La prova della causalità materiale in ambito medico: profili generali e applicazioni in tema di consenso informato
Il settore sanitario costituisce un banco di prova in tema di responsabilità da inadempimento, la cui evoluzione si è plasmata nel tempo allo scopo di contenere quel fenomeno definito della medicina difensiva.
L’errata condotta del professionista, che esegue una prestazione a carattere sanitario, può assumere una natura contrattuale o extracontrattuale, a seconda che il legislatore la imputi alle fattispecie dell’art..1218 o dell’art. 2043 c.c.
In entrambi i casi una componente essenziale è rappresentata dal nesso eziologico, materiale e causale, tra la condotta e il danno-conseguenza, la cui prova processuale soggiace a regole differenti a seconda della natura giuridica cui si riconduce la responsabilità professionale.
L’ultimo approdo normativo avuto con la Legge 22 dicembre 2017, n.219 ha stabilito che l’inadempimento della prestazione sanitaria debba essere qualificata in termini extracontrattuali ex art.2043 c.c. e, come tale, soggetta a tutte le implicazioni sostanziali dell’istituto, iniziando dalla prescrizione quinquennale.
Tale inquadramento normativo si accompagna a un’evoluzione ermeneutica che vede il passaggio da una forma di responsabilità oggettiva dell’inadempimento ex art.1218 c.c., estraneo alla componente colposa, ad una responsabilità soggettiva, nel cui alveo la condotta diligente del professionista assume un ruolo decisivo ai fini della non-imputabilità.
Il nesso causale della responsabilità, inoltre, non si arresta alla prestazione “inesatta” ma si arricchisce di un ulteriore elemento: la mancata acquisizione del consenso informato del paziente.
Appare così opportuno sviscerare il ruolo assunto dal “vizio del consenso” nell’ambito del nesso causale materiale, esso atteggiandosi come un’obbligazione principale che affianca quella professionale del medico.
In questo nuovo contesto, la mancanza di consenso può comportare una duplice forma di lesione che investe sia l’autodeterminazione del paziente che la sua integrità psico-fisica.
La disamina della questione richiede in primo luogo un excursus sull’evoluzione interpretativa della responsabilità medica, le cui tappe sono state accompagnate da specifiche regole di riparto probatorio, per poi giungere alla normativa vigente, ove il consenso informato assume un ruolo fondamentale.
Fino all’entrata in vigore della Legge 24/2017 “Gelli Bianco”, la posizione prevalente recepita dalla L. 158/2012 (Legge Balduzzi) era orientata nel ritenere il sanitario, dipendente da struttura ospedaliera, soggetto alla regola dell’art.1218 c.c. poiché investito di una responsabilità da contatto sociale qualificato.
Questo importante concetto, frutto dell’elaborazione dottrinale tedesca, può essere definito come quel vincolo giuridico tra due soggetti che non trova fondamento in un negozio formale, bensì nell’obbligo di protezione dell’uno nei confronti dell’altro derivante da una posizione di contatto c.d. “qualificata”, ossia rilevante per l’ordinamento.
In una prima fase storica, anteriore alla legge Balduzzi, si attribuiva centralità alla dicotomia obbligazioni di mezzi, strutturalmente soggettive, tra le quali venivano ricondotti gli interventi medici complessi, e obbligazioni di risultato, strutturalmente oggettive, ove si collocavano gli interventi medici di routine.
Tale impostazione era frutto di una rigida lettura dell’art.1218 c.c. nella cui struttura, in effetti, nulla sembra attribuire rilevanza alla colpa del debitore, né si fa richiamo all’art.1176 c.c., norma che sancisce la regola di diligenza nell’adempimento.
Ciò implicherebbe una struttura a responsabilità oggettiva in seno all’art.1218 c.c., per vero propugnata per lungo tempo da autorevole dottrina.
Secondo tale posizione, il debitore, a prescindere dalla diligenza tenuta, dovrà dimostrare che la prestazione è stata resa impossibile da un “fatto ignoto”, assoluto e invincibile, legato alla prestazione in sé e non anche alla sua condotta.
Siffatta tesi, del tutto estranea alla valorizzazione del comportamento diligente ex art.1176 c.c., fu oggetto di critica da parte di coloro che propugnavano una lettura logico-sistematica dell’istituto, nella quale devono trovare collocazione anche le prestazioni mediche, strutturate su un modello di comportamento diligente e consono alla legis artis.
In un assetto ordinamentale ispirato alla solidarietà costituzionale e alla non contraddizione si riteneva che, se è vero che un debitore diligente non è mai responsabile, allora un debitore responsabile ex art.1218 c.c. si presume negligente.
In virtù di questa lettura soggettiva si concluse che l’art.1218 c.c. pone, non una, ma due presunzioni: di nesso causale, tra condotta e inadempimento e di colpa.
Non di meno la distinzione concettuale tra obbligazioni di mezzi e di risultato, questi ultimi definiti come interventi di routine, continuavano ad essere assoggettati ad un’idea di responsabilità oggettiva, secondo cui il medico era gravato dall’onere di provare la mancanza di nesso causale tra condotta e esito infausto, nesso che, per la facilità dell’intervento, si riteneva presunto.
Per vero, negli interventi di routine si imponeva al sanitario la dimostrazione del fattore ignoto, poiché la semplicità della prestazione la rendeva un adempimento dall’esito prevedibile, caratterizzata dalla certezza probabilistica a che il rispetto della legis artis avrebbe dato esito fausto.
Contrariamente gli interventi complessi, dall’esito incerto e caratterizzati da elevato tecnicismo, costituivano obbligazioni di mezzi, nei quali assumeva rilevanza la prova dell’assenza della colpa determinata da un comportamento diligente che assumeva esso stesso natura di prestazione primaria.
La dicotomia tra obbligazioni di mezzi e di risultato, ampiamente criticata dalla dottrina, ha condotto le Sezioni Unite 2008 (Sentenza 11 gennaio 2008, n. 577) a far propria la regola di omogeneità probatoria delle Sezioni Unite del 2001 e applicarla indistintamente a prescindere dal tipo di intervento.
La regola, ispirata totalmente a un’idea di inadempimento contrattuale a carattere soggettivo, prevede che il paziente sia tenuto a provare il titolo, ovvero il contatto che ingenera nel sanitario la posizione di garanzia e il danno conseguenza (art.1223 c.c.), limitandosi ad allegare la causalità materiale e colposa della condotta professionale.
Il medico, a prescindere dalla complessità dell’intervento, dovrà dar prova di aver osservato una condotta conforme ad uno standard di diligenza più elevato, secondo il disposto dell’art.2336 c.c. a mente del quale il debitore professionale risponde per imperizia, ovvero mancato rispetto della legis artis, solo nel caso di colo o colpa grave.
Molto spesso accade che nelle obbligazioni mediche il nesso eziologico tra condotta e esito infausto si atteggia come omissione colposa, ove la condotta errata consiste nel mancato impedimento di un evento che non si sarebbe verificato se si fosse rispettato il precetto stabilito nella regola di condotta.
In tali ipotesi, particolarmente frequenti, la causalità materiale e la causalità colposa tendono a sovrapporsi, posto che la disobbedienza alla regola prestabilita dalla legis artis altro non è se non un’omissione.
Tenuto quindi conto che l’art.2236 c.c. fa riferimento all’imperizia dovuta a dolo e colpa grave, la prova civilistica spettante al medico sarà data dimostrando che, anche se avesse tenuto una condotta conforme a perizia, “con certezza più probabile che non” l’evento si sarebbe ugualmente verificato.
Differentemente, se si è in presenza di una condotta attiva, il medico dovrà provare che, nonostante abbia tenuto una condotta perita e conforme alle regole di settore, l’evento si è ugualmente verificato per una causa a lui non imputabile, recidendo così la presunzione di colpa grave data dal combinato disposto degli artt.1218-2336 c.c.
La legge di regolarità causale che viene applicata in siffatte ipotesi è meno rigida di quella richiesta in sede penale.
Invero, sebbene si faccia comunque riferimento alla regola sancita dagli artt.40-41 c.p. inerenti alla conditio sine qua non, nel processo civile non è richiesta la certezza processuale che un fatto sia causa dell’evento “oltre ogni ragionevole dubbio”, bensì la sussistenza di una probabilità maggiore dell’improbabilità.
Il mutamento si è determinato con l’entrata in vigore della “Legge Gelli-Bianco”, la quale ha posto fine all’inquadramento fondato sul “contatto sociale”, espressamente qualificandosi il rapporto medico dipendente/paziente come avente natura extracontrattuale, con tutto ciò che ne comporta in termini di riparto dell’onere probatorio.
Viene altresì sancito un duplice binario di responsabilità, distinguendosi tra la responsabilità della struttura ospedaliera, avente carattere contrattuale atipico, soggetto alle regole degli artt.1218 e 1228 c.c. e responsabilità aquiliana del medico dal quale la struttura si serve a qualunque titolo.
Il passaggio all’art.2043 c.c. cristallizzato nella Legge 22 dicembre 2017, n.217, fondato sulla traslazione in capo al paziente danneggiato della prova del nesso causale e dell’elemento soggettivo del medico, costituisce il rimedio civilistico che porta con sé il superamento definitivo della responsabilità da contatto sociale, salvo che per tutti quei casi in cui vi è alla base del rapporto un contratto formale, i quali continuano a soggiacere al regime applicativo dell’art.1218 c.c.
Orbene, proprio le riforme qui illustrate hanno posto le basi per la realizzazione di una disciplina ex novo in tema di consenso informato, culminato con l’entrata in vigore della Legge Gelli Bianco la cui funzione principale è stata quella di regolamentare la gravosa questione inerente al consenso informato e scelte di “fine vita” o “testamento biologico”, tecnicamente definite come “disposizioni anticipatorie di trattamento”.
La regolamentazione del consenso informato, precedentemente all’entrata in vigore della suddetta normativa, poteva essere desunta dalla lettura combinata dei valori costituzionali in materia di diritto alla salute e libertà personale.
In particolare il quadro di riferimento era dato (e lo è tutt’ora) dagli artt.2-13-32 cost., nonché dagli art.1-2-3 CDFUE o Carta di Nizza, in virtù dei quali trova affermazione quel principio fondamentale secondo cui il diritto alla libertà personale porta con sé il diritto a conoscere le proprie condizioni reali e scegliere con libertà e consapevolezza responsabile la propria sorte.
Invero l’art.32 cost. non solo esprime il diritto del cittadino ad essere curato, ma anche a scegliere di non curarsi, entro i limiti posti dalla legge qualora il trattamento sanitario obbligatorio si giustifica in vista di una superiore ragione di pubblica sicurezza.
La salute assume quindi il carattere di bene personale, la cui disponibilità ha posto il problema di doversi confrontare con la cogente indisponibilità del bene vita: è evidente che scegliere di non curarsi molto spesso significa scegliere di morire, disponendo così, secondo taluni illegittimamente, del bene supremo.
Non di meno, questa forma di disponibilità della vita spettante al malato molto spesso si cristallizza in un quadro clinico che porta con sé sofferenze inutili per sé e per i propri famigliari.
Si può affermare che, in tale contesto, il divieto di disporre della propria vita trova una sua ratio derogatrice nella dignità dell’essere umano a morire senza soffrire o, se si vuole, cessare la propria esistenza nel modo che ciascuno reputa più dignitoso per se stesso.
In questa sintetica panoramica ove la latitudine applicativa del diritto alla salute si mostra sensibile alle più intollerabili sofferenze umane, si è collocata l’elaborazione puntuale delle disposizioni di fine vita, del rapporto fiduciario medico/paziente e del diritto di quest’ultimo a conoscere delle proprie condizioni in maniera chiara e comprensibile.
L’art.1 della L.219/2017 disciplina il c.d. consenso informato, quale espressione di un nuovo rapporto fiduciario medico/paziente, del diritto di conoscere il proprio stato fisico, i benefici e i rischi della terapia e le eventuali alternative.
A ciò si aggiunga il diritto del paziente a rifiutare le cure a seguito della diagnosi e la possibilità di indicare un famigliare o una persona di fiducia a esprimere il consenso in propria vece, il tutto opportunamente documentato in forma scritta, con videoregistrazioni o con qualunque altro mezzo che consenta al paziente di esteriorizzare la propria volontà qualora ne sia impossibilitato.
Il medico è tenuto a prospettare in maniera limpida le conseguenze delle decisioni assunte dal paziente e quelle dell’eventuale terapia, ivi compresi i rischi che questa comporta.
In ciò si inserisce la questione della mancata acquisizione da parte del medico del consenso informato, il quale, alla luce di quanto sin qui esposto, costituisce un’obbligazione principale, ulteriore a quella di eseguire le prestazioni secondo diligenza.
Ci si domanda cosa accade dal punto di vista causale qualora il medico esegue una prestazione senza aver adempiuto il previo obbligo di acquisire il consenso, se ciò sia fonte di responsabilità e soprattutto quale sia il riparto dell’onere probatorio alla luce delle regole generali.
La violazione dell’obbligo di acquisire il consenso secondo le forme di legge determina in primo luogo una doppia lesione: del diritto all’autodeterminazione in quanto tale e del diritto all’integrità fisica.
La lesione dell’integrità fisica può verificarsi ad esempio qualora il medico intervenendo chirurgicamente senza consenso, quindi dal punto di vista penale senza i presupposti per la scriminante dell’adempimento del dovere, provochi lesioni più o meno gravi al corpo del paziente.
Si faccia riferimento all’ipotesi in cui tra medico e paziente sussista un vincolo contrattuale.
In questo caso, come chiarito, il regime probatorio applicabile è quello dell’art.1218 c.c.
Dal punto di vista causale, la mancata acquisizione del consenso da luogo ad un intervento che il paziente adeguatamente informato avrebbe potuto rifiutare, a prescindere dall’esito fasto o nefasto.
Mediante l’acquisizione del consenso, il rischio dell’alea dell’intervento si sposta dal medico al paziente che consapevolmente saprà a cosa va incontro, mentre, in difetto, il rischio continua a permanere in capo al medico, che non potrà essere scriminato dalle conseguenze della propria condotta.
Ciò comporta, in ogni caso, la duplice lesione del diritto all’autodeterminazione e all’integrità psico-fisica del paziente.
Il primo diritto è risarcibile ex se, a prescindere dall’esito fasto o nefasto della prestazione ovvero dalla necessità dell’intervento ai fini della salvezza, poiché “il consenso” costituisce un bene giuridico autonomo la cui lesione non necessita di essere provata dal paziente, né il medico sarà tenuto a dimostrare che il consenso vi sarebbe stato se il paziente fosse stato informato.
Invece, per ciò che concerne la lesione dell’integrità fisica, la prova del nesso causale assume una connotazione più complessa, anche alla luce di un recente orientamento giurisprudenziale in tema di riparto ex art.1218 c.c.
Trattandosi di una lesione che dà luogo ad un danno conseguenza è necessario verificare se il vizio del consenso si ponga in rapporto eziologico con il danno alla salute.
In questo caso, il riparto dell’art.1218 c.c. consolidato con le Sezioni Unite del 2001, consente di poter affermare che il paziente/creditore dovrà solo allegare la mancata acquisizione del consenso, inteso come nesso tra condotta e inadempimento, mentre al medico spetterà provare che il paziente avrebbe dato il consenso se fosse stato adeguatamente informato.
Ad esempio nel caso in cui l’intervento si riveli necessario per salvare il paziente incosciente da imminente pericolo di vita.
La giurisprudenza maggioritaria ha ritenuto che il vizio del consenso possa sempre determinare una lesione all’integrità psico-fisica, poiché impedisce che l’alea del rischio si sposti dal medico al paziente, non avendo potuto quest’ultimo scegliere se assumere o meno tale rischio su sé stesso.
Un recente intervento della giurisprudenza, in materia di riparto, ha tuttavia messo in discussione le regole ventennali sin qui consolidate circa la responsabilità contrattuale, indirizzandosi verso una sorta di unificazione dell’onere probatorio contrattuale e extracontrattuale.
Si badi che la responsabilità di cui all’art. 2043 c.c. già dal 2012 caratterizza quelle frequenti situazioni in cui manca il contratto sottostante medico/paziente.
Il nuovo orientamento, ampiamente incisivo anche in ambito medico, parte dal presupposto che la struttura dell’art.1218 c.c. contrariamente a quanto finora sostenuto non pone una presunzione di causalità materiale tra condotta e inadempimento/evento.
Si deve contrariamente prospettare una doppia causalità, l’una materiale intesa come elemento costitutivo della responsabilità che dovrà essere provata dal creditore ai sensi dell’art.2697 c.c., l’altra intesa come mancanza di una fattispecie estintiva dell’obbligazione ex art.1256 c.c. che dovrà invece essere provata dal debitore.
Solo successivamente viene in rilievo l’elemento della colpa intesa quale comportamento diligente ex art.1176 c.c., la cui mancanza dovrà essere provata dal debitore secondo le regole sopra descritte.
In sintesi, similmente alla struttura dell’art.2043 c.c., il creditore dovrà provare il titolo, il nesso materiale e il danno conseguenza, e solo allegare la colpa (o causalità giuridica) del debitore. Il debitore dovrà provare o l’esistenza di una causa estintiva del rapporto obbligatorio ex art.1256, ovvero che, nonostante la propria diligenza, non ha potuto impedire l’inadempimento.
Orbene, trasponendo il tutto in ambito medico e in particolare con riferimento al tema del consenso informato, si può pervenire alle seguenti conclusioni.
Il mancato adempimento dell’acquisizione del consenso, costituendo il nesso eziologico tra la condotta del medico e l’inadempimento, dovrà, secondo il predetto orientamento, essere oggetto di prova da parte del paziente. In particolare al paziente non sarà sufficiente allegare che se il consenso fosse stato acquisito l’intervento non vi sarebbe stato, bensì dovrà provare esattamente il contrario.
Come accade nell’art.2043 c.c. grava quindi sull’attore/creditore/paziente la prova materiale del nesso eziologico tra la condotta lesiva, nel caso de quo il vizio del consenso, e l’evento dannoso, oltre ovviamente al danno conseguenza richiesto dall’art.1223 c.c., mentre la causalità colposa del medico sarà presunta.
La conclusione a cui questa analisi consente di pervenire in virtù dei più moderni approdi giurisprudenziali è nel senso di ritenere determinante il ruolo sempre più incisivo assunto dalla componente soggettiva. nell’ambito di quelle condotte connotate da elevata professionalità.
Invero, l’acquisizione del consenso altro non è se non l’espressione dell’esigenza di instaurare un rapporto fiduciario tra i due termini soggettivi del rapporto obbligatorio, dove non può non assumere rilievo la diligenza professionale, la correttezza e la trasparenza.
Talché, la mancanza del consenso informato si inserisce nell’ambito di un nesso causale che è sì materiale, ma inscindibilmente connesso a quello colposo.
Prova ne sia la recente tendenza della giurisprudenza ad approdare verso un accostamento sempre più marcato tra la responsabilità contrattuale e extracontrattuale in materia di onere della prova, in particolare con riferimento al nesso eziologico tra condotta e evento. Questa traslazione del peso verso il danneggiato è coerente con l’intento delle recenti riforme di contrastare la medicina difensiva e discostarsi sempre più da quell’impostazione oggettivistica della responsabilità, del tutto rimessa alla dimostrazione da parte del medico del “fattore ignoto” interruttivo del nesso, slegato alla sua condotta soggettiva.
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Angela Marinangeli
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