La pubblica amministrazione e le sue funzioni: discrezionalità e sindacato giurisdizionale
Sommario: 1. La Pubblica amministrazione – 2. L’interesse pubblico – 3. Il potere della Pubblica amministrazione – 4. La discrezionalità amministrativa – 4.1. Potere discrezionale vincolato dell’interno – 4.2. Discrezionalità e apprezzamento – 4.3. Discrezionalità e scopo dell’atto – 5. La discrezionalità c.d. “tecnica” – 6. Il sindacato giurisdizionale sull’attività amministrativa: evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale – 6.1. Il sindacato giurisdizionale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa – 6.2. Il sindacato giurisdizionale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa c.d. “tecnica” – 7. I vizi di legittimità dell’atto amministrativo: violazione di legge e incompetenza – 7.1. L’eccesso di potere.
1. La Pubblica amministrazione
Nella Costituzione manca una definizione di Pubblica amministrazione; infatti, di tutti i principi che ad essa si riferiscono (per citarne alcuni: principio di legalità ex art. 4 disp. prel. c.c.; principio di responsabilità ex art. 28 Cost.; principio di imparzialità e quello di buon andamento ex art. 97 Cost.), nessuno ne definisce l’identità.
La Pubblica amministrazione non ha un volto specifico pur avendone innumerevoli: essa appare sotto la veste dello Stato, delle Regioni, delle Province e dei Comuni, ma anche nelle altre identità indicate nell’elenco (incompleto) di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.
La Pubblica amministrazione, quindi, non ha una propria personalità ma è un insieme di tante varie unità che vengono definite enti pubblici, i quali non hanno anch’essi una propria soggettività poiché sono organizzati in organi e uffici.
Pertanto, potrebbe dirsi che la Pubblica amministrazione indossi una maschera che cambia a seconda dell’ente considerato e a seconda delle finalità di volta in volta perseguite o, per il fatto che diversi enti pubblici e finalità varie coesistono, si potrebbe meglio immaginare come l’Idra di Lerna laddove ad ogni testa corrisponde una determinata Pubblica amministrazione o, più precisamente, un determinato ente pubblico.
2. L’interesse pubblico
Se non è facile attribuire un volto alla Pubblica amministrazione, al contrario, certa è la funzione da essa svolta.
La sua attività, infatti, è destinata alla cura dell’interesse pubblico[1], il quale costituisce la causa esclusiva dell’azione amministrativa.
Nel sapere comune, l’interesse pubblico costituisce l’interesse di tutti, ovvero l’interesse della generalità dei consociati in un determinato momento storico.
A ben vedere, però, l’interesse pubblico non è realmente l’interesse di tutta la comunità, ma solo di una parte di essa, ovvero di quelle persone che vantano lo stesso interesse privato.
Infatti, l’interesse pubblico altro non è che un interesse privato comune ad una pluralità di persone; è la sommatoria di uguali interessi privati, facenti capo ad una pluralità di persone, i quali possono contrastare con interessi di altri privati[2].
Da ciò si evince che “l’interesse pubblico non esiste mai solitario ma sta insieme ad altri interessi pubblici, collettivi e privati”[3], pertanto, “una comunità ben può vantare un proprio interesse pubblico, ma può darsi il caso che una stessa comunità possa vantare contestualmente interessi pubblici molteplici, anche in conflitto tra loro”[4].
Il compito della Pubblica amministrazione, quindi, è quello di stabilire quale sia l’interesse pubblico prevalente, ovvero stabilire quale sia l’interesse più meritevole di tutela riferito ad una determinata comunità.
Certamente l’interesse pubblico prevale sull’interesse privato, pertanto, il primo può e deve essere soddisfatto anche a discapito del secondo o, più precisamente, adottando soluzioni che pregiudichino il meno possibile gli interessi privati[5].
Se, però, l’interesse privato non contrasta con quello pubblico, anche il primo deve essere perseguito dalla Pubblica amministrazione[6].
In ogni caso, al fine di stabilire quale interesse prevale su altri interessi privati, ovvero quale sia l’interesse primario (l’interesse pubblico) che deve essere soddisfatto, o al fine di stabilire quale interesse pubblico prevale sulla gamma degli interessi pubblici, la Pubblica amministrazione deve attivare un procedimento amministrativo che, attraverso una fase istruttoria, indicherà quello meritevole di tutela (o meglio, quello più meritevole di tutela).
3. Il potere della Pubblica amministrazione
La Pubblica amministrazione è titolare di una situazione giuridica soggettiva attiva che si sostanzia nel potere in base al quale agisce[7].
Essa, quindi, è legittimata a svolgere la sua attività (la cura dell’interesse pubblico) in base al potere (o potestà) che le è attribuito dalla legge, il quale le consente di porre in essere atti giuridici unilaterali (provvedimenti amministrativi) che sono idonei a disciplinare interessi altrui, ovvero idonei a produrre effetti giuridici nei confronti di altri diversi soggetti, a prescindere dal loro consenso.
Il potere di cui si parla, quindi, è un potere autoritativo[8] ma tale potere non può essere esercitato liberamente, infatti, la Pubblica amministrazione ha il dovere di provvedere quando la sua azione è necessitata, ovvero quando occorre procedere alla soddisfazione dell’interesse pubblico e l’esercizio del suddetto potere è condizionato proprio da questa finalità.
Inoltre, la Pubblica amministrazione deve agire osservando i contenuti ed i confini stabiliti dalla legge (principio di legalità) ed operare nel modo migliore possibile in base ai criteri di adeguatezza, convenienza e opportunità[9].
Per quanto riguarda la qualità del potere della Pubblica amministrazione, si distingue tra potere vincolato (o attività vincolata) e potere discrezionale (o attività discrezionale).
Quando la norma disciplina in modo puntuale l’attività che deve essere svolta, la Pubblica amministrazione esercita un potere vincolato poiché tale disciplina le preclude ogni margine di apprezzamento discrezionale.
Infatti, la Pubblica amministrazione ha l’obbligo di intervenire con un atto, ma la valutazione circa la comparazione tra interessi pubblici e interessi privati è già stata eseguita dal legislatore[10].
In tal caso, la Pubblica amministrazione deve soltanto verificare l’esistenza dei presupposti previsti dalla norma per l’emanazione dell’atto.
Ciò si verifica, ad esempio, quando la motorizzazione rilascia le patenti di guida poiché essa “si limita a valutare la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge e a rilasciare, oppure negare, la patente”[11].
Al contrario, quando la norma non regola ogni aspetto della fattispecie e le modalità dell’esercizio della potestà, la Pubblica amministrazione esercita un potere discrezionale poiché tale disciplina le lascia un certo margine di apprezzamento in ordine ad alcuni aspetti dell’atto da emanare[12].
In tal caso, la Pubblica amministrazione esercita il potere in base alla delega normativa e può compiere un’attività ricognitiva e valutativa al fine di tutelare uno specifico interesse (l’interesse pubblico primario).
Costituisce “un esempio di esercizio di attività discrezionale la predisposizione di un piano urbanistico. Infatti, l’amministrazione locale dovrà scegliere quali interessi considerare preponderanti rispetto ad altri (ad esempio gli interessi dei singoli gestori di esercizi commerciali piuttosto che quelli di un’eventuale cordata di imprenditori che intendesse costruire un unico centro commerciale) e quale sia il modo migliore per tutelarli”[13].
4. La discrezionalità amministrativa
Come si è visto, la Pubblica amministrazione, nello svolgimento della sua attività (la cura dell’interesse pubblico), può esercitare un potere discrezionale e, quindi, svolgere un’attività discrezionale quando la norma non la disciplina completamente.
In tal caso, la Pubblica amministrazione è libera di scegliere il modo che ritiene più opportuno al fine di soddisfare l’interesse pubblico.
Finora si è visto che cosa giustifica l’esercizio del potere discrezionale, ovvero quando è possibile far ricorso alla discrezionalità; resta da chiarire cosa sia di preciso questo potere, il suo contenuto.
Certamente l’esercizio del potere discrezionale è legato all’esecuzione di un’attività amministrativa e, quindi, alla cura dell’interesse pubblico il quale, infatti, condiziona la discrezionalità ma, a ben vedere, esso costituisce lo scopo dell’atto, non del potere discrezionale[14].
Giannini esclude che il potere discrezionale sia solo un’attività volitiva, ovvero una scelta compiuta fra varie soluzioni (Laun)[15], o che la discrezionalità ricorra solo quando la norma lascia un concetto impreciso che non può essere completato da regole scientifiche o sociali (Jellinek)[16].
La discrezionalità amministrativa costituisce un modo di essere dell’attività amministrativa e comporta un ampliamento delle attribuzioni proprie di questa attività[17].
L’attività discrezionale non deve essere intesa (o confusa) come la libertà di agire di cui sono titolari i soggetti privati, infatti, la Pubblica amministrazione non gode di questa autonomia privata.
La discrezionalità è si una libertà, e precisamente libertà di apprezzamento delle opportunità di soluzioni possibili[18] che dà luogo ad una manifestazione di volontà, ma è una libertà limitata positivamente poiché, comunque, è disciplinata da leggi ed è finalizzata proprio alla cura dell’interesse pubblico[19]; tuttavia, al di là di questi limiti la Pubblica amministrazione è assolutamente libera.
Il potere discrezionale, quindi, è il potere della Pubblica amministrazione di valutare le soluzioni possibili entro un margine stabilito, di volta in volta, dalla legge la quale consente all’autorità amministrativa di determinare in concreto uno o più elementi dell’atto: i motivi, i presupposti e la volontà (an, quid, quomodo, quando)[20].
4.1. Potere discrezionale vincolato dall’interno
La Pubblica amministrazione, mediante l’esercizio del potere discrezionale, svolge le proprie funzioni liberamente poiché queste sono vincolate solo dal dover soddisfare interessi altrui che ne sono a fondamento (interessi pubblici)[21].
L’esercizio del potere discrezionale è libero nei rapporti esterni, ovvero nei confronti degli amministrati, ma nei rapporti interni, ovvero nei rapporti con altre autorità amministrative, può essere vincolato.
Infatti, un’autorità amministrativa gerarchicamente superiore, può regolare (o limitare) l’uso del potere discrezionale da parte dell’autorità amministrativa gerarchicamente subordinata.
In tal caso, pur essendo l’attività vincolata (dall’interno), non si esclude la discrezionalità poiché il potere esercitato dalla Pubblica amministrazione non è un potere vincolato in senso stretto, essa non svolge un’attività vincolata (in senso stretto), ma esercita comunque un potere discrezionale: nel primo caso il vincolo deriva direttamente dalla legge, nel secondo, invece, il vincolo deriva solamente da una norma interna dettata da un’autorità gerarchicamente superiore.
Ciò che rileva, però, è il risultato esterno: i soggetti amministrati, infatti, non saranno interessati dai rapporti intercorrenti fra le due autorità amministrative e non si troveranno di fronte a due poteri concorrenti, l’uno dei quali limita l’altro, ma saranno investiti da un solo potere discrezionale, ovvero quello dell’autorità amministrativa che lo esercita all’esterno mediante un atto amministrativo.
Nei rapporti esterni, l’atto emanato produrrà comunque gli effetti che gli sono stati attribuiti dalla legge anche se il potere discrezionale è stato limitato dall’interno.
La differenza tra questi due tipi di vincolo (interno ed esterno) si rinviene anche nella conseguenza della trasgressione di tali doveri (o limiti).
Infatti, se il vincolo è esterno, ovvero derivante da una norma di legge (attività vincolata), la trasgressione dà luogo ad una violazione di legge; se, invece, il vincolo è interno, ovvero derivante da una norma interna (attività discrezionale) dettata da un’autorità gerarchicamente superiore e, quindi, non avente efficacia esterna, la trasgressione dà luogo soltanto ad un’ipotesi di eccesso di potere con conseguente responsabilità amministrativa del funzionario.
Pertanto, da questa analisi si evince che l’unico vero limite (esterno) al potere discrezionale è il dovere di agire nel modo più opportuno al fine di soddisfare l’interesse pubblico il quale condiziona la stessa discrezionalità[22].
4.2. Discrezionalità e apprezzamento
Per il fatto che la discrezionalità è l’apprezzamento (o il giudizio) di tutte le varie possibili soluzioni che si prospettano per soddisfare l’interesse pubblico, essa completa la norma giuridica che attribuisce la discrezionalità.
Infatti, se nel caso di un’attività vincolata la norma non deve essere integrata ma rigidamente applicata, nel caso di un’attività discrezionale la norma non disciplina puntualmente l’attività che deve essere svolta, non indica in che modo deve essere effettivamente soddisfatto l’interesse pubblico, pertanto, questa sarà integrata in base all’apprezzamento discrezionale[23].
L’apprezzamento precede la formazione della volontà e consiste in una comparazione qualitativa e quantitativa degli interessi, pubblici e privati, concorrenti in modo da realizzare un contemperamento degli stessi affinché ciascuno di essi venga soddisfatto nella misura ritenuta necessaria[24].
Nella discrezionalità, quindi, vengono ponderati i vari interessi in gioco dando, ovviamente, la preferenza, o maggiore rilevanza, all’interesse pubblico primario.
La necessità della discrezionalità, quindi, sta nel fatto che se l’amministrazione deve soddisfare l’interesse pubblico, allora deve procedere alla sua ponderazione nei confronti degli altri interessi che devono, anch’essi, essere valutati.
In definitiva, tale ponderazione rientra nell’apprezzamento e costituisce un elemento proprio della discrezionalità[25].
La Pubblica amministrazione, quando esercita il potere discrezionale, si trova davanti a più soluzioni possibili rispetto alla norma amministrativa da attuare, ma deve scegliere quella che, avendo considerato gli interessi in questione, consente meglio di soddisfarli, o che consente di soddisfare, in particolar modo, l’interesse pubblico.
Si noti che quando la Pubblica amministrazione adotta un atto amministrativo per soddisfare un interesse pubblico, e quindi adotta un atto che comporta uno svantaggio per altri interessi (pubblici o privati), comunque esercita una discrezionalità anche nei confronti di questi interessi, seppure non soddisfatti, poiché la mancata soddisfazione di questi è comunque esercizio della discrezionalità e, quindi, dell’apprezzamento, sebbene a loro discapito.
Si potrebbe dire che la Pubblica amministrazione, quando adotta un atto amministrativo al fine di favorire un determinato interesse, adotta (o meglio compie) contemporaneamente un altro atto di volontà (materialmente inesistente) che invece nega la soddisfazione, ovvero comporta l’insoddisfazione o la minore soddisfazione, degli altri interessi.
4.3. Discrezionalità e scopo dell’atto
La valutazione degli interessi sfocia in un atto amministrativo che deve essere conforme allo scopo, ovvero finalizzato ad un determinato fine (la cura dell’interesse pubblico), e opportuno, ovvero idoneo a raggiungere tale scopo[26].
Può però darsi il caso che quello scopo possa essere raggiunto soltanto in un determinato modo ovvero che, in particolari circostanze, solo un determinato atto è opportuno a raggiungerlo.
In tal caso, pur essendo l’attività “vincolata”, non si esclude la discrezionalità poiché il potere esercitato dalla Pubblica amministrazione non è un potere vincolato in senso stretto, essa non svolge un’attività vincolata (in senso stretto) ma esercita comunque un potere discrezionale.
Infatti, il vincolo non deriva da una norma giuridica che disciplina il modo di agire e che, quindi, impone un determinato comportamento: tale vincolo deriva soltanto dalle circostanze le quali rendono un determinato modo di agire, che è pur sempre individuato dalla Pubblica amministrazione e non da una norma, l’unico modo necessario ed opportuno per raggiungere lo scopo[27].
5. La discrezionalità c.d. “tecnica”
Quando la norma richiama regole di natura tecnica si concreta un’attività diversa da quella fino ad ora descritta.
Infatti, sopra si è fatto riferimento alla discrezionalità amministrativa c.d. “pura” il cui esercizio consiste in quel procedimento nel quale la Pubblica amministrazione sceglie, dopo aver analizzato varie soluzioni, quella più opportuna ai fini della cura dell’interesse pubblico: pertanto, la Pubblica amministrazione svolge una comparazione tra i vari interessi in gioco al fine di individuare la migliore soluzione che permetta di perseguire, o curare, l’interesse pubblico primario.
Invece, nel caso della discrezionalità c.d. “tecnica”, la Pubblica amministrazione compie un altro tipo di procedimento.
L’esercizio della discrezionalità c.d. “tecnica” non è più di tipo comparativo, ma di tipo valutativo, infatti, la Pubblica amministrazione non mette in comparazione i vari interessi, non esprime un giudizio relativo all’interesse pubblico, non sceglie quale interesse deve essere preferito e quindi tutelato, ma semplicemente esprime un giudizio relativo al fatto dopo aver compiuto un accertamento sulla base di conoscenze e regole che, pur essendo richiamate da una norma giuridica mediante un rinvio formale (c.d. rinvio recettizio), non appartengono al diritto, ma sono proprie di scienze tecniche e/o scientifiche quali, ad esempio, la medicina, la biologia, la fisica, l’ingegneria ecc.[28].
Ciò avviene, ad esempio, “quando si attribuisce alla Pubblica amministrazione il potere di vietare la vendita di sostanze alcoliche: la tossicità va apprezzata applicando conoscenze riferibili alla chimica, alla medicina, ecc.; oppure quando la Pubblica amministrazione dichiara un bene culturale che ha a parametro l’arte, la storia, l’archeologia, l’antropologia, la paleontologia, la preistoria e richiede apprezzamenti che le norme indicano con il carattere della rarità o pregio o che presentino un eccezionale o particolarmente importante interesse culturale”[29].
Secondo Giannini, contestando l’esistenza della discrezionalità c.d. “tecnica”, gli atti che vengono adottati applicando regole scientifiche e/o tecniche non possono che essere vincolati perché queste regole danno sempre gli stessi risultati che sono certi, scientificamente vincolati e, pertanto, non discrezionali.
L’esercizio dell’attività discrezionale sfocia in una scelta, mentre l’esercizio dell’attività discrezionale c.d. “tecnica” si conclude soltanto con un giudizio: in tal caso manca la scelta, infatti, la Pubblica amministrazione è vincolata dal risultato ottenuto dall’accertamento tecnico[30].
Occorre osservare che in alcuni casi la valutazione tecnica avviene sulla base di regole scientifiche esatte e non opinabili, pertanto, si parla di giudizi tecnici non opinabili o oggettivi: ad esempio quando occorre stabilire la gradazione alcolica di una bevanda o la tossicità di una sostanza.
Invece, si parla di giudizi tecnici opinabili o soggettivi quando la valutazione tecnica avviene sulla base di scienze inesatte: ad esempio quando occorre valutare un bene come bellezza paesistica[31].
Ovviamente tale distinzione ha rilevanza in tema di sindacato giurisdizionale ed in particolare sul ruolo sostitutivo del giudice amministrativo.
Nel primo caso, infatti, essendo il giudizio della Pubblica amministrazione oggettivo, poiché basato su regole inopinabili, non vi è alcun limite al controllo giudiziale e il giudice potrebbe sostituirsi alla Pubblica amministrazione esprimendo un giudizio altrettanto inopinabile, pertanto si parla di sindacato di tipo “forte”; nel secondo caso, invece, essendo quello della Pubblica amministrazione un giudizio soggettivo, poiché basato su regole opinabili, il giudice non può sostituirlo con un giudizio altrettanto opinabile ma può sindacare l’attività della Pubblica amministrazione attraverso l’eccesso di potere, pertanto si parla di sindacato di tipo “debole”[32].
L’esercizio della discrezionalità c.d. “tecnica” ha rilevanza nella fase istruttoria del procedimento amministrativo, infatti, in tale fase la Pubblica amministrazione acquisisce valutazioni tecniche al fine di esprimere il proprio giudizio nella fase decisoria.
L’acquisizione delle valutazioni tecniche è disciplinata dall’art. 17, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241 recante “Nuove norme sul procedimento amministrativo”, il quale dispone che “ove per disposizione espressa di legge o di regolamento sia previsto che per l’adozione di un provvedimento debbano essere preventivamente acquisite le valutazioni tecniche di organi od enti appositi e tali organi ed enti non provvedano o non rappresentino esigenze istruttorie di competenza dell’amministrazione procedente nei termini prefissati dalla disposizione stessa o, in mancanza, entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta, il responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri organi dell’amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari”.
In base a tale disposizione, quindi, la Pubblica amministrazione deve necessariamente acquisire le valutazioni tecniche e può acquisirle anche altrove (presso altri organi dell’amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari), salvo nel caso in cui le valutazioni “debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini” (art. 17, comma 2, della legge n. 241 del 1990)[33].
Si è detto che quando la Pubblica amministrazione esercita la discrezionalità c.d. “tecnica” esprime solo un giudizio, compie soltanto un accertamento di fatto e non ha potere decisionale.
Tuttavia, in alcuni casi, la Pubblica amministrazione, dopo aver espresso il giudizio nell’esercizio della discrezionalità c.d. “tecnica”, può avere potere decisionale: la Pubblica amministrazione può adottare un provvedimento e, quindi, può scegliere la misura più opportuna al fine di perseguire l’interesse pubblico.
In tali casi si parla di discrezionalità c.d. “mista” che è così definita perché è una forma di discrezionalità che deriva dalla sintesi della discrezionalità amministrativa c.d. “pura” e della discrezionalità c.d. “tecnica”[34].
Per comprendere meglio si riporta l’esempio svolto da R. Villata: “se all’accertamento del carattere epidemico di una malattia la legge riconduce la necessità di adottare una sola misura (in ipotesi: l’isolamento della zona) avremo discrezionalità tecnica cui seguirà attività vincolata; ove invece l’Amministrazione sia legittimata a scegliere tra rimedi differenti ed alternativi (ad es. l’isolamento o la vaccinazione generalizzata) ricorrerà l’evenienza di una scelta discrezionale successiva alla valutazione tecnica”[35].
Dall’esempio riportato si deduce che solo nell’ultimo caso la Pubblica amministrazione esercita la c.d. discrezionalità “mista”.
6. Il sindacato giurisdizionale sull’attività amministrativa: evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale
Il sindacato sull’esercizio della discrezionalità è legato alla nozione di discrezionalità e, per affrontare il tema, è necessario analizzare l’evoluzione della giurisprudenza e della dottrina.
La dottrina e la giurisprudenza più remote, in particolare quella francese e austriaca, consideravano l’attività discrezionale della Pubblica amministrazione come libertà insindacabile perché si riteneva che l’atto, essendo discrezionale e quindi libero, non fosse controllabile in sede di legittimità dall’autorità giurisdizionale amministrativa.
Successivamente la dottrina e la giurisprudenza tedesca e francese hanno affermato che gli atti della Pubblica amministrazione, pur essendo frutto dell’esercizio del suo potere discrezionale, non sono assolutamente liberi, pertanto, il sindacato del giudice non può essere escluso e l’atto può essere annullato se incorre nei vizi di legittimità: violazione di legge ed eccesso di potere[36].
Questi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in tema di sindacato giurisdizionale sono stati, più o meno, seguiti anche in Italia ma, per un’analisi approfondita, occorre fare cenno alla situazione esistente nell’Italia pre-unitaria, in particolare nel Regno di Sardegna il cui ordinamento ha inciso notevolmente su quello italiano unitario, e all’evoluzione successiva.
Nel Regno di Sardegna, Carlo Alberto di Savoia istituì con le regie patenti del 1842, successivamente modificate con un regio editto del 1847, un sistema di derivazione francese, ovvero il sistema del contenzioso amministrativo, il quale distingueva tra controversie la cui competenza era riservata all’autorità amministrativa (l’Intendente) e controversie la cui competenza era, invece, riservata dapprima all’amministrazione contenziosa (Tribunali amministrativi: Consiglio di intendenza e Camera dei conti) e, a seguito dei decreti reali del 1859, ai giudici ordinari (Consigli di governo e Consiglio di Stato) e speciali (Corte dei Conti e Consiglio di Stato) del contenzioso amministrativo.
In base a questo sistema, quindi, parte dell’attività amministrativa non era soggetta a nessun sindacato giurisdizionale.
Ad esempio, “era esclusa da qualsiasi tipo di sindacato la c.d. amministrazione economica”, ovvero “l’attività amministrativa non puntualmente disciplinata da norme di legge o di regolamento, o rimessa a valutazioni (discrezionali o tecniche) dell’amministrazione”[37].
In questi casi, per il fatto che mancava una norma che lo tutelasse, il cittadino non poteva ottenere tutela giurisdizionale ma poteva ottenerla soltanto nell’ambito dell’amministrazione.
Ciò non assicurava né una piena tutela ai cittadini, né l’imparzialità poiché la Pubblica amministrazione era sia parte in causa, sia “organo giudicante” e, in concreto, si determinava una sorta di insindacabilità dei suoi atti.
Nello Stato unitario, l’allegato E della legge 20 marzo 1865, n. 2248 (c.d. legge di abolizione del contenzioso amministrativo), non cambia di molto le cose, infatti, pur sopprimendo i giudici ordinari del contenzioso amministrativo, non apporta alcuna innovazione alla giurisdizione dei giudici speciali del contenzioso amministrativo.
L’art. 2 dell’allegato E disponeva che le materie in cui si faceva questione di un diritto civile o politico erano di competenza del giudice ordinario e che tale competenza non veniva meno anche quando la Pubblica amministrazione era parte in causa o erano coinvolti suoi interessi.
In tali casi, quindi, il giudice ordinario poteva sindacare l’atto amministrativo ma il sindacato verteva solo sulla legittimità e non anche sull’opportunità o la convenienza.
Tuttavia, l’art 3 dello stesso allegato E disponeva che gli affari non compresi nell’art. 2 erano riservati alle autorità amministrative, pertanto, il cittadino poteva ottenere tutela soltanto nell’ambito dell’amministrazione e, in tal modo, si confermava ancora una volta “l’insindacabilità” degli atti emanati dalla Pubblica amministrazione.
Ciò perché, anche in base alla nuova riforma, non si assicurava né un’efficace tutela del cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione, né l’imparzialità delle sue decisioni.
Una prima sterzata in materia di sindacato giurisdizionale si ha con la legge 21 marzo 1889, n. 5992 (c.d. legge Crispi) la quale istituì la Quarta sezione del Consiglio di Stato che aveva il compito di tutelare gli interessi (legittimi) dei cittadini lesi da atti della Pubblica amministrazione; in particolare, decideva sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti amministrativi (art. 3, comma 1[38]).
Con questa legge, quindi, viene attribuito alla Quarta sezione del Consiglio di Stato il potere di sindacare gli atti amministrativi, ma anche il potere di annullare il provvedimento impugnato; rimaneva escluso il sindacato sulla discrezionalità amministrativa che era di competenza esclusiva dell’autorità amministrativa.
Tuttavia, pur rimanendo questo ambito in cui l’amministrazione esercitava una competenza esclusiva, si apre la strada al sindacato giurisdizionale sugli atti amministrativi.
Il sindacato che poteva esercitare la Quarta sezione era un sindacato di legittimità ma, in alcuni casi, poteva esercitare anche un sindacato nel merito e, in quest’ultimo caso, non solo poteva annullare l’atto impugnato, ma poteva anche assumere una decisione sostitutiva del provvedimento annullato.
In seguito, la legge 7 marzo 1907, n. 62 introdusse un’altra sezione del Consiglio di Stato (la Quinta) e riordinò le competenze di tutte le altre sezioni.
Alle prime tre sezioni fu attribuito il ruolo di “sezioni consultive”, mentre alla Quarta e alla Quinta fu attribuito il ruolo di “sezioni giurisdizionali”: la Quarta sezione aveva la competenza sui ricorsi in cui il sindacato era di legittimità, la Quinta sezione, invece, aveva la competenza sui ricorsi in cui il sindacato era esteso al merito.
Questa distinzione di competenze tra la Quarta e la Quinta sezione venne meno con la riforma apportata dalla legge 30 dicembre 1923, n. 2840 e dal regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 che approvò il testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, mentre con il decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 642 venne istituita la Sesta sezione (giurisdizionale) del Consiglio di Stato.
Il quadro mutò ulteriormente con la legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (c.d. legge TAR) che istituì, nei capoluoghi delle Regioni, i Tribunali amministrativi regionali (TAR).
Ai TAR venne attribuita la funzione di giudici amministrativi di primo grado e, conseguentemente, alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato (Quarta, Quinta e Sesta) venne attribuita la funzione di giudici amministrativi di secondo grado[39].
Da questo momento il quadro giurisdizionale è delineato e, anche a seguito delle più significative riforme successive (legge 7 agosto 1990, n. 241 e legge 21 luglio 2000, n. 205 recante “Disposizioni in materia di giustizia amministrativa”) e dell’emanazione del codice del processo amministrativo (decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104), non subisce stravolgimenti.
Le competenze sono definite e, finalmente, si afferma la possibilità, per il giudice amministrativo, di sindacare gli atti della Pubblica amministrazione che ledono gli interessi legittimi dei cittadini; inoltre, sono chiariti i vizi che lo stesso giudice può sindacare.
Il sindacato giurisdizionale ora può essere svolto, non più senza limitazioni di materie, da organi giurisdizionali super partes, esterni all’amministrazione, che assicurano l’imparzialità.
Con questo esame sull’evoluzione storica si è voluto dimostrare come il sindacato giurisdizionale e, soprattutto, l’imparzialità non sono sempre stati assicurati a causa dei vari orientamenti giurisprudenziali e dottrinali che hanno inciso sull’attività legislativa.
6.1. Il sindacato giurisdizionale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa
Il tema del sindacato giurisdizionale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa è da sempre molto dibattuto poiché si cerca di definire l’ampiezza del sindacato giurisdizionale stesso, ovvero l’ampiezza dei poteri del giudice amministrativo.
È pacifico che il giudice amministrativo può sempre vigilare sulla legittimità del provvedimento amministrativo, ma dubbi permangono quando l’attività della Pubblica amministrazione è discrezionale: il quesito che ci si pone è fino a dove il giudice può spingersi, fino a dove può arrivare a scavare, se può o non può penetrare nel merito sindacando la scelta (discrezionale) della Pubblica amministrazione.
Con riferimento al sindacato giurisdizionale sull’esercizio dell’attività vincolata non occorre dilungarsi troppo.
In tal caso, infatti, non sorgono dubbi circa l’ampiezza del potere del giudice poiché la norma che attribuisce il potere alla Pubblica amministrazione, determinando con precisione il modo in cui questa deve agire, la spoglia totalmente del potere di autodeterminazione: la Pubblica amministrazione non deve compiere alcuna valutazione o apprezzamento ma deve soltanto applicare la legge, pertanto, l’indagine del giudice è finalizzata soltanto a verificare se l’atto emanato è sostanzialmente legittimo e nel caso in cui fosse illegittimo può annullarlo.
Badasi bene che il giudice non deve più valutare anche la legittimità formale dell’atto, infatti, in base all’art. 21-octies della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (comma 2, primo capoverso)[40].
Problemi sorgono, invece, in riferimento al sindacato giurisdizionale sull’esercizio dell’attività discrezionale.
In tal caso occorre stabilire se il giudice, oltre a vigilare sulla legittimità dell’azione amministrativa, può sindacare anche il merito amministrativo.
Il merito amministrativo attiene all’esercizio del potere discrezionale e rappresenta il nucleo libero dell’azione amministrativa: la Pubblica amministrazione sceglie fra più opzioni, tutte idonee alla cura dell’interesse pubblico, quella che ritiene più opportuna e conveniente.
Il merito amministrativo è la ragione personale della Pubblica amministrazione che la spinge a ritenere una soluzione più opportuna e conveniente e che, quindi, la spinge ad optare per una soluzione anziché un’altra.
Le valutazioni di merito relative all’opportunità e alla convenienza sono proprie ed esclusive della Pubblica amministrazione e, salvo alcune eccezioni[41], non possono essere sindacate dal giudice, né quest’ultimo può ad essa sostituirsi nell’emanazione di un atto, altrimenti si verificherebbe un eccesso di potere giurisdizionale ex art. 111, comma 3, Cost.
Infatti, l’esercizio del potere discrezionale consiste proprio nel potere della Pubblica amministrazione di scegliere la soluzione che ritiene più opportuna e conveniente e se il giudice potesse sindacare questa scelta o potesse sostituirsi alla Pubblica amministrazione, il potere di quest’ultima verrebbe vanificato.
Il giudice, quindi, può valutare solo la correttezza del procedimento amministrativo che ha portato all’emanazione di un determinato provvedimento amministrativo, ma non la correttezza della scelta operata dalla Pubblica amministrazione che rientra nella c.d. riserva di amministrazione (merito amministrativo)[42].
Questo ragionamento si riflette anche in relazione al potere di annullamento dell’atto, infatti, se solo la Pubblica amministrazione può decidere quale provvedimento amministrativo emanare, perché più opportuno e conveniente, allora, allo stesso modo, solo la stessa Pubblica amministrazione può annullare l’atto precedentemente emanato se non lo ritiene più tale[43].
Ciò detto vale, ovviamente, se la Pubblica amministrazione ha esercitato legittimamente il potere discrezionale.
Infatti, come detto sopra, il giudice può sempre sindacare la legittimità del provvedimento amministrativo, ma pur riscontrando l’illegittimità, non può sostituirsi ad essa emanando esso stesso un provvedimento sostitutivo: in tal caso, può solo accertare l’illegittimità del provvedimento impugnato e annullarlo.
Il sindacato giurisdizionale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa è, quindi, secondo la giurisprudenza maggioritaria, un sindacato non sostitutivo perché, come già detto sopra, il giudice non può sostituirsi alla Pubblica amministrazione adottando egli stesso un provvedimento.
Ma la giurisprudenza si è spinta oltre: non solo ha messo in luce la distinzione tra discrezionalità c.d. “pura” e discrezionalità c.d. “tecnica”, ma ha anche stabilito diversi limiti del sindacato giurisdizionale a seconda che la Pubblica amministrazione abbia esercitato l’uno o l’altro tipo di discrezionalità.
Questi limiti afferiscono al tipo di controllo che il giudice può svolgere, ovvero se può solo, o non solo, verificare la legittimità dell’atto amministrativo.
Da qui la distinzione tra sindacato giurisdizionale “intrinseco” ed “estrinseco”: è intrinseco quando ha ad oggetto la discrezionalità c.d. “tecnica”, estrinseco, invece, quando ha ad oggetto la discrezionalità amministrativa c.d. “pura”.
In quest’ultimo caso, il giudice può solo valutare la bontà dell’atto, può solo valutare se il procedimento seguito dalla Pubblica amministrazione è corretto, logico e ragionevole[44].
6.2. Il sindacato giurisdizionale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa c.d. “tecnica”
In passato la dottrina assimilava la discrezionalità c.d. “tecnica” alla discrezionalità amministrativa c.d. “pura”.
Infatti, si riteneva che i provvedimenti adottati dalla Pubblica amministrazione nell’esercizio della discrezionalità c.d. “tecnica” fossero il frutto delle scelte di opportunità e di convenienza e, pertanto, che rientrassero nel merito amministrativo e, conseguentemente, che fossero insindacabili.
Il giudice poteva sindacare la legittimità dei provvedimenti amministrativi, ma non poteva estendere il controllo giurisdizionale anche alle valutazioni tecniche poiché, in base a tale orientamento, rientravano nell’area dell’insindacabilità[45].
Per il fatto che la discrezionalità c.d. “tecnica” veniva considerata ancorata al merito amministrativo, il giudice non poteva esercitare un sindacato intrinseco ma estrinseco, pertanto, poteva verificare soltanto la ragionevolezza e la logicità delle valutazioni tecniche compiute dalla Pubblica amministrazione, ma non anche la correttezza e l’attendibilità delle stesse[46].
Questa convinzione, che precludeva il controllo giurisdizionale sulle valutazioni tecniche, venne superata solo più tardi con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601 (c.d. sentenza “Baccarini”)[47].
Con questa sentenza il Consiglio di Stato sgancia le valutazioni tecniche dal merito amministrativo e segna il tramonto dell’equazione discrezionalità tecnica – merito amministrativo.
La sentenza sottolinea che la questione di fatto, pur essendo opinabile, non rientra nel merito amministrativo, non costituisce una questione di opportunità e di convenienza, ma afferisce alla legittimità del provvedimento amministrativo.
Conseguentemente si ammette il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche compiute dalla Pubblica amministrazione, quindi, il giudice, in sede di legittimità, può valutare l’attendibilità delle operazioni tecniche, può verificare se la Pubblica amministrazione ha applicato criteri tecnici adeguati e se questi sono stati applicati correttamente, può verificare se il giudizio è fondato su operazioni corrette o sufficienti; in caso contrario il provvedimento amministrativo sarà affetto da un vizio di legittimità e potrà essere annullato.
In altre parole, la pronuncia del Consiglio di Stato porta ad escludere che il sindacato giurisdizionale diretto a valutare l’attendibilità delle valutazioni tecniche e, quindi, diretto a valutare solo la legittimità del provvedimento amministrativo, invada la sfera del merito amministrativo e che, conseguentemente, sia viziato da eccesso di potere giurisdizionale ex art. 111, comma 3, Cost.
Il vizio di eccesso di potere giurisdizionale si configura solo quando il giudice scava anche nel merito amministrativo, infatti, solo il merito amministrativo è insindacabile, solo le scelte di opportunità e di convenienza adottate dalla Pubblica amministrazione non possono essere oggetto di un sindacato giurisdizionale.
Un altro caso in cui il vizio di eccesso di potere giurisdizionale può concretarsi si ha quando il giudice, con la decisione di annullamento del provvedimento amministrativo, si spinge addirittura a determinare, in modo vincolante, la regola che deve essere applicata al caso in questione: in tal caso, la decisione è viziata perché il giudice, esprimendosi in tal modo, annulla la volontà della Pubblica amministrazione e si sostituisce a quest’ultima, la priva del potere di autodeterminazione e, proprio perché la scelta operata dal giudice è vincolante, non le consente di esercitare il potere discrezionale[48].
Successivamente, la conferma del successo della pronuncia del Consiglio di Stato si rinviene nel testo di cui all’art. 16 della legge 21 luglio 2000, n. 205, che ha riformato l’art. 44 del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054.
La riforma, invero, non ha stravolto la precedente formulazione del testo poiché si è limitata ad aggiungere soltanto un inciso ma, nella sua semplicità, ha rivoluzionato il processo amministrativo.
Il testo pre-riforma, infatti, disponeva che se il giudice “riconosce che l’istruzione dell’affare è incompleta, o che i fatti affermati nell’atto o il provvedimento impugnato sono in contraddizione coi documenti, può richiedere all’amministrazione interessata nuovi schiarimenti o documenti: ovvero ordinare all’amministrazione medesima di fare nuove verificazioni, autorizzando le parti ad assistervi ed anche a produrre determinati documenti”.
In base a tale formulazione, quindi, il giudice non aveva incisivi poteri istruttori, ma poteva solo rilevare l’incompletezza dell’istruzione svolta dalla Pubblica amministrazione ovvero la contraddittorietà tra i fatti affermati e i documenti o tra questi ultimi e il provvedimento impugnato.
La riforma del 2000 che ha introdotto l’inciso aggiuntivo, a fine del testo, “ovvero disporre la consulenza tecnica”, ha inciso proprio sui poteri del giudice ampliandoli.
Infatti, introducendo la possibilità per il giudice di disporre una consulenza tecnica, la cui mancanza portava a sostenere la tesi che il sindacato intrinseco fosse inammissibile, conferma che questo può verificare le questioni di fatto anche quando la Pubblica amministrazione deve esprimere valutazioni tecniche.
Il carattere rivoluzionario della nuova formulazione, quindi, sta nel fatto che il giudice, ora, non solo può rilevare le mancanze istruttorie della Pubblica amministrazione o le contraddittorietà ma, potendo disporre la consulenza tecnica, può anche ripercorrere il percorso da essa svolto, può verificare se le valutazioni tecniche adottate dalla Pubblica amministrazione sono corrette e attendibili, può acquisire la piena conoscenza del fatto.
In realtà questa innovazione processuale non nasce ex novo nel diritto amministrativo, infatti, già prima della riforma del 2000 la consulenza tecnica era prevista nei giudizi di pubblico impiego.
Inoltre, il risultato del processo riformatore non ha subito approdato alla giurisdizione di legittimità, ma ha prima invaso la giurisdizione esclusiva (art. 35, comma 3, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80[49])[50].
La riforma legislativa, ammettendo il sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità c.d. “tecnica” e stabilendo anche che questo sindacato possa essere intrinseco, ha messo fine alla discussione circa l’ammissibilità o meno del suddetto sindacato giurisdizionale ma, tuttavia, ha dato vita ad una nuova discussione.
Infatti, la giurisprudenza si è chiesta che tipo controllo può esercitare il giudice, ovvero, se può solamente dimostrare l’erroneità della valutazione tecnica adottata dalla Pubblica amministrazione (sindacato debole o non sostitutivo) ovvero se può addirittura sostituirla con la propria quando è errata o anche solo opinabile (sindacato forte o sostitutivo).
Secondo la giurisprudenza prevalente il sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica non può essere di tipo forte ma solo di tipo debole poiché il giudice, dovendo valutare la legittimità dell’atto, può solo verificare se tale atto è frutto di un corretto esercizio del potere amministrativo.
In altre parole, se la valutazione tecnica adottata dalla Pubblica amministrazione è ragionevole, corretta e (maggiormente) attendibile, il giudice, per il principio della separazione dei poteri, non può esercitare un potere sostitutivo a quello già esercitato dall’amministrazione stessa discostandosi dalla scelta da questa operata[51].
Si badi bene che il giudice non può sostituirsi alla Pubblica amministrazione neanche quando accerta che il procedimento da essa seguito non è logico e ragionevole.
Infatti, se il giudice potesse esercitare lo stesso potere che è proprio della Pubblica amministrazione, quest’ultimo verrebbe ad essere in concreto annullato e non si potrebbe più parlare di discrezionalità amministrativa ma, semmai, di discrezionalità giurisdizionale con il rischio che il giudice possa travalicare il confine del merito amministrativo e, quindi, concretarsi un eccesso di potere giurisdizionale.
7. I vizi di legittimità dell’atto amministrativo: violazione di legge e incompetenza
Nei paragrafi precedenti si è fatto cenno al fatto che il giudice amministrativo può sindacare i provvedimenti amministrativi, che siano espressione dell’esercizio del potere vincolato o siano espressione dell’attività discrezionale (pura o tecnica), soltanto per vizi di legittimità rimandando finora, per praticità, l’esame dei singoli vizi.
I vizi di legittimità dell’atto amministrativo compaiono per la prima volta in un testo legislativo soltanto nel 1889 e ciò avviene in coincidenza con l’istituzione della (prima) sede giurisdizionale dinanzi alla quale è possibile proporre ricorso contro atti e provvedimenti amministrativi.
Infatti, la legge 21 marzo 1889, n. 5992, oltre ad istituire la Quarta sezione del Consiglio di Stato, all’art. 3 chiarisce anche quali sono i vizi (di legittimità) che possono essere sindacati dal giudice amministrativo: incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere.
Successivamente, la tripartizione dei vizi è stata riaffermata dall’art. 26, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054[52], dagli artt. 2 e 3 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034[53],[54], dall’art. 21-octies, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241 e, in ultimo, dall’art. 29 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104[55],[56].
In particolare l’art. 21-octies, comma 1, della legge n. 241 del 1990 dispone che “è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza” ma, avendo esaminato i modi in cui la Pubblica amministrazione può agire (attività vincolata o discrezionale), si può facilmente dedurre, con un semplice ragionamento logico, che non tutti e tre i vizi possono colpire ogni atto amministrativo.
Infatti, il suddetto art. 21-octies fa riferimento al provvedimento amministrativo in generale, ma non distingue tra atti amministrativi vincolati e atti amministrativi discrezionali: essi rientrano nello stesso genere e traggono origine dallo stesso soggetto (la Pubblica amministrazione), ma hanno differente natura.
Ad esempio, quando si fa riferimento al genere umano non si distingue tra uomo e donna: tutti e due sono esseri umani, rientrano nella stessa specie, pur tuttavia, differenziandosi sotto molteplici aspetti.
Per stabilire da quale vizio sia affetto un provvedimento amministrativo non si può, quindi, prescindere dal fatto che esso può essere il frutto dell’esercizio, da parte della Pubblica amministrazione, di un potere vincolato o discrezionale.
Infatti, quando la Pubblica amministrazione compie un’attività vincolata non deve far altro che provvedere secondo quanto disposto dalla legge, deve soltanto applicare la legge, pertanto, è inconcepibile che la stessa possa adottare un atto viziato da eccesso di potere poiché, in tal caso, non esercita un vero e proprio potere[57].
Se la Pubblica amministrazione non osserva il precetto normativo, il provvedimento amministrativo è adottato in violazione della legge e, salvo quanto disposto dal comma 2 del citato art. 21-octies[58], può essere annullato perché viziato.
Certamente, nel caso in cui la Pubblica amministrazione compie un’attività vincolata può incorrere anche nel vizio di incompetenza (relativa)[59].
Ciò accade quando il provvedimento amministrativo in oggetto, pur essendo formalmente corretto, è emanato da un organo al quale non era attribuita la competenza ad emanarlo.
A ben vedere, anche l’atto viziato da incompetenza è adottato in violazione di legge ma, se le norme violate fanno riferimento all’attribuzione di poteri ai singoli organi, si concreta (solo) il vizio dell’incompetenza (relativa).
Ciò ha rilevanza ai fini dell’applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, primo capoverso, della legge n. 241 del 1990, il quale può essere applicato soltanto nel caso in cui l’atto è viziato da violazione di legge[60].
7.1. L’eccesso di potere
Con riferimento all’attività discrezionale (pura o tecnica), si può osservare che l’atto amministrativo (discrezionale) può essere viziato, oltre che dai vizi di legittimità già esaminati (violazione di legge e incompetenza), anche da eccesso di potere[61] il quale costituisce il “tipico vizio dell’atto discrezionale”[62].
Come si è visto sopra, i vizi di legittimità dell’atto amministrativo sono stati codificati soltanto nel 1889 ma l’espressione “eccesso di potere” aveva debuttato in un testo normativo già nella legge 31 marzo 1877, n. 3761 (art. 3, comma 1, n. 3[63]) la quale, però, faceva riferimento ai conflitti di attribuzione che potevano sorgere tra i giudici speciali e il potere amministrativo e legislativo[64].
L’espressione “eccesso di potere”, inteso come vizio di legittimità, è stata oggetto di varie discussioni dottrinali e giurisprudenziali, infatti, fin dall’emanazione della legge 31 marzo 1889, n. 5992 che, come gli altri testi normativi, non ne dava alcuna definizione, sono sorti dubbi circa il significato che il legislatore volesse attribuirle.
L’eccesso di potere trae origine dall’istituto dell’excès de pouvoir francese con cui si faceva riferimento al mancato rispetto del principio di separazione dei poteri da parte dell’autorità giudiziaria che con la sentenza si sostituiva alla Pubblica amministrazione nell’esercizio delle sue funzioni[65].
Ispirandosi all’istituto francese, il legislatore italiano introdusse il vizio dell’eccesso di potere con cui intendeva far riferimento ad un vizio dell’atto amministrativo per violazione di legge, ovvero, ad “un caso di incompetenza particolarmente grave, uno straripamento, come si diceva allora, cioè l’esercizio di un potere spettante ad autorità totalmente diversa da quella che l’esercita: una nozione grosso modo coincidente con quella di carenza di potere attualmente intesa”[66].
Nel frattempo la giurisprudenza del Conseil d’Etat francese iniziò a delineare, nell’ambito del recours pour excès de pouvoir, la figura del détournement de pouvoir che venne accolta anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Con détournement de pouvoir o, nella traduzione italiana, “sviamento di potere”, si intende l’esercizio scorretto del potere discrezionale da parte della Pubblica amministrazione che, in tal modo, svia dal fine (la cura dell’interesse pubblico) per il quale tale potere le è stato attribuito.
Il vizio di eccesso di potere si concreta quando, ad essere violata, non è la disciplina dettata da norme di legge (altrimenti si sarebbe di fronte ad una violazione di legge), bensì da principi; in altre parole, il vizio di eccesso di potere è la conseguenza della violazione dei principi di logicità, di congruità e di proporzionalità[67].
In tal caso, l’atto amministrativo (discrezionale), pur essendo conforme alla legge, può essere annullato perché viziato da eccesso di potere.
A ben vedere, però, ciò che è viziato non è l’atto in sé ma l’attività della Pubblica amministrazione.
L’atto, infatti, è conforme alla legge, pertanto, l’eccesso di potere non è un vizio proprio (di un elemento) dell’atto ma è un vizio della funzione poiché il fatto che l’atto sia viziato deriva dal fatto che la Pubblica amministrazione ha esercitato in modo non corretto il potere discrezionale[68].
L’eccesso di potere, quindi, è “lo strumento che aspira a rendere controllabile l’esercizio della discrezionalità, senza però consentire al giudice […] di entrare nel nucleo della scelta riservata” (merito amministrativo)[69].
La dottrina e la giurisprudenza, pur avendo chiarito il significato da attribuire all’eccesso di potere, hanno certamente reso più difficoltoso il lavoro del giudice nell’indagine volta ad accertare lo sviamento di potere.
Per semplificare il sindacato del giudice amministrativo, quindi, la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato le c.d. figure sintomatiche dell’eccesso di potere.
In pratica, al ricorrere di un determinato fatto (o sintomo), che non costituisca violazione di una norma di legge, si presume che la Pubblica amministrazione non abbia esercitato correttamente il potere discrezionale e che, quindi, ricorra il vizio dell’eccesso di potere[70].
La creazione delle figure sintomatiche, oltre ad ampliare il sindacato sulla discrezionalità amministrativa, ha permesso di ampliare le garanzie poiché sono state portate “all’interno del vizio di eccesso di potere alcune situazioni anomale, ma non riconducibili con immediatezza a tale vizio”[71].
Le più importanti figure sintomatiche “ormai definitivamente acquisite alla teoria dell’eccesso di potere”[72] sono i casi di contraddittorietà (fra parti dello stesso provvedimento o fra due o più atti), la disparità di trattamento, la manifesta ingiustizia, la violazione di circolari o di prassi amministrativa, il falso supposto di fatto; tuttavia, il complesso delle figure sintomatiche non costituisce un numerus clausus, pertanto, la giurisprudenza potrebbe ampliare le casistiche[73].
Una delle prime, ma anche una delle più importanti figure sintomatiche create dalla giurisprudenza è, senza dubbio, il difetto assoluto di motivazione della quale, a causa degli sviluppi normativi e (conseguentemente) giurisprudenziali, si rende necessaria una disamina.
La creazione di questa figura sintomatica è stata giustificata dal fatto che, prima dell’emanazione della legge n. 241 del 1990, non sussisteva in capo alla Pubblica amministrazione un obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi e la mancanza di tale obbligo era fonte di due conseguenze: la prima era la poca trasparenza dei lavori della Pubblica amministrazione poiché non era obbligata a fornire una giustificazione delle scelte operate; la seconda era la mancanza di una piena tutela nei confronti della Pubblica amministrazione poiché il giudice non aveva i mezzi per poter sindacare il suo operato o, più in particolare, l’esercizio della discrezionalità amministrativa.
Tuttavia, con la creazione della figura sintomatica del difetto assoluto di motivazione il problema non si risolse ma si attenuò soltanto, poiché, la Pubblica amministrazione poteva facilmente aggirare l’ostacolo della necessaria motivazione fornendone di tipo standard[74].
Successivamente, la figura sintomatica del difetto assoluto di motivazione non ha avuto più ragione di esistere poiché dal 1990 la Pubblica amministrazione ha l’obbligo di motivare gli atti amministrativi.
Infatti, l’art. 3, comma 1, primo capoverso, della legge n. 241 del 1990 dispone che “ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato”, salvo gli atti normativi e per quelli a contenuto generale (comma 2).
A seguito dell’emanazione della suddetta legge, quindi, il difetto assoluto di motivazione non rientra più tra le figure sintomatiche di eccesso di potere ma costituisce un caso di violazione di legge.
Ciò, tuttavia, non ha distolto l’attenzione posta dalla giurisprudenza sulla trasparenza dei lavori della Pubblica amministrazione ed in particolare sulla necessarietà di una motivazione idonea.
Infatti, la giurisprudenza ha manifestato questa esigenza mediante la creazione di nuove figure sintomatiche di eccesso di potere concernenti la motivazione dei provvedimenti amministrativi, ovvero la figura sintomatica dell’insufficienza della motivazione e, tempo dopo, quella dell’illogicità o contraddittorietà della motivazione[75].
La trasformazione della figura sintomatica di eccesso di potere relativa alla motivazione coincide con l’ampliamento dei poteri del giudice (come già esposto nel paragrafo 6.2) poiché il suo sindacato non è più finalizzato a verificare solo l’esistenza della motivazione, ma anche la sua correttezza e logicità sicché il giudice può penetrare all’interno del procedimento amministrativo, può controllare l’istruttoria operata dalla Pubblica amministrazione e verificare l’esattezza dei fatti acquisiti[76].
[1] M. S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, Giuffrè, 1939, p. 103.
[2] F. G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, 3. ed., Torino, Giappichelli, 2014, p. 15-16.
[3] R. Chieppa, Discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica, tratto da R. Chieppa, V. Lopilato, Studi di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, in SIAA, 2007, <http://www.siaaitalia.it>.
[4] F. G. Scoca (a cura di), op. cit., p. 16.
[5] F. G. Scoca (a cura di), ivi, p. 181.
[6] F. G. Scoca (a cura di), ivi, p. 23.
[7] F. G. Scoca (a cura di), ivi, p. 20-21.
[8] F. G. Scoca (a cura di), ivi, p. 180; M. Campana, Il sindacato giurisdizionale sull’attività amministrativa, in Salvisjuribus, 2017, <http://www.salvisjuribus.it>.
[9] F. G. Scoca (a cura di), ivi, p. 21-22; R. Chieppa, op. cit.; M. Campana, ibid.; M. Lunardelli, Attività discrezionale e attività vincolata della pubblica amministrazione, in Altalex, 2007, <http://www.altalex.com>.
[10] M. Lunardelli, ibid; R. Chieppa, ibid.; C. Cusumano, I principi dell’azione amministrativa e le forme di autotutela, in Diritto.it, 2018, <https://www.diritto.it>; Id., L’attività discrezionale della p.a., in Diritto.it, 2018, <https://www.diritto.it>; G. Sgueo, Della discrezionalità amministrativa ed i limiti del controllo giurisdizionale operato dal giudice amministrativo: due casi esemplari, in Diritto.it, 2006, <https://www.diritto.it>; M. Campana, ibid.
[11] G. Sgueo, ibid.
[12] M. Lunardelli, op. cit.; R. Chieppa, op. cit.; M. Campana, op. cit.; C. Cusumano, I principi dell’azione amministrativa e le forme di autotutela, cit.; Id., L’attività discrezionale della p.a., cit.; G. Sgueo, ibid.
[13] G. Sgueo, ibid.
[14] M. S. Giannini, op. cit., p. 49.
[15] M. S. Giannini, ivi, p. 27-28.
[16] M. S. Giannini, ivi, p. 35.
[17] M. S. Giannini, ivi, p. 120.
[18] M. S. Giannini, ivi, p. 40.
[19] M. S. Giannini, ivi, p. 13 ss.
[20] M. S. Giannini, ivi, p. 139 ss; R. Chieppa, op. cit.; C. Cusumano, L’attività discrezionale della p.a., cit.; M. Campana, op. cit.
[21] M. S. Giannini, ivi, p. 53.
[22] M. S. Giannini, ivi, p. 54 ss.
[23] M. S. Giannini, ivi, p. 66; C. Cusumano, L’attività discrezionale della p.a., cit.
[24] M. S. Giannini, ivi, p. 72 ss; Id., Diritto amministrativo, vol. 2, 3. ed., Milano, Giuffrè, 1993, p. 47; R. Chieppa, op. cit.; C. Cusumano, L’attività discrezionale della p.a., cit.; F. Incandela, Il sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica della p.a., in Salvisjuribus, 2018, <http://www.salvisjuribus.it>.
[25] M. S. Giannini, ivi, p. 77 ss.
[26] M. S. Giannini, ivi, p. 88.
[27] M. S. Giannini, ivi, p. 89.
[28] F. G. Scoca (a cura di), op. cit., p. 39; D. Giannini, La discrezionalità tecnica, in Dejure, 2012, <https://www.iusexplorer.it>; V. Bachelet, L’attività tecnica della pubblica amministrazione, Milano, Giuffré, 1967, p. 52; G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, 3. ed., Torino, Giappichelli, 2006, p. 177 ss.; G. Falcon, Lezioni di diritto amministrativo, vol. 1, L’attività, Padova, Cedam, 2005, p. 46 ss.; L. Mazzarolli (a cura di), Diritto amministrativo, 4. ed., Bologna, Monduzzi, 2005, p. 775 ss.; B. Fenni, La discrezionalità tecnica ed il sindacato del giudice amministrativo, in Diritto.it, 2013, <http://www.diritto.it>; C. Cusumano, L’attività discrezionale della p.a., cit.; R. Chieppa, op. cit.
[29] F. G. Scoca (a cura di), ivi, p. 38.
[30] M. S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, 2. ed. Milano, Giuffrè, 2000, p. 269.
[31] F. G. Scoca (a cura di), op. cit., p. 41; R. Chieppa, op. cit.
[32] F. G. Scoca (a cura di), ivi, p. 41; G. Parodi, Tecnica, ragione e logica nella giurisprudenza amministrativa, Torino, Giappichelli, 1990, p. 52 ss.; M. Bessone, R. Guastini (a cura di), La regola del caso. Materiali sul ragionamento giuridico, Padova, Cedam, 1995, p. 291 ss.; R. Chieppa, ibid.; Cons. Stato, sez. VI, 1 ottobre 2002, n. 5156, in Giurdanella.it, <https://www.giurdanella.it>.
[33] R. Chieppa, ibid.
[34] R. Chieppa, ibid.; D. Giannini, op. cit.; C. Cusumano, L’attività discrezionale della p.a., cit.
[35] R. Villata, L’atto amministrativo, in AA. VV., Diritto amministrativo, Bologna, 1998, p. 1403.
[36] M. S. Giannini, ivi, p. 168 ss.; M. Valentino, La discrezionalità amministrativa e le sue forme nella nuova ottica della legge numero 15 del 2005, in Diritto.it, 2007, <https://www.diritto.it>; R. Chieppa, op. cit.
[37] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, 12. ed., Torino, Giappichelli, 2016, p. 15
[38] “Spetta alla sezione quarta del Consiglio di Stato di decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse d’individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali”, art. 3, comma 1, della legge n. 5992 del 1889.
[39] A. Travi, op. cit., p. 13 ss.
[40] C. Cusumano, L’attività discrezionale della p.a., cit.; Id., I principi dell’azione amministrativa e le forme di autotutela, cit.; M. Campana, op. cit.; R. Chieppa, op. cit.
[41] “Il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie aventi ad oggetto: a) l’attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive o del giudicato nell’ambito del giudizio” di ottemperanza; “b) gli atti e le operazioni in materia elettorale, attribuiti alla giurisdizione amministrativa; c) le sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo, comprese quelle applicate dalle Autorità amministrative indipendenti” e quelle alternative individuate ex art. 123 dal giudice amministrativo; “d) le contestazioni sui confini degli enti territoriali; e) il diniego di rilascio di nulla osta cinematografico di cui all’articolo 8 della legge 21 novembre 1962, n. 161” (art. 134 c.p.a.). “Nell’esercizio di tale giurisdizione il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione” (art. 7, comma 6, secondo capoverso, c.p.a.).
[42] C. Deodato, Nuove riflessioni sull’intensità del sindacato del giudice amministrativo. Il caso delle linee guida dell’ANAC, in Federalismi.it, 2017, 2, p. 13, <http://www.federalismi.it>.
[43] C. Cusumano, L’attività discrezionale della p.a., cit.; M. Campana, op. cit.; R. Chieppa, op. cit.; C. Deodato, ivi, p. 6-7.
[44] M. Campana, ibid.; C. Cusumano, ibid.
[45] R. Chieppa, op. cit.; C. Cusumano, ibid.; F. Incandela, op. cit.; B. Fenni, op. cit.
[46] Cons. Stato, sez. V, 22 gennaio 1982, n. 55, in Giustizia-amministrativa, <https://www.giustizia-amministrativa.it>; Cons. Stato, sez. V, 18 febbraio 1991, n. 160, in Giustizia-amministrativa, <https://www.giustizia-amministrativa.it>; Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2004, n. 3554, in Giustizia-amministrativa, <https://www.giustizia-amministrativa.it>; TAR Puglia, sez. II, Lecce, 27 luglio 1993, n. 406, Giustizia-amministrativa, <https://www.giustizia-amministrativa.it>.
[47] Cons. Stato, sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, in Ildirittoamministrativo, <http://www.ildirittoamministrativo.net>.
[48] R. Chieppa, ibid.; F. Incandela, ibid.; B. Fenni, ibid.; C. Deodato, op. cit., p. 7; A. Police, Il giudice amministrativo e l’ambiente: giurisdizione oggettiva o soggettiva?, in D. De Carolis, E. Ferrari, A. Police (a cura di), Ambiente, attività amministrativa e codificazione, Milano, Giuffrè, 2006, p. 323; L. Levita, L’attività discrezionale della Pubblica Amministrazione. Forme e limiti dell’esercizio del potere amministrativo, Matelica, Halley, 2008, p. 142; Cons. Stato, sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601, cit.; Cons. Stato, sez. VI, 4 maggio 2007, n. 4635, in Giustizia-amministrativa, <https://www.giustizia-amministrativa.it>; Cons. Stato, sez. VI, 11 aprile 2006, n. 2001, in Miolegale.it, <https://www.miolegale.it>; Cass., sez. un., 5 agosto 1994, n. 7261, in Dejure, <https://www.ius-explorer.it>.
[49] Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, “[…] può disporre l’assunzione dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, nonché della consulenza tecnica d’ufficio, esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento. L’assunzione dei mezzi di prova e l’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio sono disciplinati, ove occorra, nel regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, tenendo conto della specificità del processo amministrativo in relazione alle esigenze di celerità e concentrazione del giudizio”, art. 3, comma 3, del decreto legislativo n. 80 del 1998.
[50] R. Chieppa, ibid.; F. Incandela, ibid.; B. Fenni, ibid.; C. Cusumano, L’attività discrezionale della p.a., op. cit.; L. Levita, ivi, p. 143.
[51] B. Fenni, ibid.; F. Incandela, ibid.; C. Cusumano, L’attività discrezionale della p.a., cit.; M. Valentino, op. cit.; F. Caringella, M. Protto (a cura di), Il nuovo processo amministrativo dopo la legge 21 luglio 2000 n. 205, Milano, Giuffrè, 2001, p. 924; Cons. Stato, sez. IV, 5 marzo 2010, n. 1274, in Giustizia-amministrativa, <https://www.giustizia-amministrativa.it>; Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2001, n. 5287, in Giustizia-amministrativa, <https://www.giustizia-amministrativa.it>; Cons. Stato, sez. VI, 1 giugno 2012, n. 3283, in Giustizia-amministrativa, <https://www.giustizia-amministrativa.it>; Cons. Stato, sez. IV, 8 ottobre 2012, n. 5209, in Giustizia-amministrativa, <https://www.giustizia-amministrativa.it>; Cons. Stato, sez. VI, 27 febbraio 2006, n. 829, in Giustizia-amministrativa, <https://www.giustizia-amministrativa.it>; TAR Veneto, sez. II, 14 febbraio 2013, n. 212, in Giustizia-amministrativa, <https://www.giustizia-amministrativa.it>; Cass., sez. un., 21 giugno 2010, n. 14893, in Dejure, <https://www.iusexplorer.it>.
[52] “Spetta al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale di decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse d’individui o di enti morali giuridici; quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali” art. 26, comma 1, del regio decreto n. 1054 del 1924.
[53] “Il tribunale amministrativo regionale decide: […] b) sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti emessi: 1) dagli organi periferici dello Stato e degli enti pubblici a carattere ultraregionale, aventi sede nella circoscrizione del tribunale amministrativo regionale; 2) dagli enti pubblici non territoriali aventi sede nella circoscrizione del tribunale amministrativo regionale e che esclusivamente nei limiti della medesima esercitano la loro attività; 3) dagli enti pubblici territoriali compresi nella circoscrizione del tribunale amministrativo regionale”, art. 2 della legge n. 1034 del 1971.
[54] “Sono devoluti alla competenza dei tribunali amministrativi regionali i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge contro atti e provvedimenti emessi dagli organi centrali dello Stato e degli enti pubblici a carattere ultraregionale”, art. 3, comma 1, della legge n. 1034 del 1971.
[55] “L’azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni”, art. 29 del decreto legislativo n. 104 del 2010.
[56] M. Valentino, ibid.; G. Sgueo, op. cit.; R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, 2. ed., Torino, Giappichelli, 2017, p. 463; P. Franceschetti, Eccesso di potere, in Altalex, 2012, <http://www.altalex.com>; C. Cudia, Funzione amministrativa e soggettività della tutela. Dall’eccesso di potere alle regole del rapporto, Milano, Giuffrè, 2008, p. 11.
[57] L. Levita, op. cit., p. 109.
[58] “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990.
[59] R. Villata, M. Ramajoli, op. cit., p. 553-554.
[60] F. G. Scoca, op. cit., p. 318; E. Cassetta, F. Fracchia (a cura di), Compendio di diritto amministrativo, 15. ed., Milano, Giuffrè, 2015, p. 377-378.
[61] M. S. Giannini, op. cit., p. 173.
[62] R. Chieppa, ibid; L. Levita, op. cit., p. 109.
[63] “Appartiene esclusivamente alle sezioni di Cassazione istituite in Roma: […] 3) giudicare dei conflitti di giurisdizione positivi o negativi fra i tribunali ordinari ed altre giurisdizioni speciali, nonché della nullità delle sentenze di queste giurisdizioni per incompetenza od eccesso di potere”, art. 3, comma 1, n. 3, della legge n. 3761 del 1877.
[64] R. Villata, M. Ramajoli, op. cit., p. 474.
[65] P. Franceschetti, op. cit.; F. Bassi, Lezioni di diritto amministrativo, 8. ed., Milano, Giuffrè, 2008, p. 116.
[66] V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, 6. ed., Torino, Giappichelli,
2017, p. 479.
[67] E. Cassetta, F. Fracchia (a cura di), op. cit., p. 379; R. Chieppa, op. cit.; P. Franceschetti, op. cit.; L. Levita, op. cit., p. 109; C. Cudia, op. cit., p. 14-15; R. Villata, M. Ramajoli, op. cit., p. 477 ss.; V. Cerulli Irelli, ivi, p. 480; F. G. Scoca (a cura di), op. cit., p. 322; R. Garofoli, G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, 2. ed., Molfetta, Nel diritto, 2009, p. 908 ss.
[68] C. Cudia, ivi, p. 20 ss.; P. Franceschetti, ibid.; R. Villata, M. Ramajoli, ivi, p. 492; F. G. Scoca (a cura di), ivi, p. 321; S. Cassese, Trattato di diritto amministrativo, 2. ed., Milano, Giuffrè, 2003, p. 978.
[69] C. Cudia, ivi, p. 7.
[70] E. Cassetta, F. Fracchia (a cura di), op. cit., p. 380; P. Franceschetti, op. cit.; L. Levita, op. cit., p. 110; R. Villata, M. Ramajoli, op. cit., p. 481 ss.; V. Cerulli Irelli, op. cit., p. 484; F. Bassi, op. cit., p. 120.
[71] R. Villata, M. Ramajoli, ivi, p. 481.
[72] F. Bassi, op. cit., p. 120
[73] F. Bassi, ibid.; R. Villata, M. Ramajoli, op. cit., p. 482; E. Cassetta, F. Fracchia (a cura di), op. cit., p. 380 ss; P. Franceschetti, op. cit.; L. Levita, op. cit., p. 110; F. G. Scoca (a cura di), op. cit., p. 321.
[74] R. Chieppa, op. cit.; R. Villata, M. Ramajoli, ivi, p. 481; E. Cassetta, F. Fracchia (a cura di), ivi, p. 382.
[75] E. Cassetta, F. Fracchia (a cura di), ivi, p. 380; L. Levita, op. cit., p. 110; R. Chieppa, ibid.
[76] R. Chieppa, ibid.; C. Deodato, op. cit., p. 9 ss.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.
Avv. Andrea Persichetti
Dopo aver conseguito a pieni voti la Laurea magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Camerino con tesi in Diritto Amministrativo ("Il principio di precauzione e la valutazione del rischio: il caso dei vaccini obbligatori"), ha svolto la pratica forense presso l'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Torino.
Svolge la professione di Avvocato occupandosi di diritto civile e di diritto del lavoro, con particolare riguardo alla materia previdenziale, alle questioni di infortunistica sul lavoro e controversie INAIL.
È abilitato a presentare istanze e ricorsi all'INPS ed è Intermediario abilitato a svolgere attività in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale, ai sensi della Legge n. 12/1979.
Collabora con l’Ufficio del Massimario dell’Associazione dei Giovani Avvocati di Torino – AGAT ed è autore di articoli di interesse giuridico.
È iscritto all'Ordine degli Avvocati di Torino (Studio legale in Torino, Via Giannone n. 1 - Tel.: 011 51 11 005 - Mail: andreapersichetti91@gmail.com).