La responsabilità civile del medico e della struttura sanitaria alla luce degli apporti normativi e giurisprudenziali

La responsabilità civile del medico e della struttura sanitaria alla luce degli apporti normativi e giurisprudenziali

La responsabilità medica ha subito nel corso degli anni diverse modifiche a seguito di interventi legislativi e di orientamenti giurisprudenziali susseguitisi nel tempo; assai controversa è stata l’individuazione della norma giuridica di riferimento, in particolare in caso di responsabilità civile del sanitario dipendente di una struttura,nei confronti del paziente.

Sommario: 1. Introduzione – 2. La recente legislazione – 3. Il consenso informato – 4. Il danno da perdita di chance – 5. Il danno tanatologico – 6. Il regime della prova

1. Introduzione

La sicurezza delle cure è perseguita nell’interesse dell’individuo e dell’intera collettività, ed è dotata di tutela di rango costituzionale, riconosciuta dall’art. 32 Cost. in quanto parte costitutiva del diritto alla salute.

Prima di soffermarsi sulla responsabilità medica, occorre premettere alcune brevi considerazioni circa la responsabilità nel nostro ordinamento giuridico: in ambito civilistico  la responsabilità, oltre che in senso lato come responsabilità derivante dalla violazione di un obbligo di diritto privato ex art. 1218 c.c., viene in essere anche come responsabilità derivante da fatto illecito, ai sensi e per gli effetti degli articoli 2043-2059 c.c.

Si distingue, dunque, tra responsabilità contrattuale od extracontrattuale e la principale differenza che intercorre tra i due modelli risiede nel fatto che la responsabilità extracontrattuale ex 2043 c.c., tutela le violazioni del principio del “neminem laedere”  (non offendere nessuno) a prescindere da un’obbligazione preesistente tra danneggiante e danneggiato. Con tale espressione si sintetizza il principio generale di derivazione romanistica in base al quale tutti sono tenuti al dovere di non ledere l’altrui sfera giuridica. Tale principio, posto a fondamento della responsabilità extracontrattuale, comporta che chiunque violi il divieto sia obbligato al risarcimento del danno arrecato. Al contrario, la responsabilità contrattuale, disciplinata all’art. 1218 c.c., trova il suo fondamento proprio in un’obbligazione preesistente tra debitore e creditore.

La responsabilità medica è la responsabilità professionale, di colui che esercita un’attività sanitaria, per i danni derivati al paziente da errori, omissioni o in violazione degli obblighi inerenti all’attività stessa. La professione medica rientra nella categoria codicistica delle professioni intellettuali con la connaturata prestazione che è, per la precisione, prestazione d’opera intellettuale; è pertanto regolata dagli artt. 2230 e seguenti c.c. ed è svolta altresì tramite forme organizzative esercenti una funzione pubblica.  Tale prestazione medica consiste in una obbligazione di mezzi e non di risultato.  Ricordiamo che le obbligazioni di mezzi consistono nell’impiego dei mezzi a propria disposizione, secondo diligenza, prescindenti dal risultato conseguito (l’obbligazione, e l’aspettativa del creditore, non è data dal conseguimento di un determinato risultato, bensì dall’uso della diligenza da parte del debitore). Viceversa le obbligazioni di risultato consistono nel conseguimento di un risultato determinato. A ben vedere il personale medico non può garantire il risultato, la guarigione, ma impegnarsi piuttosto ad utilizzare in maniera diligente i mezzi più idonei per il raggiungimento del risultato favorevole al paziente.

2. La recente legislazione

Prima della c.d. riforma Gelli del 2017, la disciplina della responsabilità civile medica veniva inquadrata dalla giurisprudenza come segue: non sussistevano particolari problematiche nel caso in cui la prestazione sanitaria fosse eseguita dal medico libero professionista. In questo caso la responsabilità del sanitario per i danni cagionati al paziente era ricondotta nell’alveo dell’art. 1218 cod. civ., ossia della responsabilità contrattuale.

Oggetto di accesi dibattiti era, invece, la responsabilità in caso in cui la prestazione fosse eseguita da medico dipendente di un ente ospedaliero, e pertanto dail personale sanitario dipendente. Veniva, difatti, operata una bipartizione tra l’ente ospedaliero, il quale è la controparte del contratto stipulato con il paziente, ed il medico operante, a sua volta legato all’ente ospedaliero da rapporto contrattuale. A ben vedere, poi, secondo l’orientamento dell’epoca della giurisprudenza di legittimità, sussiste un rapporto contrattuale anche tra il paziente e il medico dipendente dell’ente ospedaliero.

In forza di innumerevoli posizioni giurisprudenziali e dottrinarie si sentiva sempre più l’esigenza di  una disciplina unitaria, che riconducesse la responsabilità del sanitario ad una norma di riferimento, distinguendo fra la posizione del medico dipendente e della struttura sanitaria nei confronti del paziente.

A seguito dell’emanazione del decreto legge n. 158/2012, convertito dalla legge n. 189/2012 ( Legge Balduzzi), ed in particolare alla luce del richiamo che l’art. 3 della presente legge faceva all’art. 2043 cod. civ., il dibattito in merito alla riconducibilità all’alveo contrattuale od extracontrattuale della responsabilità medica si era alimentato.

La novella consiste nel primo punto focale della legislazione in materia di responsabilità del sanitario e della struttura ospedaliera, ha, tra le altre, la finalità di eliminare o limitare il più possibile il fenomeno sempre più estremo della c.d. medicina difensiva, ossia la pratica con la quale il medico difende se stesso contro eventuali azioni di responsabilità medico legali seguenti alle cure mediche prestate.

L’art. 3 della legge recitava: “L’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile.”; la normativa escludeva la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve, che si collocavano all’interno dell’area segnata da linee guida o da virtuose pratiche mediche, purché accreditate dalla comunità scientifica.

Venendo ora alla questione dell’inquadramento della responsabilità medica nella legge Balduzzi, si sono susseguiti negli anni diversi orientamenti dottrinari e giurisprudenziali. Un primo orientamento , sosteneva che tale richiamo all’art. 2043 c.c. fosse limitato all’individuazione dell’obbligo di risarcimento del danno, senza alcuna indicazione in merito ai criteri da applicare nell’accertamento della responsabilità risarcitoria.
Un secondo e opposto orientamento sosteneva invece che il tenore letterale della disposizione conduceva a ritenere che la responsabilità del medico venisse ricondotta alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c., al fine di alleggerire l’onere probatorio del medico, facendo gravare sul paziente quello di dimostrare giudizialmente l’elemento soggettivo di imputazione della responsabilità.

Il 1° aprile 2017 entrava, infine, in vigore la legge 8 marzo 2017 n. 24, conosciuta come Legge Gelli, recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” , la quale disciplina fondamentali aspetti del ruolo e delle funzioni del medico, principalmente con l’intento di prevenire il rischio clinico, ridurre il contenzioso sulla responsabilità medica, arginare la fuga delle assicurazioni dal settore sanitario e contenere gli ingenti costi della cosiddetta medicina difensiva.

Dunque, la recente emanazione della legge Gelli  ha posto un freno al dibattito in questione: i connotati della responsabilità  civile del sanitario sono stati definiti in maniera chiara e differente a seconda che la responsabilità  per un determinato danno debba essere ascritta a coloro che operano presso una struttura sanitaria (a qualsiasi titolo) o alla struttura sanitaria stessa, sia essa privata che pubblica.  Mentre, difatti, i medici rispondono a titolo di responsabilità  extracontrattuale, e quindi ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, le strutture sanitarie rispondono a titolo di responsabilità  contrattuale ex artt. 1218 ss c.c., con tutte le conseguenze che ne derivano.

L’art. 6 della legge Gelli, rubricato Responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria, ha introdotto nel codice penale l’art. 590-sexies,Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario“, il quale recita: “se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto“.

La norma ha, dunque,  introdotto una causa di non punibilità per il medico, la cui condotta imperita abbia causato la morte del paziente o lesioni personali al medesimo, purché siano state rispettale le cd. linee guida accreditate, sempre che esse fossero idonee al caso concreto.

Le notevoli perplessità sollevate dall’articolo sono state definitivamente risolte dalle Sezioni Unite della Cassazione Penale (Sentenza 22/02/2018, n. 8770), le quali hanno chiarito come la causa di non punibilità operi nei soli casi in cui l’operatore Sanitario abbia correttamente individuato e adottato le linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve (da imperizia) nella mera fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse.

La causa di non punibilità, per contro, è inapplicabile: a) se l’evento si è verificato per colpa anche lieve da negligenza o imprudenza;b) se l’evento si è verificato per colpa anche lieve da imperizia quando non esistono linee-guida per il caso concreto; c) se l’evento si è verificato per colpa anche lieve da imperizia nella individuazione e nella scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione delle linee-guida, ancorché adeguate al caso concreto.

L’art. 7 della Legge Gelli ha, invece, ridisegnato la disciplina della responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria. In particolare al comma 1, ha confermato la natura contrattuale della responsabilità della Struttura Sanitaria, stabilendo che la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose“; al comma 3, ha demolito la teoria del cd. contatto sociale, statuendo la natura extracontrattuale della responsabilità del medico (da notare, non scelto dal paziente), laddove prevede che “l’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente“.

L’articolo in questione rappresenta uno degli snodi cruciali della riforma, e prospetta dunque un doppio binario di responsabilità: quella contrattuale a carico della struttura sanitaria pubblica ovvero privata (e peraltro anche dei medici liberi professionisti) e quella extracontrattuale per l’esercente la professione sanitaria che svolge la propria attività nell’ambito di una struttura sanitaria, purché non abbia agito nell’adempimento di un obbligazione contrattuale assunta direttamente con il paziente.

Per quanto attiene ai risvolti pratici, oltre ai differenti termini di prescrizione (la quale ricordiamo è quinquennale per la responsabilità  extracontrattuale e decennale per la responsabilità  contrattuale), la conseguenza maggiormente degna di nota consiste nel differente onere probatorio a carico ora di un soggetto, ora dell’altro. Mentre nella responsabilità contrattuale l’onere della prova ricade sul debitore (struttura ovvero medico) che è tenuto a dimostrare la riconducibilità dell’inadempienza ad una causa a lui non imputabile, nella responsabilità extracontrattuale è il danneggiato (il paziente) a dover provare l’esistenza dell’illecito, della condotta colpevole, dell’evento di danno e del nesso causalea novella è dunque di innegabile vantaggio per la categoria medica: nell’azione promossa per responsabilità contrattuale il danneggiato dovrà fornire tutte le prove concernenti il ricovero ed il trattamento sanitario, oltre all’inadempimento rappresentato dalla lesione subita, mentre la struttura dovrà dimostrare il corretto o viceversa impossibile adempimento della prestazione. Diversamente in caso di responsabilità extracontrattuale l’onere della prova, riguardante l’esistenza del danno, il nesso di causalità con la condotta e la colpa (o dolo) del soggetto agente, dovrà essere fornito dettagliatamente dal paziente offeso.

Volendo riassumere le principali differenze tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale attengono:

  1.  al regime dell’onere della prova:

    – a carico del debitore-danneggiante nella responsabilità contrattuale;

    – a carico del danneggiato nella responsabilità extracontrattuale;

  2.  alla prescrizione dell’azione risarcitoria:

    – decennale in caso di responsabilità contrattuale;

    – quinquennale in caso di responsabilità extracontrattuale;

  3.  al danno risarcibile:

    – limitato a quello prevedibile nella responsabilità contrattuale;

    – potenzialmente illimitato nella responsabilità extracontrattuale.

In conclusione, nell’ottica della normativa introdotta nel 2017, il paziente danneggiato potrà scegliere se agire:

  1. in via aquiliana (art 2043 c.c.) nei confronti del medico,

  2. in via di inadempimento contrattuale nei confronti della struttura sanitaria: in particolare con un azione ex art. 1218 c.c. nel confronti della struttura stessa,

  3. qualora sia già trascorso il termine prescrizionale per agire ex art. 2043 c.c. nei confronti del medico, potrà sempre esperire l’azione contrattuale nei confronti della struttura presso la quale il sanitario presta il suo servizio, ex art. 1228 c.c., per fatto degli ausiliari (art. 1228 c.c.: “Salva diversa volontà delle parti, il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro”).

Infine si vuole sottolineare che le norme sostanziali della legge Balduzzi e della legge Gelli in tema di responsabilità della struttura sanitaria e del medico non sono retroattive. E’ quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, nella sentenza 11 novembre 2019, n. 28994. 

3. Il consenso informato

La tematica dell’acquisizione del consenso informato del paziente nell’ambito della relazione terapeutica è stata al centro di un lungo percorso ermeneutico compiuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Argomento rilevante anche nella deontologia, nell’etica, nella filosofia, atteso che il rapporto tra medico e paziente è mutato di pari passo con il contesto storico-sociale di riferimento.

La giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 438/08), ha ribadito che “la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria, costituisce esercizio di un autonomo diritto soggettivo all’autodeterminazione proprio della persona fisica”, diverso e distinto dal diritto alla salute inteso quale diritto del soggetto alla propria integrità psico-fisica. Pertanto ogni individuo ha il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine al percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonchè alle eventuali terapie alternative. Le informazioni devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale.

La necessaria acquisizione del consenso informato e il diritto del paziente all’autodeterminazione delle scelte terapeutiche pertanto richiedono che l’azione del sanitario debba essere legittima in relazione in primis alla congruità degli interventi effettuati, come già spiegato, ed anche al corretto assolvimento degli obblighi informativi; la mancanza dell’informazione nei confronti paziente profila un particolare aspetto della responsabilità medica: la responsabilità medica derivante dalla mancata traslazione del rischio dell’intervento sanitario, dal medico al paziente. Precisamente, il consenso informato del paziente fa si che quest’ultimo si carichi del rischio e dell’alea fisiologica dell’intervento, alleggerendone il personale sanitario. Sappiamo che ogni intervento, anche qualora correttamente eseguito, può comportare complicanze ed effetti collaterali, che rientrano nell’alea stessa dell’intervento; la mancata acquisizione del consenso comporta, pertanto, che tale alea pesi in capo al medico, che di fatto si sostituisce al paziente nella decisione.

Merita un cenno la sentenza 2 luglio-11 novembre 2019, n. 28985 della Corte di Cassazione, la quale suscita interesse in quanto consegna un’immagine chiara e precisa del tema del consenso informato nell’ambito dell’attività sanitaria. La Corte passa in rassegna tutte le ipotesi conseguenti ad una omessa od insufficiente informazione e chiarisce che la violazione del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni e comporta la possibilità per il paziente leso di ottenere il risarcimento del danno ex art. 1223 c.c.:

a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente, sul quale peraltro grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento. Difatti il nesso causale necessario per il risarcimento del danno ex art. 1223 c.c. viene meno laddove il medico dimostri che il paziente avrebbe comunque acconsentito al trattamento sanitario una volta informato.

b) un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione ogni volta che a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale ( in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute.

Il paziente dovrà dimostrare la relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione, perfezionatosi con la condotta omissiva in violazione dell’obbligo informativo preventivo e le conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso eziologico inteso ex art. 1223 c.c.

4. Il danno da perdita di chance

In ambito medico, il danno da perdita di chance consiste nel danno da perdita della possibilità di un incerto risultato finale prospettato dai sanitari. La dottrina e la giurisprudenza di legittimità definiscono la chance come una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato vantaggio. Attualmente riconosciuta come danno risarcibile e appare funzionale, dunque, alla tutela del patrimonio del soggetto sia sul versante della perdita dell’occasione, sia su quello delle utilità che dall’occasione potevano derivare, ai sensi dell’art. 1223 c.c..

In ambito di responsabilità medica, dunque, tra le varie conseguenze dannose, può verificarsi altresì il suddetto danno da perdita di chance. Nello specifico consta della perdita o della riduzione della possibilità di giungere alla guarigione o di ottenere una sopravvivenza più lunga. In questo ambito il pregiudizio è, come accennato, di natura non patrimoniale, e risulta risarcibile se si dimostra il nesso causale tra la possibilità perduta e la condotta del sanitario caratterizzata da imperizia; inoltre, deve trattarsi di un pregiudizio apprezzabile, serio e consistente.

La chance si identifica con l’incertezza del risultato, in cui il danno coincide con la perdita del risultato stesso. Il pregiudizio incide, dunque, su una situazione soggettiva rilevante, come il diritto alla salute, inoltre, per essere tale, deve trattarsi di una lesione apprezzabile, seria e consistente in quanto non si tratta di un danno in re ipsa.

Peraltro, la morte anticipata del paziente non integra un danno da perdita di chance,se le condizioni del malato sono tali da escludere la possibilità di sopravvivenza, anche in assenza di ritardi terapeutici.

La Corte di Cassazione con la recente sentenza 11 novembre 2019 n. 28993 ha sottolineato come il danno in questione abbia origine giurisprudenziale, stante il silenzio del legislatore. La suddetta tipologia di pregiudizio appare, infatti, per la prima volta in una pronuncia della Corte di Cassazione del 1985 (Cass. n. 6506/1985).

Dalla sentenza in esame emerge come la ricostruzione del danno da perdita di chance sia stata caratterizzata, nel tempo, da due errori di fondo. Il primo errore consiste nel avere considerato la chance perduta come un pregiudizio solo patrimoniale. Sappiamo che la chance può essere considerata: chance patrimoniale, che postula la preesistenza di una situazione positiva su cui la condotta colposa del medico agisce negativamente, impedendone un’evoluzione migliorativa; chance non patrimoniale, invece, poggia su una situazione negativa (ad esempio, la presenza di una patologia), che potrebbe migliorare grazie all’intervento medico, che pone in essere una chance per il paziente; la condotta imperita del sanitario elimina tale chance di miglioramento che, senza l’operazione clinica, non ci sarebbe stata.

La differenza tra queste due tipologie emerge sotto l’aspetto risarcitorio. 

Il secondo degli errori posti in rilievo dalla sentenza riguarda il rapporto tra danno da perdita di chance e nesso causale e consiste nel sovrapporre il nesso causale con l’oggetto della perdita, ossia il sacrificio di un risultato migliore: il fatto che la chance sia un evento di danno, caratterizzato dalla possibilità perduta di un risultato migliore e soltanto eventuale, non esclude la necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento. La valutazione del nesso eziologico da parte del giudice deve, peraltro, muovere dalla previa disamina della condotta e della sua colpevolezza e dall’accertamento della relazione causale tra tale condotta e l’evento di danno, ossia la chance perduta, senza che i concetti di probabilità causale e di incertezza dell’evento sperato possano sovrapporsi.

Riassumendo, secondo la Cassazione, l’illecito da chance perduta, in ambito di responsabilità medica, si articola come segue: condotta colposa (omessa, erronea o ritardata diagnosi); lesione di un diritto (il diritto alla salute e/o all’autodeterminazione); evento di danno (sacrificio della possibilità di un risultato migliore); conseguenze dannose risarcibili.

5. Il danno tanatologico

Il danno tanatologico, o danno da morte, consiste nella perdita del bene vita, autonomo e diverso dal bene salute. Consiste in un tipo di danno non patrimoniale la cui configurabilità, e soprattutto trasmissibilità agli eredi, è stata a lungo discussa.

A ben vedere l’evento morte causato da una condotta illecita del sanitario o della struttura ospedaliera è idoneo ad arrecare danno alla sfera giuridica di due tipologie di soggetti: la vittima ed i parenti. Dunque è possibile ravvisare diverse categorie di danno, quali la lesione morale, biologica ed esistenziale dei prossimi congiunti della vittima. Solitamente quando l’evento morte produce danni che riverberano i propri effetti sugli stretti congiunti della vittima, la giurisprudenza suole parlare di danno patrimoniale riflesso .

Ora, sul piano dei danni derivanti da morte patiti dai parenti della vittima occorre operare una distinzione fra il danno da morte iure proprio dal danno da morte iure hereditatis. Il danno da morte iure proprio deriva dalla violazione dell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci, al bene dell’integrità familiare, tutelata in quanto diritto della personalità. Il danno da morte iure hereditatis consiste invece nel danno subito dalla vittima dell’illecito, il quale può essere chiesto dagli eredi di quest’ultima. I familiari del defunto potranno quindi agire in giudizio non solo per i danni direttamente sofferti, ma anche per quelli patiti dal coniuge in vita, trasmessi agli eredi con la morte.

Inoltre, occorre ulteriormente distinguere tra danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla vittima primaria del fatto illecito, che possono essere chiesti  dai parenti: il pregiudizio ricomprenderà il danno biologico da lesione dell’integrità psico-fisica nonché  il danno morale da lesione e turbamento dello stato d’animo avente carattere temporaneo.

Quanto, invece, ai danni subiti dai congiunti  è discussa la risarcibilità del danno tanatologico, danno derivante dalla perdita in sé del bene della vita, relativo alla vittima primaria ma da far valere iure hereditatis da parte dei prossimi congiunti. Di recente è intervenuta la III sezione della Corte di Cassazione, con 10 sentenze, denominate sentenzeSan Martino”, per la data di pubblicazione (10 ottobre 2019), ad oltre 10 anni di distanza dalle omologhe sentenze pubblicate nel 2008. Attraverso tali pronunce, la Cassazione fa il punto sull’intera materia risarcitoria. 

Degna di nota è la sentenza n. 28989/2019, quantomeno nella parte relativa alla risarcibilità del danno tanatologico iure hereditario, conseguente alla morte di persona sottoposta a cure mediche e deceduta a causa delle stesse. Nel caso specifico sottoposto all’esame della Suprema Corte, i parenti della vittima, deceduta a causa di un’infezione contratta nel corso della degenza ospedaliera, chiedevano il risarcimento del danno  tanatologico, dovuto alla sofferenza psichica collegata alla morte, e lo chiedevano iure hereditatis. La Corte si è così espressa a riguardo: “la risarcibilità del danno tanatologico a titolo ereditario è configurabile laddove tra le lesioni personali subite dalla vittima ed il decesso sia intervenuto un lasso di tempo considerevole, che giustifica il riconoscimento del cd. “danno biologico terminale”al quale può aggiungersi il danno morale, derivante dalla percezione dell’imminente decesso”.  In tale lasso di tempo, secondo la Corte, la vittima è in uno stato di lucidità agonica, in quanto in grado di percepire la sofferenza, cioè l’agonia, della fine imminente.

6. Il regime della prova

Passiamo ora ad analizzare gli aspetti evolutivi del regime probatorio applicabile alla responsabilità medica, alla luce delle recenti sentenze nonché, in particolare, della recentissima sentenza del 26 febbraio 2020 n. 5128 della Corte di Cassazione.

Con riguardo in particolare alla responsabilità medica, l’art. 1218 cc., in effetti, pone a carico del debitore la prova liberatoria. Tale onere probatorio per lungo tempo era stato inteso dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti nel senso che il debitore (il personale sanitario) poteva esonerarsi dalla colpa provando di aver usato la media diligenza, la quale, tuttavia, non era stata sufficiente a superare la causa esterna sopravvenuta che aveva determinato l’impossibilità della prestazione. Non occorreva che il debitore provasse la specifica causa esterna sopravvenuta, la quale poteva anche restare processualmente ignota, quello che contava era che il debitore dimostrasse che quella causa non era superabile nemmeno con la media diligenza.

Le recenti sentenze gemelle del 2019 della Corte di cassazione hanno assunto una posizione opposta, asserendo, al contrario, che la dimostrazione processuale della causa esterna è indispensabile. Si è detto che grava sul medico l’onere di provare in giudizio l’assenza di colpa. Il medico, per andare esente da responsabilità contrattuale, deve dimostrare che nel corso dell’espletamento della sua attività è sopravvenuto un determinato fattore esterno, afferente non suscettibile di essere superato nemmeno seguendo le linee guida e le buone prassi. Laddove il medico si limiti a provare di aver agito con diligenza, non raggiungerebbe, secondo la Corte, la prova liberatoria.

Infine, in considerazione della responsabilità del medico operante all’interno di un struttura sanitaria, la Cassazione con la sentenza del 26 febbraio 2020 ha richiamato principi già espressi dalle Sezioni Unite (tesi del c.d. contratto sociale, smentita dalla legge Gelli), secondo cui oggetto della detta obbligazione non è solo la prestazione del medico, ma una prestazione complessa definita di assistenza sanitaria. Al riguardo, è stato precisato che se il paziente si rivolge direttamente alla struttura sanitaria la responsabilità contrattuale della stessa si fonda sul contratto stipulato con paziente; qualora, invece, il rapporto sia sorto direttamente con il professionista di fiducia, nonostante il paziente si sia rivolto alla struttura sanitaria, quest’ultima sarà responsabile anche in virtù del principio del contatto sociale.

In conclusione la Cassazione, tramite alcune recenti pronunce in tema di responsabilità medica ha stabilito quanto segue: il paziente danneggiato deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia oltre all’inadempimento del debitore, idoneo a provocare il danno lamentato. Resta a carico del debitore l’onere di dimostrare o che non v’è stato inadempimento ovvero che l’inadempimento sia stato determinato da un evento imprevisto ed imprevedibile, non eziologicamente riconducibile alla propria condotta. Segnatamente, il paziente dovrà provare, sulla base del criterio ermeneutico del “più probabile che non”, che la condotta del sanitario sia stata causa del danno, determinato da un inadempimento qualificato, cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno.


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Claudia Ruffilli

Claudia Ruffilli, nata a Bologna il 21 aprile 1992. Ho conseguito il diploma di maturità classica presso il Liceo Classico Marco Minghetti di Bologna. Nel 2017 ho conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bologna. Ho svolto la pratica forense presso uno Studio Legale ed un tirocinio formativo presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Nel 2019 ho conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte di Appello a Bologna, dove lavoro.

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