso, a favore di un soggetto beneficiario e in vista di un interesse che sia meritevole di tutela. Il vincolo, se trascritto, è opponibile ai terzi. La titolarità del diritto di proprietà, gravato dal vincolo di destinazione, può spettare allo stesso disponente, ovvero ad un terzo (fiduciario), al quale il bene sia stato trasferito al fine di impiegarlo nell’interesse dei beneficiari. I beni, affidati fiduciariamente, entrano a far parte di un patrimonio separato, non aggredibile dai creditori del fiduciario. In questo tipo di affidamento fiduciario, quindi, l’oggetto del trasferimento dal fiduciante al fiduciario è una “proprietà conformata” al vincolo cui essa è assoggettata: la proprietà costituisce il mezzo e non il fine dell’operazione.
I creditori anteriori del disponente potranno tutelarsi tramite gli strumenti previsti dall’ordinamento: quali l’azione revocatoria, la nullità per simulazione o frode alla legge, l’azione esecutiva anche successiva alla destinazione o al trasferimento al fiduciario, nei limiti consentiti dall’art. 2929-bis c.c.
Si tenga presente che la norma è inserita nel titolo del codice dedicato alla trascrizione, ma, secondo la dottrina prevalente, individua uno schema generale di negozio destinatorio, come può esserlo il contratto atipico ex art. 1322, co.2 c.c. – norma, infatti, espressamente richiamata dall’art. 2645- ter c.c. – , così demandando all’autonomia privata la selezione degli interessi meritevoli di tutela, che dovranno essere vagliati in concreto dal giudice. Questo significa che, in mancanza dei requisiti utili ai fini della trascrizione, l’atto di destinazione è da ritenere comunque valido e produttivo di effetti obbligatori anche se concluso in forma di scrittura privata, ma non sarà opponibile ai terzi.
È interessante notare come la fiduciarietà, pur presente in questo istituto, si ponga in una posizione subordinata rispetto al concetto reale di destinazione dei beni ad uno scopo, il quale rappresenta anche la giustificazione causale dell’intera operazione. La scelta del legislatore è stata quella, in altri termini, di porre l’attenzione sull’elemento causale, che giustifica l’attivazione stessa delle parti e di relegare l’elemento fiduciario, strettamente connesso al più discusso passaggio di proprietà, a mero mezzo per raggiungere un fine. È questo, forse, il primo segnale della tendenza ad accogliere un concetto di proprietà più elastico e, soprattutto, funzionale alla realizzazione degli interessi – se pur meritevoli – delle parti.
Venendo, quindi, ad affrontare il tema specifico del trust è necessario sottolineare che esso, in quanto istituto peculiare creato dai tribunali di equità dei paesi di common law, è stato posto ad oggetto di una disciplina comune di diritto internazionale, valida tra gli Stati firmatari e volta a dettare i criteri per individuare, di volta in volta, la legge ad esso applicabile, oltre che a risolvere i problemi più importanti relativi al suo riconoscimento. Si tratta della Convenzione dell’Aja del 1°luglio 1985, ratificata dall’Italia con legge n. 364 del 1989.
Proprio invocando l’art. 13 di tale Convenzione si è a lungo escluso che l’Italia, al pari di ogni Stato non-trust, fosse tenuta a riconoscere la legittimità del c.d. trust interno, cioè di quello i cui “elementi più importanti” fossero collocati nel suo territorio, ma la cui disciplina fosse affidata alla legge di uno Stato estero, che invece ammette il trust. Tale norma nasce, infatti, sia dalla volontà di non introdurre il trust nel diritto interno degli Stati non-trust, sia dalla necessità ed opportunità di contrastare i trusts fraudolenti o abusivi, caratterizzati da una artificiale delocalizzazione in uno Stato diverso da quello in cui il rapporto giuridico è realmente sorto.
Da quando, però, in Italia è entrato in vigore l’art. 2645-ter c.c. si ritiene che essa non possa più essere ricompresa fra gli Stati non-trust e non possa, più, perciò, invocare l’applicazione dell’art. 13 della Convenzione, a fronte di un trust interno, interamente localizzato sul territorio, ma disciplinato da una legge straniera per scelta del disponente. L’art. 2645 ter c.c. ha, infatti, introdotto nell’ordinamento giuridico italiano un vincolo reale di destinazione che presenta sicuramente gli elementi essenziali minimi del trust: la destinazione patrimoniale nell’interesse di beneficiari, la separazione patrimoniale, l’obbligo di gestire i beni destinati al fine esclusivo di destinazione.
Tuttavia, il fatto che sia ammessa la scelta di una legge straniera per la regolamentazione di un trust interno, localizzato in uno Stato che conosce il trust, conduce all’ulteriore questione dell’applicabilità o meno, in tal caso, della disciplina imperativa interna sulla destinazione patrimoniale (in Italia, in particolare, l’art. 2645 ter c.c.) e sull’amministrazione dei beni altrui.
Ebbene, a tal proposito, si è affermato che nessun rapporto giuridico interno di origine negoziale può, per effetto del suo assoggettamento alla disciplina di una legge straniera, essere sottratto alle norme imperative interne, destinate a disciplinarlo.
Così, in forza del disposto dell’art. 18 della Convenzione dell’Aja (“le disposizioni della Convenzione potranno essere non osservate qualora la loro applicazione sia manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico”) può affermarsi che le norme imperative interne dello Stato che disciplinano il trust prevalgono in ogni caso, e devono trovare comunque applicazione — cumulativamente con le disposizioni della legge straniera prescelta — ai trusts interni localizzati in Italia. In tal senso depone anche l’art. 3 del c.d. Regolamento Roma I n. 593 del 2008 – in quanto normativa di diritto internazionale privato volta a disciplinare, in caso di conflitto, la legge applicabile alle obbligazioni contrattuali- , ove si legge che: “qualora tutti gli altri elementi pertinenti alla situazione siano ubicati, nel momento in cui si opera la scelta, in un paese diverso da quello la cui legge è stata scelta, la scelta effettuata dalle parti fa salva l’applicazione delle disposizioni alle quali la legge di tale diverso paese non permette di derogare convenzionalmente“.
Tra le norme interne volte a disciplinare la destinazione patrimoniale e l’amministrazione dei beni altrui vi è proprio l’art. 2645-ter c.c. e, tra i requisiti da esso richiesti, spicca, per la sua rilevanza, quello dell’interesse meritevole di tutela. Tramite la previsione di tale requisito il legislatore ha affermato la prevalenza degli interessi del beneficiario, se meritevoli, su quelli dei creditori: al fine precipuo di fornire una più salda giustificazione causale ad una disciplina effettivamente idonea a dar luogo ad una separazione patrimoniale. Il requisito dell’interesse meritevole di tutela, in altri termini, non fa che evidenziare l’applicazione agli atti di destinazione del principio di causalità (art. 1325, comma 2, c.c.), concorrendo a determinarne la concreta configurazione. Sul punto vi è chi, da un lato, ritiene necessario che si tratti di interessi espressione di valori costituzionalmente rilevanti, tali da trascendere la dimensione individualistica ed egoistica delle parti; dall’altro, invece, chi ritiene sufficiente individuare, al fine di legittimare il sorgere del vincolo reale in questione, un interesse talmente serio da prevalere sull’interesse economico generale. Interesse, quest’ultimo, che può essere di natura patrimoniale, ma anche morale (come un interesse di natura familiare). Spesso viene individuata come indice di immeritevolezza la circostanza che il disponente abbia voluto mantenere per sé rilevanti poteri di gestione e di controllo, come, per esempio, il potere di modificare in qualsiasi momento i soggetti beneficiari: ciò, infatti, sarebbe indice di una sua volontà egoistica e al limite del fraudolento, nei confronti dei suoi creditori.
L’art. 2645-ter c.c., d’altra parte, fa espresso rinvio all’art. 1322, comma 2, c.c. e quest’ultima previsione è stata costantemente interpretata nel senso di richiedere, per la validità del negozio, soltanto un interesse lecito, serio ed apprezzabile. L’esigenza perseguita dal legislatore è solo quella di evitare che la segregazione patrimoniale divenga, da mezzo finalizzato a garantire l’attuazione del fine del disponente, il fine esclusivo dell’atto istitutivo del vincolo. Si tratta di un’esigenza avvertita anche nei paesi di common law, laddove è considerato sham trust (“finto trust”) quello caratterizzato dall’assenza di un reale intento destinatorio, quale viene fatto apparire all’esterno, mentre lo scopo reale dell’operazione è solo quello di proteggere i beni rispetto alle pretese dei creditori.
Ciò chiarito, si sottolinea, tuttavia, la tendenza della più recente giurisprudenza ad ammettere un riconoscimento sempre più ampio e quasi indiscriminato dell’istituto del trust e, in generale, si registra una propensione della Suprema Corte a riconoscere, al ricorrere di determinate condizioni, una “tipizzazione” nell’ordinamento italiano di istituti mutuati dall’esperienza giuridica straniera, sottraendoli al filtro di meritevolezza del comma 2 dell’art. 1322 c.c. (lo stesso fenomeno si è verificato rispetto al c.d. clausole claims made, in materia assicurativa).
Si veda, in questo senso, la pronuncia della Cassazione n. 9637 del 2018, da molti indicata come la pronuncia con cui i giudici di legittimità hanno, una volta per tutte, sancito la meritevolezza in astratto del trust. Secondo la Cassazione, la valutazione astratta della meritevolezza dell’istituto sarebbe stata già compiuta dal legislatore, nel momento in cui ha scelto di ratificare la Convenzione dell’Aja e, per questo, non sarebbe necessario che il giudice provveda, di volta in volta, a valutare se il singolo contratto risponda al giudizio previsto dall’art. 1322 c.c.
Una simile pronuncia sembra il risultato di un equivoco interpretativo: discutere di “meritevolezza in astratto” è già una contraddizione in termini e rischia di vanificare ogni progresso raggiunto dagli interpreti in materia di causa in concreto. Un conto è, infatti, la legittimità in astratto di un istituto giuridico, sancita dal legislatore tramite la sua espressa previsione normativa – rectius, tipicità dell’istituto – e, ben altro conto, è la meritevolezza in concreto degli interessi perseguiti dalle parti. Quest’ultima valutazione riguarda, inevitabilmente, anche i contratti tipici previsti dal nostro ordinamento e attiene al giudizio, sempre compiuto dal giudice, sulla giustificazione causale del negozio. Spesso si discute, al riguardo, di “liceità della causa“, ma, in ultima analisi, la disamina riguarda proprio la meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti.
A maggior ragione, poi, se il requisito della meritevolezza degli interessi perseguiti sia, in maniera esplicita, imposto dal legislatore, come accade nel caso dell’art. 2645-ter c.c. in relazione ai c.d. vincoli di destinazione patrimoniale. Se anche si volesse negare che tale ultima norma sia stata l’aggancio fondamentale per l’accoglimento nel nostro ordinamento dell’istituto del trust, è comunque innegabile che essa disciplina un negozio che ha tutte le caratteristiche di base possedute da un trust e, soprattutto, che essa è volta a produrre il suo stesso risultato. Se, quindi, in relazione ad essa il legislatore ha ritenuto necessario imporre il requisito specifico della meritevolezza, è evidente che lo stesso debba essere richiesto anche in relazione al trust. Potrebbe, al massimo, ammettersene una valutazione più elastica e meno pregnante, ma non sicuramente escluderlo dal raggio di valutazione del giudice.
Si comprende che l’intento della Cassazione sia quello di consentire una più diffusa applicazione di un istituto fortemente discusso e da sempre etichettato come mezzo fraudolento di sottrazione dei beni alla garanzia dei creditori, ma non sembra che la strada corretta per legittimarlo sia un sovvertimento dei principi fondamentali del nostro ordinamento. Soprattutto quello della causa in concreto, certamente baluardo dell’autonomia contrattuale delle parti, ma allo stesso tempo argine alle iniziative economiche socialmente dannose.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Marta Limongelli
Laureata presso l'Università degli Studi di Milano nel 2016. Abilitata all'esercizio della professione forense presso la Corte d'Appello di Milano in data 18/9/2019.