La responsabilità erariale e penale degli amministratori pubblici: il decreto semplificazioni diventa legge

La responsabilità erariale e penale degli amministratori pubblici: il decreto semplificazioni diventa legge

Con la legge n. 120/2020 , entrata in vigore lo scorso 15 settembre, è stato convertito il decreto legge n. 76/2020 , cd “decreto semplificazioni”, adottato dal Governo al fine di risollevare le sorti del Paese fortemente colpito dall’emergenza sanitaria e dal lungo blocco delle attività economiche.

Nel provvedimento d’urgenza rientrano altresì una serie di previsioni volte ad alleggerire il carico della responsabilità dei funzionari pubblici ed evitare l’inerzia della pubblica amministrazione.

Si tratta di misure che supportano senz’altro conto dell’ormai noto e diffuso fenomeno della cd burocrazia difensiva, motivo di paralisi dell’attività della PA spesso derivante dal timore degli amministratori pubblici di dover provvedere al risarcimento dei danni ovvero di subire procedimenti penali.

In particolare, il decreto semplificazioni ha inciso sia sulla disciplina della responsabilità erariale che su quella della responsabilità penale, muovendosi nella direzione opposta rispetto alle più severe scelte di politica criminale che hanno accompagnato la Legge Spazzacorrotti (legge n. 3/2019) nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione.

Quanto al primo profilo, l’art. 21 comma 1 del decreto semplificazioni ha apportato due modifiche in materia di responsabilità erariale, confermate in sede di conversione.

In primo luogo ha innovato l’art. 1 della legge n. 20/1994 precisando che, con riguardo alla responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica, la prova del dolo richiede la dimostrazione dell’evento dannoso.

La riforma, che ha reso ben più gravoso l’onere probatorio a carico del pm contabile, non è poco conto se si considera che finora la giurisprudenza della Corte dei Conti ha qualificato il dolo in termini civilistici, ritenendo sufficiente la prova dell’elemento soggettivo in relazione alla sola condotta e non anche all’evento.

In secondo luogo, l’art. 21 comma 2 del citato decreto ha introdotto una modifica di carattere transitorio riferita alle sole condotte poste in essere in un arco di tempo compreso tra il 17 luglio 2020 (data dell’entrata in vigore del provvedimento d’urgenza) ed il 31 luglio 2021: si tratta di un vero e proprio scudo erariale che garantisce una responsabilità ai soli casi in cui la produzione del danno è dolosamente voluta.

Tale barriera non si applica, invece, con riguardo ai danni derivanti da omissione o inerzia per i quali l’agente continua a rispondere sia a titolo di dolo che di colpa grave.

Appare evidente l’intenzione del Governo di spronare i pubblici funzionari ad agire senza il timore di, assicurando loro l’esenzione da responsabilità anche in caso di colpa grave.

Ad oggi, in altri termini, è più rischioso non agire che agire.

Sul punto, tuttavia, potrebbe rilevare una potenziale violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Costo.dal momento che, sebbene per un periodo di tempo limitato, vi sarebbe una disparità di trattamento tra funzionari che cagionano un danno grave attraverso una condotta gravemente colposa e funzionari che causino un altrettanto grave danno mediante omissione.

Sul versante della responsabilità penale , invece, l’art. 23 del decreto semplificazioni ha parzialmente riformato la disciplina del reato di abuso d’ufficio ex art. 323 cp

Nello specifico, le parole “violazione di norme di legge e di regolamento” sono state sostituite dalle seguenti: “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” .

La fattispecie per il resto è rimasta invariata: continua a prevedere la condotta alternativa dell’osservanza dell’obbligo di astensione in caso di conflitto di interessi, il duplice evento alternativo dell’ingiusto vantaggio patrimoniale e del danno ingiusto, nonché il dolo intenzionale del pubblico ufficiale o dell’incaricato di servizio pubblico che agiscano nello svolgimento delle loro funzioni o del servizio.

L’intervento riformatore, quindi, si è concretizzato in una parziale abolitio criminis della norma concentrandosi su una sola delle condotte incriminate ed operando in tre direzioni.

Per prima cosa è stata esclusa la rilevanza della violazione di norme contenute nei regolamenti: l’abuso, cioè, può essere integrato soltanto dalla violazione di regole di condotta previste da fonti primarie.

Si tratta senza dubbio di una modifica rilevante anche in considerazione del fatto che oggi la maggior parte delle regole comportamentali è contenuta proprio all’interno dei regolamenti di cui le amministrazioni si dotano al fine di garantire un corretto ed uniforme svolgimento delle attività.

Pertanto, l’esclusione di tali regolamenti dal novero delle fonti normative la cui inosservanza potrebbe integrare un abuso d’ufficio comporta inevitabilmente una limitazione della responsabilità dei funzionari pubblici.

In secondo luogo, il decreto legge ha vincolato l’abuso penalmente alla sola trasgressione di regole specifiche ed espresse.

Questo sforzo di precisione e determinazione non solo ha comportato un’ulteriore restrizione dell’area del penalmente rilevante, ma ha fatto emergere altresì una problematica relativa alla violazione dei principi generali di diritto.

In particolare la questione si è posta con riguardo al principio di imparzialità e buon andamento della PA ex art. 97 Cost. che la giurisprudenza, prima della riforma, era giunta maggiormente a qualificare in termini di norma precettiva, idonea a dettare regole di condotta.

Secondo tale orientamento, cioè, una condotta violativa del principio de quo ben avrebbe potuto integrare gli estremi del reato di abuso di ufficio.

Tuttavia, la necessaria specificità della regola della richiesta oggi dall’intervento riformatore sembra volta ad escludere la rilevanza penale della violazione dei principi generali quale quello di imparzialità; ad ogni buon conto, sul punto, avrà buon gioco la giurisprudenza di legittimità nell’interpretare la disposizione normativa tratteggiandone i contorni ed indicando i necessari requisiti di specificità.

Con il terzo intervento, invece, il Governo ha voluto attribuire rilevanza penale alle sole regole che non implicano azioni di un potere discrezionale da parte del soggetto agente.

In sostanza, per effetto della riforma, il reato di abuso di ufficio non potrà più dirsi integrato qualora la violazione degli interessi norme dalle quali residui un margine di discrezionalità, dovendosi intendere come elemento negativo del fatto tipico.

Anche tale modifica appare finalizzata a restringere sempre più la portata applicativa del reato di cui all’art 323 cp

Del resto, il sindacato del giudice penale sulla legalità dell’azione amministrativa è sempre stato intimamente connesso al delitto di abuso d’ufficio: le condotte maggiormente lesive dell’imparzialità e del buon andamento della PA, invero, risiedono proprio nelle scelte discrezionali compiute dai pubblici funzionari nell’esercizio del potere loro attribuito dalla legge.

Non a caso, secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza precedente alla riforma, l’eccesso di potere – sub species lo sviamento di potere – integrava gli estremi del reato di abuso di office in quanto del potere per un diverso fine da quello prescritto veniva considerato una violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 323 cp 

Oggi, invece, la riforma nega rilevanza all’eccesso di potere e sottrae attività discrezionale al sindacato del giudice penale: quest’ultimo, difatti, finisce per mantenere la potestà di controllo sulla sola attività amministrativa vincolata che, in quanto tale, non comporta di potere né lascia la facoltà di scelta ai funzionari pubblici.

Si profila, dunque, il rischio di escludere dal campo applicativo della norma incriminatrice molti dei più gravi casi di abuso d’ufficio.

Se è vero che la responsabilità penale risulta fortemente limitata dagli interventi realizzati, è altresì vero che la giurisprudenza potrà valorizzare quella parte dell’art 323 cp non interessata dalla riforma ossia la condotta alternativa dell’omessa astensione in presenza di un conflitto di interessi o negli altri casi prescritti.

Così facendo, invero, il campo di applicazione della norma incriminatrice sarà suscettibile di nuova espansione e ciò in quanto la formulazione adottata dal legislatore, con un generico riferimento ad altri casi prescritti, consente ancora oggi di attribuire rilevanza penale alle violazioni di norme poste da regolamenti ovvero alle regole di condotta non specifiche dalle quali residuino margini di discrezionalità.

Giova precisare, infine, che anche gli interventi previsti dal Governo con riguardo al reato di abuso di ufficio sono stati convertiti in legge senza emendamenti.

Trova conferma, dunque, la parziale abolitio criminis della fattispecie incriminatrice ai sensi dell’art. 2 comma 2 cp che, relativamente ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto semplificazioni, comporterà l’archiviazione dei procedimenti per i quali sono in corso le indagini nonché il proscioglimento nei processi in corso e la revoca delle sentenze già passate in giudicato.


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