La responsabilità da cose in custodia e da esercizio di attività pericolose
Come previsto dall’art. 2051 c.c., ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.
A differenza di quanto previsto dalla versione originaria della norma, la quale faceva riferimento al danno prodotto “con le cose”, nella formulazione attuale ci si riferisce a quello derivante “dalle cose” nell’intenzione di ampliare l’ambito di applicazione della disposizione, includendovi anche quelle cose prive di un proprio dinamismo.
La fattispecie di cui alla norma citata costituisce un’ipotesi di responsabilità civile extracontrattuale distinta dal modello generale di cui all’art. 2043 c.c.
Nell’esigenza di fornire una maggiore tutela alla vittima e dunque in un’ottica di riparazione della sfera giuridica del danneggiato, piuttosto che di punizione dell’autore dell’illecito, si assiste infatti all’adozione di un modello di responsabilità che prescinde dall’imputazione soggettiva del fatto.
Secondo alcuni, in particolare, si tratterrebbe di un’ipotesi di responsabilità civile oggettiva; altri, al contrario, parlano di presunzione assoluta di colpa.
La configurazione in chiave oggettiva di tale responsabilità trae fondamento dalla necessità di trasferire il rischio di un evento dannoso in capo a colui il quale gode degli effetti favorevoli derivanti dalla disponibilità della cosa, sulla base dell’antico brocardo “cuius commoda eius et incommoda”.
Presupposto essenziale per il sorgere della responsabilità è la sussistenza di una relazione di custodia tra il soggetto attivo e la cosa dalla quale sia derivato il danno, la quale si identifica nell’esercizio di un potere di fatto sul bene, ovvero in un’attività di controllo e vigilanza sulla stesso.
Secondo quanto specificatamente ritenuto dalla giurisprudenza, soddisfano tale rapporto il proprietario, il possessore ed il detentore qualificato, ovvero tutti coloro i quali, avendo la disponibilità della cosa, si trovano nella condizione di evitare che da questa possano derivare danni a soggetti terzi.
La prova liberatoria è individuata nel caso fortuito, ossia in un evento eccezionale ed imprevedibile da parte dell’agente, il quale sia stato la causa esclusiva del danno.
Considerando la fattispecie in parola in termini di responsabilità oggettiva, il caso fortuito assume le sembianze di un evento tale da interrompere il nesso di causalità materiale tra l’evento dannoso e la cosa custodita.
Al contrario, interpretando tale fattispecie come un’ipotesi di responsabilità civile con presunzione assoluta di colpa, si perviene ad attribuire all’evento costituente il caso fortuito la natura di causa di esclusione della colpevolezza.
In giurisprudenza si suole distinguere tra fortuito autonomo, fortuito incidente e fortuito concorrente, a seconda del ruolo che l’evento, integrante caso fortuito, assume nella produzione del danno.
Si parla di fortuito autonomo, in particolare, quando l’evento dannoso è direttamente cagionato da una causa indipendente sia dalla condotta del custode che dalla cosa custodita; si definisce fortuito incidente, invece, quell’evento che, sebbene dipendente dalla condotta di custodia della cosa, sia tale da operare quale causa esclusiva del danno; si considera fortuito concorrente, infine, quell’evento che ha concorso con la cosa nella determinazione del danno, non escludendo dunque la responsabilità del custode ma eventualmente attenuandola ai sensi dell’art. 1227 c.c.
Nell’ambito del caso fortuito può certamente essere ricondotto anche il fatto del terzo o quello della vittima, i quali possono aver concorso nella causazione del danno.
Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, tuttavia, la negligenza della vittima non è sufficiente ad escludere la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., essendo a tal fine necessario dimostrarne anche l’imprevedibilità da parte del custode.
Come chiarito, infatti, il giudizio di “negligenza” non implica quello di “imprevedibilità”: mentre il primo si effettua comparando la condotta tenuta dal danneggiato con quella che il medesimo avrebbe dovuto porre in essere sulla base dell’ordinario criterio di diligenza di cui all’art. 1176 c.c., il secondo si riferisce invece al custode, essendo diretto a verificare se costui avrebbe potuto ragionevolmente attendersi una condotta negligente da parte dell’utente delle cose affidate alla sua custodia.
Stante la relazione di custodia richiesta dalla norma ai fini della sussistenza della responsabilità, originariamente si era ritenuto che l’art. 2051 c.c. non fosse applicabile nei confronti della p.a.: la natura demaniale del bene, infatti, ne comportava l’utilizzo da parte di un numero indeterminato di persone, con la conseguente impossibilità per l’amministrazione di esercitare sullo stesso quel potere di controllo e vigilanza idoneo ad impedire l’insorgenza di eventi pregiudizievoli per i soggetti terzi, e dunque suscettibile di integrare la relazione di custodia richiesta dalla disposizione per l’imputazione del danno derivante dalla cosa.
Per quanto concerneva la responsabilità da cosa in custodia della p.a., dunque, si riteneva applicabile il modello generale predisposto dall’art. 2043 c.c., il quale richiede in capo al danneggiato l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, tra i quali anche la colpa dell’amministrazione.
Le difficoltà probatorie insiste nell’onere di provare la colpa della p.a., tuttavia, hanno spinto la giurisprudenza successiva ad elaborare la nozione di “insidia e trabocchetto”, da identificarsi in un pericolo occulto per l’utente del manto stradale, come tale soggettivamente non previsto e oggettivamente non prevedibile, costituente indice tassativo della condotta negligente dell’ente nella manutenzione del bene.
Si era ritenuto, in particolare, che la dimostrazione di tale pericolo da parte del privato dovesse far presumere la colpa dell’amministrazione, la quale, in ogni caso, avrebbe potuto essere provata anche diversamente dalla vittima del danno.
Da elemento di agevolazione probatoria, tuttavia, il concetto di insidia e trabocchetto diventa successivamente elemento costitutivo dell’illecito aquiliano, nel senso che la responsabilità della p.a. avrebbe potuto essere affermata solo qualora la parte fosse riuscita a dimostrare l’esistenza del pericolo.
A tale impostazione se ne contrapponeva però un’altra, secondo la quale l’art. 2051 c.c. avrebbe in realtà potuto essere applicato a tutti quei sinistri avvenuti su tratti stradali suscettibili di custodia per via delle loro peculiari caratteristiche, come per esempio le autostrade, o in considerazione delle loro dimensioni non eccessive o comunque di un uso non generale, come per esempio le strade comunali.
Entrambi gli orientamenti sono stati di recente superati dalla S.C., la quale ha affermato la necessità di considerare l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. sulla base di una valutazione delle circostanze del caso concreto, ovvero per mezzo di un’indagine compiuta considerando le allegazioni delle parti.
Secondo l’attuale giurisprudenza, in particolare, l’art. 2051 c.c. sarebbe applicabile a tutte quelle ipotesi di pericolo strettamente connesse alla struttura della cosa, ovvero a quei danni derivanti da cause intrinseche come un vizio costruttivo o manutentivo del bene, come tali imputabili ad un’omissione di custodia da parte della p.a.
Al contrario, l’art. 2043 c.c. sarebbe invece applicabile a quella situazioni di pericolo provocate da alterazioni imprevedibili dello stato del bene, anche eventualmente dovute a comportamenti di terzi, le quali, andando a costituire fonti di danno derivanti da causa estrinseche al bene, non sono conoscibili né eliminabili con immediatezza da parte dell’amministrazione.
Solo qualora si accerti che il danno sia derivato da cause intrinseche alla cosa, dunque, è possibile affermare in capo alla p.a. la violazione del dovere di custodia e quindi la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., la quale deve invece essere esclusa nel caso in cui l’evento sia dipeso da fattori esterni.
Un’altra ipotesi di responsabilità civile extracontrattuale specificatamente disciplinata dal legislatore è quella prevista dall’art. 2050 c.c.
Come sancito dalla norma citata, colui il quale esercita un’attività pericolosa è responsabile dei danni che da questa siano derivati, salvo che dimostri di aver adottato tutte le misure idonee ad evitarli.
La norma richiamata, introdotta per la prima volta nel codice del 1942, è finalizzata a garantire un equo contemperamento di esigenze contrapposte: da un lato, infatti, essa consente di autorizzare tutte quelle attività che, sebbene pericolose, si rivelino utili per la collettività; dall’altro, la norma permette di salvaguardare gli interessi dei terzi eventualmente pregiudicati dall’attività esercitata, imponendo all’esercente l’onere di adottare tutte le misure necessarie ad assicurarne l’incolumità.
La responsabilità da esercizio di attività pericolose trae il proprio fondamento nel principio c.d. del “rischio autorizzato”: in considerazione degli effetti benefici per la collettività che derivano dall’esplicazione dell’attività, infatti, il legislatore ne autorizza l’esercizio nonostante la pericolosità che la caratterizza, predisponendo all’uopo un modello risarcitorio particolarmente favorevole per la vittima del danno.
Secondo quanto previsto dall’art. 2050 c.c., in particolare, la responsabilità risarcitoria può essere esclusa solo nell’eventualità in cui l’agente dimostri di aver adottato tutte le misure volte ad evitare il danno, mentre non è richiesta l’imputazione soggettiva del fatto.
Come chiarito dalla giurisprudenza, la prova liberatoria di cui alla norma in parola si identifica nella dimostrazione di un evento eccezionale ed imprevedibile, come tale suscettibile di sfuggire al controllo e al dominio di colui il quale esercita l’attività ed idoneo così ad escluderne la responsabilità risarcitoria.
La pericolosità dell’attività, quale elemento costituivo della responsabilità di cui all’art. 2050 c.c., presuppone la sussistenza di un’attività di per sé potenzialmente dannosa, a prescindere cioè dalle modalità con le quali viene esercitata.
Dall’attività pericolosa in senso stretto deve essere mantenuta distinta l’attività a condotta pericolosa, la quale, a differenza della prima, risulta essere normalmente innocua, assumendo carattere pericoloso solo per effetto della negligenza o imprudenza di chi la esercita.
L’indagine circa la pericolosità di un’attività deve essere compiuta sulla base di elementi tecnici e di dati statistici: un’attività può essere ritenuta pericolosa, infatti, quando dal suo esercizio derivi un’alta probabilità ed una notevole potenzialità dannosa; ad una prima valutazione di tipo quantitativo, ovvero avente ad oggetto la frequenza con la quale i danni sono cagionati, deve dunque seguire la considerazione della gravità del singolo evento dannoso, anche in relazione ai beni giuridici coinvolti.
Può accadere che un’attività sia definita pericolosa da una specifica disposizione di legge ovvero che la pericolosità della medesima sia desunta dalla natura o dai mezzi adoperati per il suo esercizio.
Sono attività pericolose tipiche quelle espressamente individuate dal TULPS (Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza), nonché quelle considerate tali da alcune disposizioni di legge speciale poste a tutela della pubblica incolumità, come per esempio l’attività di certificazione delle firme elettroniche di cui al d.p.r. n. 445/00 o quella avente ad oggetto il trattamento dei dati personali di cui al d.lgs. n. 196/03.
Con riguardo alle attività non espressamente definite pericolose da nessuna norma di legge, osserva la giurisprudenza, occorre procedere ad una valutazione della pericolosità in concreto, ovvero tramite un accertamento di fatto da parte del giudice delle circostanze esistenti al momento dell’esercizio dell’attività. Devono essere considerate, in particolare, secondo un criterio definito di “prognosi postuma”, le modalità con le quali l’attività viene esercitata ed i mezzi utilizzati per espletarla.
Nella valutazione della pericolosità in concreto dell’attività, ci si è chiesti se debbano essere prese in considerazione anche le specifiche caratteristiche di colui il quale fruisce dell’opera posta in essere dall’esercente, ovvero se l’art. 2050 c.c. possa essere applicato anche nell’ipotesi in cui la pericolosità dell’attività dipenda dall’incapacità del destinatario della medesima.
Secondo parte della giurisprudenza, in particolare, per stabilire la pericolosità di un’attività devono essere prese in considerazione anche le capacità e le competenze di coloro verso i quali l’attività è esercitata.
Al contrario, altra giurisprudenza ritiene invece che in tali ipotesi vada applicato il modello generale di responsabilità di cui all’art. 2043 c.c.
D’altra parte, si discute se nella qualificazione di un’attività come pericolosa debbano essere presi in considerazione anche i danni eventualmente cagionati da soggetti terzi, ovvero se l’esercente l’attività pericolosa sia tenuto a prevenire anche il rischio di condotte dolose o colpose di terzi.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo.
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Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale.
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