La promessa del fatto del terzo

La promessa del fatto del terzo

L’ordinamento civilistico accoglie il principio di autonomia contrattuale, il quale implica, da un lato, la matrice volontaristica del contenuto negoziale, e, dall’altro, l’impossibilità che le parti possano incidere – mediante la cristallizzazione del rapporto sinallagmatico – sulle altrui sfere giuridiche (in ossequio al brocardo latino “res inter alios acta neque nocet neque prodest”).

L’espresso principio di relatività trova una puntuale esplicazione nel disposto di cui all’articolo 1372, comma 2 c.c. secondo cui il contratto – avente forza di legge tra le parti stipulanti – non produce effetto rispetto a terzi, se non nei casi espressamente previsti dalla legge.

Invero, il legislatore viene a ribadire il concetto di “intangibilità” delle altrui sfere giuridiche e, dunque, di preclusione circa la creazione di obblighi giuridici in capo a terzi estranei rispetto all’accordo posto in essere.

In ogni caso, giova ricordare come il terzo ben possa essere destinatario di effetti giuridici a lui favorevoli scaturenti da un contratto concluso da altri, purché venga fatta salva la possibilità di opporvi rifiuto.

L’istituto tipizzato che, emblematicamente, appare quale frutto e riflesso del descritto principio di relatività è quello della promessa del fatto del terzo di cui all’articolo 1381 c.c.

La fattispecie si concretizza ogniqualvolta colui che ha promesso l’obbligazione o il fatto di un terzo è tenuto ad indennizzare l’altro contraente qualora il terzo rifiuti di obbligarsi o non realizzi il fatto promesso.

Appare evidente la natura bifronte del contenuto dell’obbligazione del promittente, potendosi questa identificare tanto nell’obbligazione quando nel fatto del terzo.

Nel primo caso, il promittente potrà considerarsi adempiente sin dal momento dell’assunzione dell’obbligo da parte del terzo; nel secondo caso, invece, per ritenere la promessa adempiuta, sarà necessaria la concreta estrinsecazione del fatto ad opera del terzo.

Duplice è anche la modalità attraverso la quale la promessa del fatto del terzo può essere assunta: nel caso in cui siano stabilite obbligazioni a carico del solo promittente si può pervenire alla cristallizzazione della promessa mediante il ricorso allo schema di cui al 1333 c.c. (contratto con obbligazioni a carico del solo proponente); qualora, invece, sia prevista la dazione di un corrispettivo, la promessa assunta dal promittente acquisisce caratteri squisitamente contrattuali.

La norma ha costituito lo spunto per l’articolarsi di un vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale.

L’aspetto principale della fattispecie giuridica che preme sottolineare, in quanto esaltante il principio di relatività, è quello per cui il terzo non rimane obbligato dalla promessa intercorsa tra le parti del contratto (promissario e promittente).

Dunque, lo schema si dipana secondo la seguente articolazione: il promittente si impegna verso il promissario ad un fatto altrui, senza che in ciò venga coinvolto il terzo, anche se poi, nella sostanza, il soddisfacimento della pretesa del creditore dipenderà in toto dall’attivazione di quest’ultimo.

Il terzo, dunque, rimane esterno al rapporto e, quindi, non viene vincolato dall’altrui promessa.

Gli interpreti da sempre si sono interrogati circa la natura della obbligazione assunta dal promittente.

La fattispecie in parola ha dato adito ad un ulteriore e significativo contrasto interpretativo in merito all’obbligo di indennizzo posto in capo al promittente in caso di rifiuto del terzo ad attivarsi al fine di garantire la satisfattività della pretesa creditoria.

Questo aspetto investe, di riflesso, la natura della responsabilità del promittente in caso di inerzia del terzo.

Quindi, due i punti di forte criticità che hanno rappresentato il fulcro degli sforzi ermeneutici alternatisi nel tempo: la natura dell’obbligo assunto dal promittente e la caratura della responsabilità del promittente in caso di inattività del terzo.

Quattro i principali orientamenti che si sono susseguiti nel tentativo di fornire soluzioni soddisfacenti.

Il primo indirizzo, ancora oggi prevalente in giurisprudenza, identifica la promessa del promittente come un’obbligazione di facere.

Questa consiste nell’adoperarsi con diligenza affinché il terzo assuma un’obbligazione o ponga in essere un certo fatto materiale, venendo così a soddisfare l’interesse del promissario.

Stante l’accoglimento granitico accordato dalla giurisprudenza alla tesi in parola, la dottrina non ha mancato di mettere in luce le criticità derivanti da suddetto approccio interpretativo.

In primis, l’obbligazione principale di fare assunta dal promittente viene ad integrare soltanto un passaggio intermedio, un presupposto prodromico ad un pieno e definitivo soddisfacimento del promissario.

Inoltre, in tal modo, il promittente, una volta dimostrato di essersi attivato con la diligenza richiesta al fine di sollecitare la condotta del terzo, resterebbe sempre esente da qualsivoglia tipo di responsabilità.

Non da ultimo, la dottrina più attenta non ha mancato di chiedersi quale sia la causa giustificante la prestazione del terzo nel caso in cui il promissario abbia adempiuto correttamente all’obbligazione principale di facere.

Questo aspetto non appare di semplice definizione, soprattutto in considerazione del fatto che il terzo non resta obbligato dalla promessa intercorsa tra promittente e promissario.

Secondo i più, l’adempimento del terzo andrebbe qualificato alla stregua di un’obbligazione naturale, ossia come uno spontaneo ottemperamento, unico in grado di soddisfare pienamente gli interessi creditori.

Rilevante è altresì il nodo interpretativo che si crea nei casi in cui il promittente si dia da fare con cura e diligenza – venendo in tal modo ad adempiere pienamente all’obbligazione primaria su di esso gravante – e, ciononostante, debba comunque garantire la corresponsione dell’indennizzo al promissario.

Dunque, l’opzione ermeneutica che legge la promessa del fatto del terzo nei termini di un’obbligazione di fare lascia spazio, ictu oculi, a profonde lacune, tra cui, appunto, quella di non rendere chiare le ragioni stanti alla base della prestazione indennitaria.

Non pare corretta, difatti, né la tesi che sussume quest’ultima sotto l’alveo del risarcimento del danno per inadempimento, avendo il promittente osservato le prescrizioni scaturenti dall’obbligazione primaria a suo carico, né, tantomeno, l’indirizzo che qualifica l’indennizzo come una conseguenza dovuta al perfezionamento di un fatto illecito.

Ecco che, per tentare di ovviare a questi inconvenienti applicativi, è stata elaborata una seconda tesi, che interpreta l’obbligazione del promittente come un obbligo di risultato.

Questa, secondo il modello cura cum effectu, si sostanzia nell’attivazione del promittente al fine specifico di “procurare” il fatto del terzo; dunque, non si tratta di una semplice obbligazione di mezzi, quale sarebbe la mera attivazione presso il terzo, bensì di una obbligazione tesa a garantire l’effettivo obbligarsi del terzo quale risultato finale.

Anche suddetta impostazione ha prestato il fianco a critiche.

In particolare, l’adempimento dell’obbligazione principale viene a dipendere inscindibilmente dal fatto del terzo, elemento esterno rispetto alla sfera di controllo del promittente.

C’è chi poi non ha mancato di domandare criticamente come mai, dovendosi qualificare l’obbligazione come di risultato, il legislatore abbia previsto quale conseguenza – in caso di mancata attivazione del terzo – la prestazione di un’indennità e non, invece, il risarcimento del danno per inadempimento.

Difatti, se il terzo non si adoperasse concretamente, verrebbe meno il raggiungimento del risultato promesso dall’obbligato e, quindi, non potrebbe che trattarsi di un caso di inadempimento contrattuale.

Inoltre, anche a non voler considerare questo profilo, persisterebbe comunque il problema di ascrivere al promittente una responsabilità sganciata da profili colposi.

Come anticipato, se, da una parte, il fatto del terzo si presenta come determinate ai fini del raggiungimento dello scopo finale, dall’altro lato, non si può connettere all’eventuale mancata attivazione del terzo la responsabilità colposa del promittente, essendo il fatto del terzo un elemento scollegato rispetto alla determinazione di quest’ultimo.

Per tentare di agganciare il mancato raggiungimento del risultato alla colpa del promittente, parte della dottrina ha fatto richiamo alla categoria della responsabilità cd. colposa ex ante.

Invero, secondo lo schema in esame, al promittente si può rimproverare il fatto di essersi obbligato per il fatto di un terzo senza previamente valutare con attenzione tutti gli elementi a propria disposizione.

Una terza tesi ha ricostruito la promessa del promittente come un’obbligazione direttamente indennitaria, sospensivamente condizionata al rifiuto del terzo ad obbligarsi o ad attivarsi per eseguire il fatto.

Si tratterebbe, dunque, di una prestazione di dare, da adempiere sotto forma di erogazione di un indennizzo in caso di mancato impegno del terzo.

La giurisprudenza si è presto pronunciata criticamente in merito all’indirizzo in parola.

Infatti, se, da un lato, il promittente viene ad assumersi il rischio del mancato impegno del terzo in qualità di unico obbligato, dall’altro lato, il comportamento del terzo, restando al di fuori della sfera di controllo del promittente, appare costituire un elemento velleitario ed aleatorio.

L’ultimo orientamento, superando le difficoltà da ultimo evidenziate, ha interpretato la promessa del fatto del terzo come un’obbligazione di garanzia autonoma, svincolata da ogni comportamento delle diverse parti coinvolte.

Il promittente presta cioè garanzia, assumendosi il rischio derivante dal possibile mancato adempimento del terzo, venendo, al tempo stesso, ad evitare che il promissario debba accollarsi le pregiudizievoli ricadute economiche derivanti proprio dall’inerzia del terzo.

Snodo fondamentale all’interno della vicenda interpretativa concernente il disposto del 1381 c.c. si è determinato allorquando la dottrina e la giurisprudenza più recenti hanno avuto cura di sottolineare come, in realtà, l’oggetto dell’obbligazione primaria del promittente non possa che identificarsi nell’attivazione volta al convincimento del terzo (obbligazione di fare).

Da ciò deriva la scissione della vicenda in due fasi ideali, rispettivamente corrispondenti all’assunzione di due diverse obbligazioni.

Il primo aspetto concerne l’obbligazione principale di facere, ossia di adempiere con l’opportuna cura e diligenza per far sì che il terzo si obblighi o esegua materialmente il fatto.

In caso di mancato adempimento da parte del promittente, scatterà l’obbligo di prestare ristoro al promissario mediante il risarcimento del danno. Quest’ultimo spetta allorquando si dia prova del nesso causale sussistente tra l’inadempimento ed il conseguente evento dannoso.

Inoltre, il promissario potrà tutelarsi mediante l’esperimento delle altre classiche azioni predisposte dal legislatore per i casi di inadempimento delle obbligazioni, quali quella di risoluzione del contratto, di eccezione di inadempimento e l’azione di adempimento.

Nel caso in cui, invece, il promittente venga ad adempiere congruamente all’obbligo primario, tutto ciò che rientra nel prosieguo della vicenda non verrà più direttamente a dipendere dall’obbligato, il quale, semmai, dovrà garantire il promissario mediante la corresponsione della prestazione indennitaria, sostitutiva di quella principale, ormai sfumata.

Dunque, l’obbligo di prestare indennizzo a favore del promissario si qualifica alla stregua di una specifica obbligazione di dare, accessoria e secondaria e, in quanto tale, propria della fase successiva alla positiva verifica dell’adempimento del facere da parte del promittente.

In sostanza, secondo un procedimento di graduazione della condotta del promittente, questo sarà tenuto unicamente ad indennizzare il creditore qualora abbia agito con l’opportuna cura, invece, sarà tenuto al risarcimento dei danni qualora si profili una condotta negligente e colposa.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha introdotto un profilo di eccezione al principio esposto: non sussiste alcuna responsabilità a carico del promittente per mancato adempimento del fatto del terzo se la promessa pattuita concerne una prestazione ab origine nulla, ossia contraria a norme imperative, ordine pubblico o buon costume.

In ordine al regime di responsabilità attribuibile a carico del promittente, dall’impostazione prevalente da ultimo fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità appare palese la natura contrattuale della stessa.

Invero, in capo al promittente si configurano due diversi tipi di obbligazioni (una di facere e una di dare) che, sebbene connesse a due fasi diverse, ossia ad una fase primaria a ed una secondaria ed accessoria, trovano il proprio fondamento nel vincolo sinallagmatico posto in essere tra promissario e promittente.

L’obbligazione dedotta in contratto in via principale consiste nell’attivazione volta ad ottenere il convincimento del terzo e ad essa si aggancia, in via subordinata, quella di prestare un indennizzo, quale utilità comunque garantita al promissario ex lege.

Dunque, tanto nell’ipotesi di mancato ottemperamento diligente del promittente quanto nel caso di inerzia del terzo e contestuale mancato adempimento dell’obbligo subordinato indennitario, la giurisprudenza accorda il riconoscimento a favore del promissario delle azioni tipiche di inadempimento contrattuale.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Nina Iannaccone

Articoli inerenti