La responsabilità medica in ambito penale

La responsabilità medica in ambito penale

La responsabilità medica in ambito penale: dalla giurisprudenza della seconda metà del novecento sino alla pronuncia delle sezioni unite del 21 dicembre 2017

Sommario: 1. Premessa – 2. Dalla giurisprudenza della seconda metà del 1900 sino alla Legge Gelli- Bianco – 3. Il contrasto giurisprudenziale in seno alla IV Sezione e la risposta fornita dalle Sezioni Unite – 4. Balduzzi o Gelli- Bianco: quale è la disciplina più favorevole per l’operatore sanitario?

1. Premessa

La recentissima pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 10952 del 21 dicembre 2017) chiarisce definitivamente l’interpretazione normativa del nuovo articolo 590 –sexies [1] del codice penale (così come introdotto dall’articolo 6 della legge 24/2017), strumento attraverso cui il legislatore ha inteso contenere le pratiche della c.d. medicina difensiva[2]. I giudici di legittimità, definitivamente pronunciandosi, hanno così risolto una questione – costituita dai limiti entro i quali trova applicazione la sovra menzionata disposizione del codice penale – che, fin dall’entrata in vigore della L. 24/2017, è stata al centro di un lungo dibattito tra dottrina[3] e giurisprudenza e lo ha fatto attraverso una pronuncia ricca di spunti e di suggerimenti che continueranno a creare parecchi problemi e accese discussioni su un “terreno scivoloso” quale quello della responsabilità medica.      La menzionata pronuncia, ampiamente “annunciata”, si è resa necessaria a causa della poco felice formulazione della norma, che aveva dato spazio a interpretazioni difformi e a un significativo contrasto giurisprudenziale in seno alla Quarta Sezione della Suprema Corte[4] stessa. Infatti qualche mese dopo la sentenza De Luca- Tarabori dell’aprile 2017 (Sez. IV, 20.04.2017, n. 28187) – che aveva fornito una lettura sostanzialmente abrogatrice della disposizione appena introdotta -, la medesima Sezione, in diversa composizione, aveva completamente ignorato il precedente, sposando, nella sentenza Cavazza del successivo mese di ottobre (Sez. IV, 19.10.2017, n. 50078), una ricostruzione radicalmente difforme della nuova causa di non punibilità, portando allo scoperto differenze di vedute e dubbi interpretativi tali da disorientare tanto i giudici quanto gli operatori sanitari.

2. Dalla giurisprudenza della seconda metà del 1900 sino alla Legge Gelli- Bianco

Tanto premesso, prima di procedere all’analisi del contrasto giurisprudenziale in commento e prima di dar atto della soluzione adottata dalla Suprema Corte, si ritiene necessario delineare brevemente l’evoluzione che il concetto di “colpa medica” ha subito nel corso degli anni.

Fino agli inizi degli anni settanta la giurisprudenza maggioritaria della Corte di Cassazione[5] riteneva applicabile all’attività dell’esercente attività medica la previsione di cui all’art. 2236 c.c.[6] la quale, nel momento in cui l’attività richiede la soluzione di problemi di speciale difficoltà, ai fini della responsabilità civile del professionista in genere, attribuisce rilievo unicamente alla colpa grave. Così facendo tale orientamento giungeva ad affermare che tutte le prestazioni mediche implicavano problemi tecnici di particolare difficoltà e che, di conseguenza, i medici rispondessero unicamente per colpa grave, a prescindere dal profilo della colpa (negligente, imprudente ovvero imperito) che di volta in volta veniva in rilievo. Si era giunti in tal modo a ritenete sussistente la responsabilità colposa del medico unicamente nelle situazioni più “clamorose” e cioè solamente nei casi in cui il professionista violasse in modo abnorme le più semplici regole imposte dall’ ars medica.

Le critiche mosse alla giurisprudenza prevalente, che si basavano sull’assunto che in tal maniera il giudice avrebbe valutato la responsabilità medica con ampiezza di vedute e comprensione (cosi che l’operatore sanitario andasse esente, nella maggior parte dei casi, da responsabilità), spinsero la Corte Costituzionale ad intervenire sul tema. Con la sentenza 166/1973 [7] il giudice di legittimità delle leggi, all’esito di un articolato ragionamento, arrivò a tracciare un discrimen tra i casi di imperizia, che potevano essere inquadrati nel disposto di cui all’art. 2236 c.c. se ricorrevano i presupposti da esso indicati e quelli di negligenza e imprudenza, per il quale il giudizio doveva basarsi su criteri di normale severità. In altre parole il sanitario rispondeva a titolo di colpa grave solamente in caso di imperizia mentre per colpa lieve anche nei casi di negligenza o imprudenza.

Seppur alcune pronunce seguirono il dettato della Consulta, la giurisprudenza di legittimità prevalente[8] si discostò dall’orientamento del giudice della legittimità delle leggi, ritendendo che l’accertamento della colpa in ambito penale dovesse prescindere dal richiamo ad una norma di stampo civilistico: la differenza tra colpa lieve e colpa grave non poteva assurgere a discrimen tra ipotesi di reato e comportamenti invece penalmente irrilevanti.

Secondo autorevole dottrina[9] in tema di responsabilità medica non si rivelava necessario ricorrere alla distinzione tra colpa lieve e colpa grave, essendo sufficiente, verificare il comportamento che nella fattispecie concreta avrebbe dovuto tenere l’agente modello, al fine di stabilire se fosse stato possibile esigere dall’autore della condotta un comportamento conforme alla lex artis: risultava così che la colpa dell’esercente una professione sanitaria di elevata qualificazione andasse parametrata alle difficoltà tecniche- scientifiche dell’intervento a lui richiesto ed al contesto in cui lo stesso si fosse svolto. Parametro di riferimento per l’accertamento della colpa medica era (ed è tutt’ora) costituito dalla conformità dell’operato a protocolli sanitario ovvero a linee guida virtuose (anche se, va subito sottolineato, le raccomandazioni non possono considerarsi riferimenti oggettivi dalle quali il medico non può discostarsi, poiché le linee guida contengono indicazioni generali riferibili al caso astratto, mentre l’operatore sanitario deve considerare le circostanze che caratterizzano il caso concreto).

Con il Decreto Balduzzi (D.L. 158/2012 convertito nella L. 189/2012) il legislatore si è fatto carico del crescente e preoccupante contenzioso giudiziario concernente la responsabilità medica. L’art. 3 comma 1, così come modificato dalla Legge di conversione, prevedeva che: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.

Senza aver la pretesa di analizzare la disposizione de quo va dato atto che si sono avuti molteplici approdi giurisprudenziali sul tema (tra cui le sentenze della Corte di Cassazione Pagano, Cantore e Denegri[10]). Anzitutto si è affermato che le linee guida e le buone pratiche non hanno natura di norme cautelari, perché si tratta di direttive generali, istruzioni di massima, che vanno necessariamente applicate e modellate al caso concreto. Per conseguenza, il comportamento del medico può essere colposo anche ove perfettamente rispettoso delle suddette indicazioni scientifiche.    In secondo luogo si è evidenziato come la colpa che ha rilevo, per andare esenti da responsabilità, debba essere lieve e non grave. In tal modo essa finisce per assumere un duplice rilievo: per un verso è parametro per determinare la gravità del fatto e dunque la misura della pena (art. 133 cod. pen.), per altro verso essa costituisce il discrimine tra rilevanza ed irrilevanza penale.

La giurisprudenza del tutto prevalente riteneva poi che la legge Balduzzi prevedesse la scriminante della colpa lieve nei soli casi di imperizia, e non di negligenza o imprudenza. Tale conclusione, avanzata dalle sentenze Pagano e Cantore, si basava sull’assunto che le linee -guida e le buone pratiche contenessero esclusivamente regole di perizia. In altre parole, il medico che, pur seguendo le indicazioni della comunità scientifica, cagionava un evento criminoso per negligenza o imprudenza, era responsabile per colpa, fosse essa lieve o grave. Dunque, nel caso in cui il rimprovero mosso al medico avesse riguardato l’inosservanza di regole di comune diligenza o prudenza, la levità della colpa non poteva condurre ad escludere la responsabilità penale ma assumeva rilevanza ai soli fini della commisurazione della pena[11].

Per rispondere alla menzionata giurisprudenza, che aveva circoscritto l’ambito di applicazione della norma, il legislatore, con lo scopo (peraltro non riuscito) di eliminare o comunque di limitare il più possibile il fenomeno della c.d. “medicina difensiva”, ha introdotto all’interno del codice penale, attraverso l’art. 6 comma 1 della Legge Gelli- Bianco dell’8 marzo 2017, n. 24, l’art. 590 –sexies, rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario” a mente del quale “1. Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. 2. Qualora l’evento si è verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.”

Con l’introduzione della nuova causa di non punibilità – che secondo una prima (e parziale) lettura manda esente da responsabilità il sanitario che, rispettando le raccomandazioni previste dalle linee guida (purché adeguate al caso concreto) ovvero in mancanza di esse delle buone pratiche clinico assistenziali, cagiona per imperizia delle lesioni o la morte del paziente – la Legge Gelli Bianco ha conseguentemente abrogato la disposizione dell’art. 3, comma 1, della Legge Balduzzi che stabiliva la non punibilità per colpa lieve per il sanitario che nello svolgimento della propria attività si fosse attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.

3. Il contrasto giurisprudenziale in seno alla IV Sezione e la risposta fornita dalle Sezioni Unite

Sul quadro normativo appena delineato è da subito sorto un contrasto giurisprudenziale in seno alla IV Sezione della Corte di Cassazione, risolto dalla pronuncia a Sezioni Unite del 21 dicembre 2017.

Un primo orientamento, sostenuto in occasione della sentenza “Tarabori”, rilevava nell’art. 590-sexies c.p. tratti di “ovvietà” e prospettava una lettura della norma in grado di riconoscere al medico, tenuto ad attenersi alle raccomandazioni (sia pure con gli adattamenti propri di ciascuna fattispecie concreta), la sola pretesa a vedere giudicata la propria condotta secondo le direttive impostegli sulla base di “un inedito inquadramento precettivo, focalizzato sulle modalità di svolgimento dell’attività sanitaria e di accertamento della colpa”, in grado di offrire al giudice “precise indicazioni in ordine all’esercizio del giudizio di responsabilità”.

Secondo il menzionato orientamento, ai fini del nuovo art. 590-sexies, dunque, occorreva riferirsi a eventi che costituiscono espressione di condotte governate da linee guida accreditate sulla base di quanto stabilito all’art. 5 e appropriate rispetto al caso concreto, in assenza di plausibili ragioni che suggeriscano di discostarsene radicalmente. Le raccomandazioni generali dovevano essere inoltre “pertinenti alla fattispecie concreta”, previo vaglio di adeguatezza, e cioè della loro corretta attualizzazione nello sviluppo della relazione terapeutica, con particolare riguardo alle contingenze del caso concreto. Entro queste coordinate, secondo i giudici, l’agente aveva diritto a vedere giudicata la propria condotta secondo le medesime linee guida che avevano governato la sua azione. Questa prospettiva, tesa a valorizzare il momento soggettivo a discapito di qualsivoglia automatismo, finiva per sminuire il riferimento testuale all’osservanza delle linee guida quale “causa di esclusione della punibilità”, non assumendo rilievo – ai fini della non punibilità – quelle condotte mediche che, nonostante siano state poste in essere nell’ambito di relazione terapeutica governata da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo, come appunto i casi conclamati di errore (per imperizia) nell’esecuzione delle (corrette) direttive. Si giungeva così, come sottolineeranno in seguito le Sezioni Unite, ad un’interpretazione abrogatrice della nuova causa di non punibilità.

Il secondo orientamento giurisprudenziale, sostenuto all’interno della pronuncia Cavazza, individuava proprio nell’imperita applicazione (o meglio: nell’imperita fase “esecutiva” dell’applicazione) delle adeguate linee guida il terreno di applicazione della causa di non punibilità dell’art. 590-sexies c.p. (lasciando così residuare il caso di attuazione di linee guida inadeguate alle specificità del caso concreto quale unica ipotesi di permanente rilevanza penale dell’imperizia sanitaria). Tale corrente interpretativa escludeva che potesse ancora attribuirsi alla colpa grave un differente rilievo rispetto alla colpa lieve, essendo entrambe ricomprese nell’ambito di operatività della causa di non punibilità e ribadisce che con la novellata disposizione si è voluta favorire la posizione del medico, riducendo gli spazi per la sua possibile responsabilità penale, ferma restando la responsabilità civile. Proprio a quest’ultimo scopo, come si legge in sentenza, il legislatore avrebbe introdotto una “causa di esclusione della punibilità per la sola imperizia, la cui operatività è subordinata alla condizione che dall’esercente la professione sanitaria siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, e che dette raccomandazioni risultino adeguate alla specificità del caso concreto”. In altre parole l’unica ipotesi di permanente rilevanza penale dell’imperizia sanitaria può essere individuata nell’assecondamento di linee guida che siano inadeguate alla peculiarità del caso concreto, non essendo punibile l’operatore sanitario che, pur seguendo linee guida adeguate e pertinenti, sia incorso in una ‘imperita’ applicazione delle stesse siffatta. Resta fermo il fatto che l’imperizia non punibile deve essersi verificata nella fase ‘esecutiva’ dell’applicazione e non nel momento della scelta della linea guida.

Semplificando, secondo la sentenza “Tarabori” la Legge Balduzzi dettava una disciplina più favorevole, in quanto escludeva la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve in contesti regolati da linee guida e buona pratiche accreditate dalla comunità scientifica (mentre quella sopravvenuta aveva eliminato la distinzione tra colpa lieve e colpa grave ai fini dell’attribuzione dell’addebito e dettava al contempo una nuova articolata disciplina in ordine alle linee guida che costituiscono il parametro per la valutazione della colpa per imperizia in tutte le sue manifestazioni).   Secondo la “Cavazza”, invece, la Legge Gelli Bianco dettava una disciplina più favorevole, perché prevede una causa di esclusione della punibilità dell’esercente la professione sanitaria che opera – ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa nel solo caso di imperizia – indipendentemente dal grado della colpa.

Prima occasione utile per risolvere il contrasto interpretativo appena evidenziato si rivelava l’udienza dinnanzi alla IV Sezione della Suprema Corte, calendarizzata il giorno 29 novembre 2017, ove era in programma la discussione di un procedimento avente ad oggetto lesioni colpose a carico di un neurochirurgo. Il Presidente della IV Sezione, senza indugiare oltre, sollecitava d’ufficio l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, segnalando i “dubbi interpretativi” suscitati dalla Gelli- Bianco e soprattutto il “significativo contrasto” insorto nella giurisprudenza della Sezione, da cui derivavano “rilevanti implicazioni applicative” che rendevano “necessario l’urgente intervento delle Sezioni Unite”.

Rilevato tale contrasto, il Presidente della Corte, sulla base dei dati giurisprudenziali rappresentati, ravvisando la sussistenza del contrasto appena esposto e riconoscendo come il tema, per la sua delicatezza, richiedesse una decisione delle Sezioni Unite, assegnava la causa alla Corte di Cassazione nel suo più ampio consesso: essa, definitivamente pronunciandosi sulla causa in oggetto, doveva dirimere la seguente questione giuridica: “Quale sia, in tema di responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria per morte o lesioni, l’ambito applicativo della previsione di “non punibilità” prevista dall’art. 590- sexies cod. pen., introdotta dalla legge 8 marzo 2017, n. 24”.

Con la sentenza n. 10952 del 21 dicembre 2017 gli Ermellini, dopo aver ricostruito l’iter processuale ed aver messo in evidenza le problematiche connesse alla colpa medica, si soffermavano sull’importanza delle linee guida che costituiscono per i sanitari un contributo autorevole per il miglioramento generale della qualità del servizio e per gli operatori giuridici indici cautelari di parametrazione, anteponendosi alla rilevanza delle buone pratiche clinico-assistenziali

A tal punto veniva puntualmente ricostruito il contrasto giurisprudenziale. I Supremi giudici, dopo avere ammesso che ciascuna pronuncia contiene osservazioni condivisibili, criticavano l’incapacità di giungere ad una sintesi interpretativa complessiva capace di restituire la effettiva portata della norma in considerazione. Gli stessi reputavano necessario uno sforzo ermeneutico ulteriore, volto a contemperare tra loro il contributo della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, il dato letterale della Gelli Bianco e le circostanze non esplicitate, ma necessariamente ricomprese, nella stessa.

La Corte sosteneva quindi, partendo da un’interpretazione letterale della norma, che occorresse necessariamente riconoscere come il legislatore della riforma avesse coniato una nuova causa di non punibilità, per i fatti che si inquadrano nel paradigma degli artt. 589 o 590 c.p., ogniqualvolta che l’esercente una delle professioni sanitarie, pur avendo individuato ed adottato (e fino ad un certo punto ben utilizzato) le linee guida adeguate al caso concreto, abbia provocato uno dei sopra menzionati eventi lesivi, versando in colpa da imperizia.

I giudici di legittimità continuavano poi il loro ragionamento sostenendo che, alla stregua della novella del 2017, l’errore non punibile riguarda solamente la fase della selezione delle linee- guida poiché, dipendendo il “rispetto” di esse dalla scelta di quelle “adeguate”, ogni errore sul punto dovuto a colpa generica, porta a negare l’integrazione del requisito del “rispetto”: in altre parole se l’esercente la professione sanitaria si è dimostrato accurato e prudente nel seguire l’evoluzione del caso a lui sottoposto, se ha fornito la dimostrazione di essere stato preparato sulle leges artis, se si è rivelato impeccabile nella diagnosi della malattia, si è dimostrato aggiornato in relazione alle nuove acquisizioni scientifiche ed al contempo ha dato prova di aver fatto scelte ex ante adeguate in relazione alle evoluzione del quadro clinico che gli si è presentato, ma nonostante tutto l’evento lesivo si è verificato, il residuo dell’atto medico che appare connotato da errore colpevole per imperizia potrà – se ricorreranno le ulteriori condizioni che tra poco si indicheranno – andare esente da responsabilità.

La Suprema Corte giungeva quindi ad un punto fondamentale. Affermava infatti come fosse necessario circoscrivere un “grado della colpa che, per sua limitata entità, si renda compatibile con la attestazione che il sanitario in tal modo colpevole è tributario della esenzione dalla pena per aver rispettato, nel complesso, le raccomandazioni derivanti da linee- guida adeguate al caso di specie”. Secondo gli Ermellini la norma in esame continua infatti a sottendere la nozione di “colpa lieve”. I supremi giudici sostenevano invero che la mancanza di un’esplicita previsione della colpa lieve non precluda la possibilità di porla a fondamento della causa di non punibilità. Per giungere a tale conclusione la Suprema Corte, nel suo massimo consesso:

1) affermava come l’art. 2336 c.c. abbia (ancora) una valenza in campo penale in quanto lo stesso è “principio di razionalità e regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia”. La disposizione civilistica può, infatti, essere evocata laddove il caso concreto imponga la soluzione di problemi di particolare complessità tecnica ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza: una lettura così condotta attesterebbe che “l’attività del medico possa presentare connotati di elevata difficoltà per una serie imprevedibile di fattori legati alla mutevolezza del quadro da affrontare e delle risorse disponibili”, di talché – col significativo avallo della Corte costituzionale (sentenza 166/1973 e ordinanza 295/2013) e dello stesso legislatore del 2017, che ha limitato l’applicazione della causa di non punibilità alle sola imperizia – “vuoi sotto un profilo della non rimproverabilità della condotta in concreto tenuta in tali condizioni, vuoi sotto quello della mera opportunità di delimitare il campo dei comportamenti soggetti alla repressione penale, sono richieste misurazioni e valutazioni differenziate da parte del giudice”;

2) ricordava come già nella Legge Balduzzi il legislatore avesse espressamente previsto come la sola ipotesi di “colpa lieve” del sanitario potesse sottrarlo, a condizioni date, dalla sua responsabilità penale;

3) valorizzava l’evoluzione dei lavori parlamentari sottolineando come l’originario testo di legge approvato dalla Camera dei Deputati differenziasse, ai fini dell’esenzione da responsabilità, la colpa grave (da imperizia) dagli altri minori gradi della colpa, in una prospettiva specifica: la colpa lieve(da imperizia) era automaticamente inclusa in detta esenzione anche a prescindere dal raffronto con le linee guida, mentre quella grave (sempre da imperizia) lo era alla condizione del rispetto delle linee-guida. La Corte sottolineava, infatti, come la scomparsa di detta previsione non fosse espressione della volontà legislativa di ripudiare in toto la differenziazione del grado della colpa, bensì – come auspicato nel Parere della Commissione Giustizia del Senato – fosse espressione della rinuncia a quella particolare distinzione. Una distinzione di tale portata, infatti, correva il rischio di illegittimità costituzionale. Inoltre la Corte evidenziava come dai resoconti delle discussioni della Commissione Giustizia del Senato, emergesse la volontà di differenziare la colpa lieve dalla colpa grave.

Concludendo il proprio ragionamento la Corte sosteneva che “la colpa dell’esercente la professione sanitaria può essere esclusa in base alla verifica dei noti canoni oggettivi e soggettivi della configurabilità del rimprovero e altresì in ragione della misura del rimprovero stesso. Ma, in quest’ultimo caso – e solo quando configurante “colpa lieve” – le condizioni richieste sono il dimostrato corretto orientarsi nel campo delle linee-guida pertinenti in relazione al caso concreto ed il progredire nella fase della loro attuazione, ritenendo l’ordinamento di non punire gli adempimenti che si rivelino imperfetti”.

I supremi giudici arrivavano quindi ad affermare il seguente principio di diritto: “L’esercente la professione sanitaria risponderà, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:

a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;

b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;

c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;

d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico”.

La lettura fornita dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite conferma (come si ricava dal testo letterale) che non è possibile invocare la causa di non punibilità prevista dall’art. 590 – sexies c.p. in caso di colpa caratterizzata da imprudenza o negligenza ed introduce una gradazione tra colpa lieve e colpa grave – non prevista esplicitamente dalla norma -, stabilendo che solo la presenza di lieve imperizia permette di applicare la neo introdotta causa di non punibilità (a patto che, ovviamente, siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, e sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.).

4. Balduzzi o Gelli- Bianco: quale è la disciplina più favorevole per l’operatore sanitario?

Alla luce del ragionamento sviluppato le Sezioni Unite della Corte di Cassazione giungono ad individuare la disposizione più favorevole per l’esercente attività medica.

Rispetto alle condotte mediche connotate da negligenza o imprudenza lieve, va considerata più favorevole la legge Balduzzi, poiché in caso di osservanza di linee-guida o buone pratiche accreditate contemplava la non punibilità della colpa lieve. Rispetto alle condotte realizzate con imperizia, occorre distinguere: – se l’errore imperito, caratterizzato da colpa lieve, ricade sul momento di scelta delle linee-guida, andrà ritenuta più favorevole la precedente normativa, in quanto non riteneva tale errore punibile (differentemente da quanto previsto oggi dall’art. 590-sexies); – se l’errore determinato da imperizia lieve si colloca nella sola fase esecutiva, esso non potrà essere punito (e qui non c’è differenza tra nuova e vecchia disciplina).


[1] Il quale al comma secondo afferma che “Qualora l’evento [morte/lesione personale] si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni

[2] Per un’analisi dei rapporti intercorrenti tra medicina difensiva e diritto penale si veda, tra gli altri, A. Roiati “Medicina difensiva e colpa medica in diritto penale. Tra teoria e prassi giurisprudenziale”, Milano, 2012.

[3] Si veda M. Caputo, “La responsabilità̀ penale dell’esercente la professione sanitaria dopo la L. n. 24 del 2017… “quo vadit”? Primi dubbi, prime risposte, secondi dubbi”, in Danno e resp., 2017.

[4] Si veda: A. Massaro, “La legge Balduzzi e la legge Gelli-Bianco sul banco di prova delle questioni di diritto intertemporale: alle Sezioni unite l’ardua sentenza”, in Giurisprudenza Penale Web, 2017.

[5] Tra le altre Cass. Pen., Sez. IV, 29.03.1963.

[6] “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.

[7] Attraverso cui la Corte Costituzionale dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata in relazione agli artt. 589 e 42 c.p., ritenendo che non urtasse con l’art. 3 della Carta un’interpretazione atta ad applicare alla responsabilità penale del sanitario quanto disposto dall’art. 2236 c.c..

[8] Tra cui Cass. Pen., Sez. IV, 24.06.2008, n. 37077.

[9] F. Mantovani “La responsabilità del medico” in Riv. it. med. leg., 1980.

[10] Si tratta rispettivamente di Cass. pen., Sez. IV, nn. 11494/2013, 16237/2013 e 23283/2016.

[11] Tra le altre Cass. Pen., Sez. IV, 27.04.2015, n. 26996.


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