La putatività nella struttura del reato
Il principio di legalità, espresso dal brocardo latino “nullum crimen, nulla poena sine lege”, costituisce uno dei principi cardine del diritto penale, sancito sia a livello nazionale che sovranazionale dagli artt. 25, cc. 2 e 3, Cost.; 7, c. 1, CEDU; 49, c. 1, Carta di Nizza; 15, c. 1, Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici; 11, c. 2, Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nonché dagli artt. 1, 2, cc. 1 e 2, e 199 c.p. Esso subordina la rilevanza penale di un fatto e l’applicazione delle relative sanzioni alla presenza di un’espressa previsione di legge e si pone a garanzia dei principi di legittimazione democratica e di prevedibilità del precetto e delle sue conseguenze sanzionatorie, nonché della libertà di autodeterminazione delle scelte del singolo. Accanto al principio di legalità e ai suoi tre corollari della riserva di legge tendenzialmente assoluta, del principio di irretroattività sfavorevole e del principio di tassatività o determinatezza, nella costruzione della fattispecie incriminatrice il legislatore penale è tenuto a rispettare ulteriori principi costituzionali e sovranazionali, a pena di incostituzionalità. Si tratta, in particolare, dei principi di: materialità, offensività in astratto, colpevolezza, responsabilità personale, finalità rieducativa della pena, proporzionalità del trattamento sanzionatorio e ne bis in idem sostanziale, di cui agli artt. 25, cc. 2 e 3, e 27, cc. 1 e 3, Cost.; 7, c. 1, CEDU; 2 e 4 Prot. 7 CEDU; 48 e 49, c. 1, Carta di Nizza; 14, c. 7, e 15, c. 1, Patto Internazionale sui Diritti civili e Politici; 11, cc. 1 e 2, Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
In tal modo le fonti costituzionali e sovranazionali delimitano fortemente la discrezionalità del legislatore, obbligandolo a formulare l’incriminazione in termini chiari, precisi e facilmente conoscibili da parte della collettività, e a ricorrere all’extrema ratio del diritto penale soltanto al fine di tutelare particolari beni giuridici costituzionalmente rilevanti.
Nell’esaminare la struttura della fattispecie incriminatrice una parte della dottrina ha ritenuto prioritario distinguere gli “elementi del fatto in senso stretto” dagli “elementi della fattispecie in senso lato”. Tra i primi sarebbero inclusi gli elementi oggettivi e soggettivi necessari per l’incriminazione del fatto penalmente rilevante, quali: la condotta, il nesso di causalità, l’evento in senso naturalistico, la coscienza e la volontà, il dolo e la colpa; nonché quelli meramente accessori, quali le circostanze aggravanti e attenuanti e il dolo specifico. Gli elementi della fattispecie in senso lato, invece, includerebbero le condizioni obiettive di punibilità estrinseche ex art. 44 c.p., le cause di non punibilità in senso stretto, le cause di esclusione della colpevolezza, le cause di estinzione del reato e della pena, nonché, secondo i fautori delle teorie tripartita e quadripartita, le cause di giustificazione o “scriminanti”.
Tale distinzione assume particolare rilevanza anche ai fini dell’individuazione degli elementi strutturali ricadenti nel c.d. “fuoco del dolo”, ossia nel giudizio di previsione e volizione, al fine di rispettare il principio costituzionale di colpevolezza ex art. 27 c. 1 Cost.
Infatti, secondo l’impostazione dominante, confermata anche dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 364/1988 e 1085/1988, gli elementi strutturali che concorrono a contrassegnare il disvalore del fatto tipico devono essere sorretti da un coefficiente minimo di riferibilità psichica, espressivo della signoria dell’agente sul fatto e indicativo della meritevolezza di pena ai fini rieducativi, ex art. 27 c. 3 Cost. Lo stesso legislatore codicistico ai sensi degli artt. 42 e 43 c.p. subordina l’imputazione soggettiva dell’evento naturalistico e del fatto tipico in generale al previo accertamento della sussistenza del dolo, ovvero, se espressamente previste, della colpa o della preterintenzione, venendo altrimenti in rilievo ipotesi di responsabilità oggettiva del tutto incompatibili con il principio costituzionale di colpevolezza.
Secondo tale lettura andrebbero dunque ricondotti nel “fuoco del dolo”, ovvero imputati a titolo di colpa o di preterintenzione, tutti gli elementi strutturali necessari, quali la condotta, il nesso di causalità e l’evento naturalistico; nonché le circostanze aggravanti, per effetto della legge n. 19/1990 modificativa dell’art. 59 c. 2 c.p., il dolo specifico, le cause di esclusione della colpevolezza, le condizioni obiettive di punibilità intrinseche, nonché gli eventi “aggravatori” o “preterintenzionali” ulteriori e non voluti, ma necessariamente prevedibili ex ante e in concreto dall’agente modello.
Pertanto, l’imputazione di un fatto di reato nei confronti del suo autore presuppone l’accertamento giudiziale della compresenza degli elementi necessari sia oggettivi che soggettivi, venendo altrimenti meno il bisogno e la meritevolezza della sanzione penale.
Ciò trova conferma nella disciplina del reato putativo ex art. 49 c. 1 c.p., la quale esclude la rilevanza penale e la conseguente punibilità dell’autore in presenza di un fatto non costituente reato ma erroneamente supposto come tale. L’art. 49 c. 1 c.p. ribadisce infatti l’importanza del principio di legalità in materia penale e la sua stretta correlazione con il principio di colpevolezza e di personalità della responsabilità penale, ai sensi degli artt. 25, c. 2, e 27, cc. 1 e 3, Cost.
L’esclusione della punibilità in presenza di un fatto non costituente reato ma erroneamente supposto come tale sottende il principio dell’irrilevanza del putativo sul reale, privilegiando il secondo a scapito del primo. In mancanza di una previsione espressa di legge che incrimini il fatto concretamente realizzato, quest’ultimo sarà considerato penalmente irrilevante e immeritevole di pena, non essendo sufficiente la sua previsione e rappresentazione da parte dell’agente.
Il reato putativo si distingue, inoltre, dal reato impossibile, disciplinato dal successivo comma 2 dell’art. 49 c.p. ed espressivo del principio di offensività in materia penale. Infatti, analogamente al reato putativo, il reato impossibile esclude la punibilità dell’agente, sebbene in tal caso venga in rilievo un fatto inoffensivo per inidoneità dell’azione o per inesistenza dell’oggetto di essa.
Pertanto, mentre nel primo comma dell’art. 49 c.p. il legislatore sottolinea l’insufficienza del solo elemento soggettivo al fine di ritenere un fatto penalmente rilevante; nel secondo comma, invece, si ricalca il necessario perfezionamento di tutti gli elementi oggettivi, venendo altrimenti meno il pregiudizio al bene-interesse tutelato dalla fattispecie. Inoltre, il reato putativo si differenzia dal reato impossibile per la presenza di un errore che contraddistingue la condotta dell’agente. Si tratta in particolare di un errore valutativo, formatosi sul processo psichico e rappresentativo del reo, e come tale distinto dall’errore-inabilità o errore nell’uso dei mezzi di esecuzione, che caratterizza invece le diverse ipotesi di aberratio ictus e di aberratio delicti, rispettivamente ex artt. 82 e 83 c.p.
Dottrina e giurisprudenza ritengono di poter qualificare l’errore valutativo di cui all’art. 49 c. 1 c.p. in termini sia di errore di diritto, sia di errore di fatto. Il primo sussiste qualora la supposizione erronea ricada sull’esistenza o sulla portata di una norma penale incriminatrice; il secondo risulta invece integrato qualora l’agente abbia erroneamente qualificato come penalmente illecito un determinato fatto, sulla base di una norma penale incriminatrice effettivamente esistente.
La disciplina del reato putativo costituisce una conferma della regola dell’irrilevanza dell’errore di diritto, sancita espressamente dall’art. 5 c.p. mediante l’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile. Infatti, sia in caso di ignoranza inescusabile della norma penale incriminatrice in realtà esistente, sia in caso di reato supposto erroneamente, il legislatore attribuisce prevalenza al reale sul putativo, ritenendo l’agente da un lato meritevole di pena e dall’altro non punibile.
Analogo confronto può effettuarsi in relazione all’errore sul fatto, anch’esso considerato irrilevante e soccombente sulla realtà. Infatti l’errore sul fatto costituente reato non solo qualifica quest’ultimo come reato putativo ex art. 49 c. 1 c.p., ma ne esclude anche la punibilità ex art. 47, cc. 1 e 2, c.p., salvo che risultino integrati i presupposti per un reato diverso.
Del tutto differente appare invece la soluzione del rapporto tra putativo e reale proposta in materia di circostanze di esclusione della pena ex art. 59 c. 4 c.p., ricondotte secondo l’orientamento maggioritario alle “cause di giustificazione” o “scriminanti”, ex artt. 50 – 54 c.p.
Infatti, sebbene sia dibattuta la collocazione di queste ultime nella struttura del reato – qualificate o come elementi negativi del fatto, o come elementi della fattispecie escludenti l’antigiuridicità penale – esse sono unanimemente attratte nel giudizio di previsione/prevedibilità ex art. 27 c. 1 Cost., andando a contrassegnare il disvalore della fattispecie incriminatrice. A conferma di ciò si richiama l’art. 59 c. 4 c.p., il quale valorizza la conoscenza e la rappresentazione della scriminante putativa al fine di rendere il fatto concretamente non punibile e penalmente irrilevante.
Inoltre, l’art. 59 c. 4 c.p. disciplina gli effetti della supposizione erronea dell’esistenza di una scriminante, ponendo quest’ultima sempre a favore dell’agente. Di conseguenza, in materia di cause di giustificazione il legislatore opta per l’opposta regola della prevalenza del putativo sul reale, non occorrendo l’esistenza oggettiva della scriminante ed essendo sufficiente la sola rappresentazione della stessa in capo all’agente. Viceversa, qualora la causa di giustificazione risulti effettivamente esistente, sebbene per errore non rappresentata né conosciuta dell’agente, opererà nuovamente la regola della prevalenza del reale sul putativo ex art. 59 c. 1 c.p., trattandosi di un effetto favorevole oggettivamente valutabile.
L’art. 59 c. 4 c.p. si ritiene inoltre compatibile con l’istituto dell’eccesso colposo di una scriminante ex art. 55 c.p., potendo l’agente rappresentarsi erroneamente una causa di giustificazione e al contempo travalicarne i limiti, residuando così una responsabilità a titolo di colpa. Analogamente all’art. 59 c. 4 c.p. anche l’art. 55 c.p. presuppone la sussistenza di un errore in capo all’agente, qualificabile tuttavia sia in termini di errore-motivo sul processo formativo della volontà, sia di errore-inabilità sulla fase di esecuzione del reato.
Residuano invece non pochi dubbi sulla corretta qualificazione del concetto di “circostanze di esclusione della pena” ex art. 59 c. 4 c.p.
Secondo un indirizzo minoritario, infatti, il legislatore non avrebbe adoperato tale nozione per riferirsi alle cause di giustificazione di cui agli artt. 50 – 54 c.p., bensì per disciplinare le “cause di esclusione della colpevolezza” o “scusanti”, ovvero le “cause di non punibilità in senso stretto” o “esimenti”. Da tale assunto conseguirebbero, da un lato, l’estensione dell’ambito applicativo delle scusanti e delle esimenti, in deroga all’art. 14 delle preleggi e al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, ex art. 112 Cost.; dall’altro, la conseguente espansione della regola della prevalenza del putativo sul reale, in spregio al tenore letterale degli artt. 5 e 47 c. 1 c.p.
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Avv. Eliana Esposito
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