La regolamentazione internazionale delle criptovalute
L’emissione delle valute è una prerogativa delle banche centrali. Questo consente agli Stati di mantenere il controllo sull’offerta monetaria. D’altro canto, l’immissione di moneta nel mercato per altra via configura il reato di contraffazione.
Gli Ordinamenti nazionali si sono tuttavia trovati a dover affrontare una nuova sfida normativa: quella posta dalle criptovalute.
I bitcoin (la criptovaluta per definizione, ma se ne potrebbero citare altre, come ad esempio i dogecoin) si pongono, di fatto, in antitesi rispetto alla moneta tradizionale. Si tratta infatti di una valuta decentralizzata per definizione: chiunque può crearla attraverso il cosiddetto mining e nessuno se ne assume la relativa responsabilità.
Inizialmente, i governi e le autorità di regolamentazione potevano permettersi di ignorare la valuta digitale, e si sono in effetti ben guardati dal regolamentarla. Chi poteva, infatti, immaginare che la capitalizzazione di mercato di Bitcoin potesse arrivare ai 600 milioni di dollari USA?
Non stupisce quindi che, con l’ingigantirsi del giro d’affari, ci sia stata una maratona normativa.
A causa della natura decentralizzata delle criptovalute, il loro inquadramento all’interno di una categoria giuridica univoca non è da dare per scontato. Sono state elaborate diverse teorie ciascuna delle quali ha conseguenze pratiche da non sottovalutare. Infatti, la qualificazione giuridica delle criptovalute influenza inevitabilmente la loro regolamentazione.
Gli approcci adottati dai diversi paesi sono stati diversi:
in Bolivia, Ecuador e Vietnam, ad esempio, il bitcoin, così come le altre criptovalute, è illegale;
altre nazioni hanno cercato di regolamentare la criptovaluta incorporandola nel quadro normativo finanziario esistente;
altri ordinamenti hanno qualificano la criptovaluta come un “bene”, che può essere scambiato alla pari di qualsiasi altro titolo o strumento finanziario. Le tasse, in questi ordinamenti, seguono dunque il regime di qualsiasi altra plusvalenza.
Cosa accade negli ordinamenti in cui bitcoin è considerato una valuta?
Negli Stati Uniti, il Bitcoin è considerato una valuta virtuale decentralizzata convertibile. La conseguenza pratica è che la criptovaluta può essere utilizzata per l’acquisto di beni e servizi, come qualsiasi altra valuta. Ciò ha portato molti rivenditori, tra cui Home Depote e Whole Foods, ad accettare la criptovaluta per gli acquisti.
In pratica, gli scambi di criptovaluta devono seguire le stesse normative di qualsiasi altro tipo di scambio. Gli acquirenti devono quindi verificare la propria identità e utilizzare un conto bancario stabilito, che elimina l’anonimato.
Dal punto di vista della tassazione, l’International Revenue Service (IRS), considera tuttavia il Bitcoin una proprietà. Di conseguenza, è possibile acquistarla e poi venderla. Se si realizza un profitto, si pagano le tasse sul guadagno.
Data questa dualità, non stupisce quindi che nel 2021 nel Congresso USA siano state depositate 18 proposte di legge per la regolamentazione di criptovalute, blockchain e CBDC (Central Bank Digital Currencies).
La maggior parte dei paesi ha deciso di seguire l’esempio degli Stati Uniti, ritenendo il bitcoin una valuta legale:
Australia e Canada hanno normative simili;
il Regno Unito deve ancora stabilire una vera linea guida per la regolamentazione;
il Giappone è forse il più progressista, con l’accettazione esplicita come forma di pagamento legale.
Dal 9 giugno, il Bitcoin in Salvador è divenuto una valuta a corso legale grazie all’approvazione dell’assemblea legislativa espressasi favorevolmente con 62 voti su 84.
La natura decentralizzata di bitcoin rende difficile definire un quadro normativo coeso. Nella maggior parte dei paesi, l’uso di bitcoin è ambiguamente legale, ma potrebbe cambiare in futuro. L’incertezza normativa ha delle inevitabili conseguenze sul valore delle criptovalute, soggette a importanti oscillazioni sui relativi mercati.
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Elisa Moro
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