La responsabilità degli enti in materia di reati tributari

La responsabilità degli enti in materia di reati tributari

I reati tributari vennero introdotti nel catalogo dei reati ex D.lgs 231/2001 nel 2019, più precisamente con il D.l. n. 124/2019 convertito dalla legge n. 157/2019. Prima di questa data, sia l’attività investigativa delle Procure sia l’attività interpretativa della Giurisprudenza, avevano prodotto delle “storture di prassi” nell’ambito applicativo del diritto tributario con l’intento, a sua volta paradossale, di riequilibrare una disciplina che sembrava ingiusta. Pareva assurdo, a molti operatori di diritto, che un sistema come quello delineato dal D.lgs 231/2001, improntato sulla legalità d’impresa, non richiedesse alle imprese di schermare il rischio fiscale, vista anche la grande mole di evasione che interessava il nostro Paese. Anche per sopperire a questa mancanza, i reati tributati entrarono nel sistema 231 attraverso due distinti interventi normativi. Il primo intervento, soprannominato “Carcere agli evasori”, introdusse nel sistema alcuni reati tributari, ovvero delle fattispecie abbastanza eterogenee, le quali avevano, come punto di criticità, il fatto di non riguardare, nello specifico, la normale vita delle imprese, ma erano volte a disciplinare operazioni straordinarie o situazioni di crisi.

Un altro punto di criticità, della suddetta riforma, interessava l’analisi del decreto legge da un punto di vista prettamente costituzionale. Difatti, il decreto legge 124/2019 ha posticipato l’entrata in vigore degli effetti penali alla conversione in legge dello stesso.

Tale impostazione tradisce l’art. 77 della Costituzione, in quanto il decreto legge, per sua natura giuridica, dovrebbe essere segnato dalla necessità e dall’urgenza non potendo, per tali ragioni, differire i propri effetti. Il secondo intervento normativo si è avuto con il D.lgs 75/2020 in attuazione della direttiva europea PIF, la quale richiedeva una legislazione appropriata volta a sanzionare penalmente le grandi evasioni IVA. Proprio in ossequio alle richieste normative comunitarie, il Legislatore nazionale ampliò il catalogo dei reati tributari, introducendo anche delle limitazioni “parafrasate” proprio dalla direttiva PIF e consistenti in tre linee-guida con il fine di ottenere una disciplina normativa che: riguardi i reati transfrontalieri, che sia riferibile esclusivamente all’IVA e che sanzioni penalmente il superare della soglia dei 10mln di euro di imposta evasa. Anche su quest’ultimo decreto la dottrina continuò a discutere e a interrogarsi, soprattutto in relazione a due questioni. La prima questione riguardava l’introduzione della dicitura “al fine di evadere” che poteva generare confusione interpretativa mentre, secondo la dottrina prevalente, si tratterebbe di un aberratio ictus o semplicemente di un intervento infelice del legislatore, in quanto, il fine di evadere l’imposta deve essere interpretato come evento del reato, proprio per evitare eccessi di delega rispetto alla direttiva comunitaria emanata. L’altra problematica riguardò il quantum di imposta evasa, infatti, ci si chiese se, il riferimento ai 10 milioni, si dovesse intendere come riferimento per ogni singola fattispecie di reato oppure potesse essere cumulabile in caso di contestazione plurima.

Secondo buona pare della dottrina, il quantum indicato nella direttiva PIF va riferito alle singole fattispecie di reato, anche perché, riguardo i reati tributari, la soglia di punibilità è sempre tipizzata in relazione al singolo reato. Il sistema sanzionatorio, previsto dall’art. 25-quinquesdecies D.lgs 231/2001, prevede una pena pecuniaria di un massimo di 500 quote e, con essa, si introdusse nel sistema, anche sanzione interdittiva e confisca per equivalente.

Per quanto riguarda la costruzione del modello organizzativo, al fine di adattarlo al meglio in relazione ai reati in questione, si deve partire da una tripartizione dei reati tributari introdotti nel novero dei reati presupposto ex D.lgs 231/2001. Tale ripartizione va fatta tenendo conto di due variabili: la prima riguarda la compatibilità del reato con il criterio di “interesse o vantaggio” ex art. 5 D.lgs 231/2001, mentre la seconda variabile impone di interrogarsi se è possibile prevedere dei presidi che modifichino l’azione aziendale al fine di schermare i reati oppure se i reati in questione non riguardino l’attività di impresa. L’utilizzo di queste due variabili come lente di osservazione dei reati tributari, porta ad una tripartizione dei reati stessi, suddivisi pertanto nelle seguenti tre categorie:

Reati sintonici con paradigma 231, ovvero quei reati che sono realizzati nell’interesse o a vantaggio dell’ente e che, per la loro struttura e per le condotte che vi rientrano, possono essere schermati dall’ente senza stravolgere il funzionamento dell’impresa, garantendo la riduzione del rischio-reato e proteggendo l’impresa da eventuali contestazioni;

– Reati parzialmente sintonici con paradigma 231, i quali possono essere schermati solo in alcune circostanze ed a certe condizioni;

– Reati distonici con paradigma 231, che risultano essere più un pericolo che un’opportunità per il sistema organizzativo e di prevenzione dell’impresa.

Proprio in relazione a questa suddivisione dei reati tributari bisogna conformare il modello 231, in quanto se per i reati sintonici il modello può funzionare da scudo, in relazione ai reati distonici o parzialmente sintonici, il problema sta nella lettura ed interpretazione della norma in quanto, se mal interpretata, il modello stesso potrebbe essere nocivo all’azienda stessa e creare un effetto boomerang piuttosto che un effetto scudo. Ultimo aspetto da trattare, riguarda la riforma del 2015 e la contestuale rivoluzione copernicana attraverso l’introduzione delle cause di non punibilità che si applicano ai reati tributari.

Questa scelta effettuata dal Legislatore venne fatta nell’ottica di massimizzare l’attività di riscossione del sistema. Si trattava di introdurre meccanismi premiali per incentivare il pagamento delle imposte ex post da parte del reo o del contribuente, incentivando le cosiddette contrazioni compensative finalizzate, in sostanza, a ripristinare il gettito tributario prima dell’iter processuale. Questi strumenti premiali sono stati pensati solo per la persona fisica e quindi, una volta introdotti i reati tributari nel novero dei reati ex D.lgs 231/2001, vi era bisogno di un coordinamento tra le cause di non punibilità e la responsabilità dell’ente. Tutto questo non vi è stato. Così, mentre, come già anticipato, la causa di non punibilità opera in relazione alla persona fisica, la stessa non può essere applicata all’ente anche in virtù della lettura dell’art. 8 co. 1 lett. b D.lgs 231/2001. Questo aspetto sarà uno degli aspetti più importanti da affrontare in futuro da parte del Legislatore, sia per i risvolti pratici riguardanti il modello organizzativo dell’impresa, sia in relazione alla problematica del bis in idem che potrà scaturire in seguito alle contestazioni giudiziarie sollevate.


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