La responsabilità penale del medico: da una disciplina pretoria alla recente Legge Gelli-Bianco. Cosa è cambiato?
La materia concernente la responsabilità sanitaria è da sempre al centro di un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Prima delle recenti riforme del 2012 e del 2017, relative al decreto Balduzzi e alla legge Gelli-Bianco, la responsabilità del medico era una materia di matrice fondamentalmente pretoria, in quanto disciplinata da una giurisprudenza creativa e volta ad innovare l’ordinamento giuridico.
Le pronunce giurisprudenziali intervenute in materia erano finalizzate a contemperare e risolvere un contrasto tra esigenze confliggenti. Da un lato, si voleva evitare il proliferare del fenomeno della cd. medicina difensiva, attraverso la quale i medici svolgevano la propria attività professionale non attuando i trattamenti terapeutici più idonei alla cura del paziente ma quelli essenziali al fine di premunirsi contro rappresaglie giudiziarie, dall’altro, bisognava evitare il rischio di introdurre una disciplina di favore nei confronti di tale categoria professionale e che potesse essere oggetto di censure costituzionali sul piano della ragionevolezza.
Quando si tratta della colpa medica si fa riferimento ad una colpa professionale, ossia quella concernente delle tipologie di attività rispetto alle quali l’ordinamento giuridico ammette una soglia di rischio, stabilendo delle regole cautelari finalizzate a mantenere il rischio stesso entro limiti di tollerabilità. Si distingue, quindi, dalla cd. colpa comune che riguarda quei settori ove l’ordinamento non ammette alcun tipo di rischio e impone un generico dovere di astensione.
Come si è detto, prima dell’entrata in vigore del decreto Balduzzi, tale materia era regolamentata da vari orientamenti giurisprudenziali che possono, sostanzialmente, suddividersi in tre fasi evolutive.
La prima fase è antecedente al ’73 ed è caratterizzata da una prevalenza della prima esigenza delle due dette. Nello specifico si riteneva che il medico potesse rispondere solo per colpa grave, ossia per quei casi in cui questo fosse incorso in errori grossolani e macroscopici derivanti dalla violazione delle regole minime richieste a chi opera nel campo sanitario. Tale giurisprudenza faceva ricorso al criterio previsto dall’art. 2236 del codice civile, che stabilisce che il prestatore d’opera risponde solo per colpa grave.
La seconda fase è connotata dall’importantissima pronuncia della Corte Costituzionale, n. 166 del ’73. La questione di legittimità costituzionale sollevata dinanzi alla Consulta aveva ad oggetto gli artt. 43 e 589 del codice penale in relazione all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui, così come venivano interpretati, comportavano un vantaggio in capo ai medici in termini di responsabilità. La Corte, tuttavia, ha respinto la questione mettendo in evidenza come la situazione relativa agli operatori sanitari è differente rispetto a quelle comuni e che l’art. 3 della Costituzione impone discipline uguali per situazioni uguali e discipline diverse per situazioni diverse. Nel caso in questione, quindi, non aveva luogo una violazione del principio di uguaglianza. La Consulta in tale decisione ha messo in rilievo come il medico può rispondere solo per colpa derivante da imperizia, ossia dalla violazione di regole tecniche e specialistiche relative alla professione sanitaria. In particolare, ricorrendo ancora al criterio ex art. 2236 c.c., si stabiliva che il medico non rispondeva per colpa derivante da imprudenza e negligenza identificandola in colpa lieve e concependo, quindi, la colpa per imperizia come colpa grave.
La terza fase è caratterizzata, invece, da un ripudio del criterio di cui all’art. 2236 c.c. Specificamente si sosteneva che non può trapiantarsi nel sistema penale una norma civilistica per due ragioni, innanzitutto, perché il diritto penale è una branca dell’ordinamento giuridico del tutto autonoma da quella del diritto civile, e inoltre perché non può applicarsi nel campo penale una norma che già nel campo civile è di natura eccezionale. In particolare nel diritto penale le fattispecie non vengono costruite facendo un riferimento al grado della colpa, in quanto questo rileva solo ai fini della determinazione della pena da parte del giudice ai sensi dell’art. 133, 1° comma, n. 3), c. p. Da ciò deriva che il medico può essere considerato responsabile sul piano penale a prescindere dal grado della colpa.
La situazione è mutata in seguito all’entrata in vigore del decreto Balduzzi, n. 158 del 2012, convertito con legge n. 189 del 2012.
Tale disposizione ha finalmente introdotto una disciplina legislativa in materia di responsabilità penale del medico. L’art. 3, 1° comma, disponeva che: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve […]”
I punti innovativi e d’interesse di tale norma sono vari:
L’introduzione nella fattispecie penale delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica in via integrativa;
La distinzione tra colpa lieve e colpa grave;
I rapporti tra colpa e linee guida.
Relativamente al primo aspetto parte della dottrina ha mosso delle critiche al dato normativo mettendo in evidenza come questo sia inficiato da un deficit di tassatività. Questo deriva dalla circostanza secondo la quale, pur essendo state introdotte nella fattispecie penale le linee guida e le buone pratiche volte ad integrare il giudizio del giudice in ordine alla responsabilità penale del medico, non vengono indicati gli enti e istituti dotati di un certo grado di affidabilità competenti a fissare le stesse linee guida. Ciò ha comportato che venivano considerate linee guida anche le raccomandazioni contenute nei regolamenti delle singole strutture sanitarie che, fondamentalmente, miravano più a ridurre costi economici per la struttura stessa anziché ad orientare il medico nell’individuare il trattamento terapeutico più adeguato alla cura del paziente.
Gli altri due aspetti possono essere, invece, affrontati in maniera combinata posto che sono destinati ad intrecciarsi fra loro.
Ad assumente rilievo centrale riguardo tale punto è la sentenza Cantore della Corte di Cassazione, n. 16237 del 2013. La Suprema Corte era intervenuta al fine di risolvere quei problemi messi in risalto dalla dottrina maggioritaria secondo la quale, la disposizione di cui all’art. 3 del decreto Balduzzi presenta delle contraddizioni difficilmente superabili. In particolare, si riteneva che non potesse configurarsi colpa quando il medico si fosse attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.
Questo contrasto è stato in parte risolto dalla sentenza Cantore, ove la Corte di Cassazione ha messo in evidenza come in realtà le linee guida sono delle raccomandazioni connotate da un elevato grado di scientificità e tecnicità e sono finalizzate ad orientare il medico nella scelta del trattamento terapeutico più adeguato alla cura del paziente. Non prevedono quindi delle regole cautelari di diligenza.
In tale sentenza, la Corte stabilisce che l’accertamento della responsabilità colposa del medico deve essere condotto secondo le regole della colpa generica che presuppone la violazione di una regola cautelare. In particolare, il giudice nell’accertare la colpa medica deve fare riferimento alla diligenza che nella stessa situazione avrebbe tenuto il cd. homo eiusdem professionis et condicionis, ossia un soggetto coscienzioso e prudente che svolga la medesima attività dell’agente al momento del fatto. In seguito a ciò, bisogna verificare se l’evento lesivo che si è verificato in concreto sarebbe stato previsto ed evitato dal cd. homo eiusdem professionis et condicionis (restano fermi i criteri di accertamento della causalità introdotti dalla sentenza Franzese).
Da queste considerazioni si trae come può aversi una responsabilità colposa anche nel caso in cui il medico si sia attenuto alle linee guida, ad esempio perché nel caso concreto l’agente modello si sarebbe discostato da queste; e come può non aversi responsabilità colposa quando il medico non si sia attenuto alle linee guida perché le specificità del caso concreto ne richiedevano la disapplicazione. Il criterio di accertamento della colpa, quindi, introdotto dalla sentenza Cantore è quello in base al quale, da un lato, “si può ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato, rispetto al parametro dato dal complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento, quando cioè il gesto tecnico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle condizioni del paziente“; e, dall’altro, “quanto più la vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata dall’impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l’addebito nei confronti del professionista che, pur essendosi uniformato ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato e abbia determinato, anzi, la negativa evoluzione della patologia”.
Trattandosi quindi di colpa generica si sono sollevati ulteriori dubbi relativamente al contenuto delle tre forme previste dall’art. 43, 1° comma, di colpa per imprudenza, negligenza e imperizia.
La dottrina ha configurato l’imprudenza come la violazione di regole di comportamento che impongono un dovere di astensione o come condotte connotate da avventatezza, scarsa ponderazione e monitoraggio etc.; la negligenza come la violazione di regole che impongono di agire in un determinato modo o come condotte di non curanza, difetto di attenzione e sollecitudine etc.; e l’imperizia come la violazione di regole scientifiche, specialistiche e tecniche relative ad un determinato ambito professionale.
Sulla base di ciò si era ritenuto erroneamente che l’art. 3 del decreto Balduzzi avesse introdotto una limitazione della responsabilità del medico per colpa lieve solo quando questa fosse derivante da imperizia. Da ciò derivava la punibilità dei casi di colpa, anche lieve, derivanti da imprudenza e negligenza.
Quest’orientamento è stato osteggiato e criticato da parte della dottrina e anche dalla Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 22823 del 2016 che ha messo in rilievo come non può condividersi la tesi secondo la quale il decreto Balduzzi abbia introdotto una disciplina applicabile solo ai casi di imperizia. Questo sulla base di tre ragioni: 1) la Balduzzi non fa alcun riferimento alla distinzione tra negligenza, imprudenza e imperizia, 2) quest’ultima distinzione ha confini estremamente labili, soprattutto alla luce del fatto che l’imperizia altro non è che una particolare forma di negligenza o imprudenza connotata dalla violazione di regole scientifiche, specialistiche e tecniche e 3) non è vero che le linee guida dettano solo regole scientifiche, specialistiche e tecniche ma anche regole cautelari di attenzione e accuratezza e quindi non può escludersi dalla Balduzzi la colpa per imprudenza e negligenza.
Ciò significa che il giudice dovrà condurre il giudizio di accertamento della responsabilità colposa del medico sulla base dei criteri introdotti dalla sentenza Cantore, quindi relativi alla colpa generica.
Può aversi quindi colpa grave sia in caso di imperizia, sia in caso di imprudenza e sia in caso di negligenza con conseguente responsabilità penale del medico. Inoltre, può aversi colpa lieve sia in caso di imperizia, sia in caso di imprudenza e sia in caso di negligenza con conseguente non punibilità del medico.
La materia è stata interamente riformata con la recentissima legge Gelli-Bianco, n. 24 del 2017. Le fondamentali novità introdotte da tale disposizione sono molteplici:
È stato colmato il deficit di tassatività relativo alle linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali;
La collocazione della disciplina nel codice penale con l’introduzione dell’art. 590 sexies;
La disciplina anche della responsabilità civile del medico.
Per quanto concerne il primo punto, l’art. 5 della legge in commento ha colmato le lacune presenti nella legge Balduzzi disciplinando sia l’aspetto relativo alla provenienza che quello relativo al contenuto delle linee guida. Nello specifico l’art. 5 prevede che: “1. Gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali. 2. Nel regolamentare l’iscrizione in apposito elenco delle società scientifiche e delle associazioni tecnico scientifiche di cui al comma 1, il decreto del Ministro della salute stabilisce: a) i requisiti minimi di rappresentatività sul territorio nazionale; b) la costituzione mediante atto pubblico e le garanzie da prevedere nello statuto in riferimento al libero accesso dei professionisti aventi titolo e alla loro partecipazione alle decisioni, all’autonomia e all’indipendenza, all’assenza di scopo di lucro, alla pubblicazione nel sito istituzionale dei bilanci preventivi, dei consuntivi e degli incarichi retribuiti, alla dichiarazione e regolazione dei conflitti di interesse e all’individuazione di sistemi di verifica e controllo della qualità della produzione tecnico-scientifica; c) le procedure di iscrizione all’elenco nonché le verifiche sul mantenimento dei requisiti e le modalità di sospensione o cancellazione dallo stesso. 3. Le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse elaborati dai soggetti di cui al comma 1 sono integrati nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG), il quale è disciplinato nei compiti e nelle funzioni con decreto del Ministro della salute, da emanare, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con la procedura di cui all’articolo 1, comma 28, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e successive modificazioni, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. L’Istituto superiore di sanità pubblica nel proprio sito internet le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse indicati dal SNLG, previa verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto, nonché della rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni. 4. Le attività di cui al comma 3 sono svolte nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente e comunque senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.”
Come si può constatare dalla lettura della norma, il legislatore ha disciplinato nel dettaglio sia la provenienza delle linee guida e pratiche clinico-assistenziali, indicando i soggetti giuridici dotati di un certo grado di affidabilità competenti a fissarle, sia il contenuto, posto che sono relative a prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale.
È una norma molto importante, in quanto va ad integrare il precetto penale di cui all’art. 590 sexies c. p., ed è quindi coerente con il principio di legalità di cui agli artt. 25, 2° comma, Cost. e 1 c.p., e con i corollari che ne derivano, di tassatività, determinatezza e precisione.
L’aspetto centrale di tale legge è l’art. 6, attraverso il quale è stato abrogato l’art. 3 del decreto Balduzzi ed è stato introdotto nel codice penale l’art. 590 sexies.
Quest’ultimo prevede che: “1. Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto nel secondo comma. 2. Qualora l’evento si è verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.
Il primo comma si presenta, secondo un’autorevole dottrina, privo di una reale utilità poiché si limita a sancire quanto non è mai stato messo in dubbio, e cioè che il medico risponde per omicidio e lesioni colpose ove ne ricorrono i presupposti e soggiace alle pene previste per questi al codice penale.
A creare particolari problemi interpretativi è il 2° comma che ad una prima lettura sembra introdurre una scriminante medica, ossia una causa di esclusione della punibilità nel caso di colpa per imperizia, ed elimina la distinzione, introdotto per la prima volta dalla Balduzzi, tra colpa lieve e colpa grave. Affinché possa operare questa scriminante devono ricorrere determinati presupposti:
La realizzazione dell’evento a causa di imperizia;
Il rispetto delle linee guida e in mancanza di queste delle buone pratiche clinico-assistenziali;
L’adeguatezza delle linee guida alla specificità del caso concreto.
In realtà, già la prima dottrina che si è pronunciata sul punto ha evidenziato come tale scriminante è destinata a non trovare mai un’applicazione concreta. Questo perché, come si è detto, l’imperizia consiste in una particolare forma di negligenza o imprudenza connotata dalla violazione di regole scientifiche, specialistiche e tecniche relative ad un particolare ambito professionale. Tuttavia, la norma prevede come requisito di operatività della scriminante stessa in caso di colpa per imperizia, che il medico si sia attenuto alle linee guida o in mancanza di queste alle buone pratiche clinico-assistenziali e che queste siano adeguate alla specificità del caso concreto. Viene da chiedersi però, come fa a sussistere una colpa per imperizia, secondo la definizione data, se il medico si è attenuto alle linee guida o alle buone pratiche clinico-assistenziali anche adeguate alla specificità del caso concreto? Fondamentalmente o il trattamento è perito e quindi non esiste colpa, oppure è imperito e va accertata la colpa, salve le difficoltà del caso concreto che travalichino lo sforzo diligente del medico.
Il risultato reale di tale norma è che, avendo abrogato l’art. 3 della legge Balduzzi e non potendo la scriminante operare nel concreto, si è ritornati alla situazione precedente alla legge n. 189 del 2012. Per tale ragione si è riproposto l’orientamento di cui alla prima fase evolutiva degli orientamenti giurisprudenziali anzidetti, ossia quello che trapianta nell’ambito penale la norma civilistica di cui all’art. 2236 c.c., dalla quale si trae che il medico risponde solo per colpa grave. Risponderà quindi solo per quei casi, sulla base di un giudizio incentrato sui criteri della colpa generica, in cui la condotta del medico sia macroscopicamente divergente da quella che avrebbe dovuto adottare, usando come parametro il complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento. Ciò sulla base dei criteri di probabilità logica e razionale di cui alla sentenza Franzese e sempre che l’evento sarebbe stato previsto ed evitato dall’agente modello.
Queste considerazioni valgono, naturalmente, per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco in quanto per i fatti commessi sotto la vigenza della Balduzzi il cui giudizio non è ancora iniziato o non si è ancora concluso si hanno dei problemi di diritto intertemporale.
Dal confronto delle due disposizioni si trae come la legge Balduzzi contiene una disciplina più favorevole al medico rispetto a quella prevista dalla legge Gelli-Bianco. Questo perché la legge n. 24 del 2017 ha eliminato la distinzione tra colpa lieve, non rilevante sul piano penale ai sensi della legge Balduzzi, e colpa grave, rilevante sul piano penale ai sensi della legge Balduzzi. Ciò comporta che, non operando mai nel concreto la scriminante introdotta dall’art. 6 della legge Gelli-Bianco, il medico risponde ai sensi della nuova normativa sia per colpa lieve che per colpa grave, comportando quindi una nuova incriminazione ex art. 2, 1° comma, c.p.
Tale tematica involge, chiaramente, i principi fondamentali del diritto penale, in particolare uno dei corollari del principio di legalità ex art. 25, 2° comma, Cost., ossia quello di irretroattività della norma più sfavorevole al reo.
L’art. 2, 1° comma, c.p., stabilisce, infatti, che: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.” Questo significa che la nuova norma sarà insuscettibile di applicazione rispetto ai fatti compiuti con colpa lieve dai medici durante la vigenza del decreto Balduzzi, che continueranno a soggiacere alla causa di non punibilità prevista dallo stesso.
Tale conclusione è stata ribadita anche nella recentissima sentenza della IV Sezione della Corte di Cassazione, n. 16140 del 16 marzo 2017. La Suprema Corte ha prima ripercorso i criteri di accertamento della causalità medica facendo riferimento all’orientamento consolidatosi con la sentenza Franzese e poi ha affrontato la questione di diritto intertemporale.
Relativamente al primo aspetto può ricordarsi direttamente quanto previsto dalle Sezioni Unite nella sentenza Franzese, del 2002. In tale pronuncia la Suprema Corte ha affrontato il tema dell’accertamento, in particolare, della causalità omissiva in materia di responsabilità medica cercando di risolvere un contrasto da sempre sussistente in giurisprudenza, testimoniato dalle note sentenze Silvestri del 1990 e Battisti del 2000. Le Sezioni Unite superano sia l’idea secondo la quale il nesso causale, nel caso di errori medici, debba essere accertato usando il criterio delle serie e apprezzabili probabilità di successo della condotta doverosa omessa del medico, sia quella secondo la quale bisogna ricorrere esclusivamente a leggi scientifiche aventi natura generale e universale.
La Cassazione in tale sentenza ripercorre tutti gli orientamenti che hanno affrontato tale problematica mettendo in rilievo, innanzitutto, che si ritiene provata la causalità omissiva in ambito medico in caso di morte del paziente quando, sulla base di un giudizio controfattuale, eliminata la condotta omissiva vi è un alto grado di probabilità prossimo al 100% e quindi vicino alla certezza che l’evento morte non si sarebbe verificato; ovvero, in altri casi, si è ritenuto che vi siano serie e apprezzabili probabilità di successo della condotta nell’impedire l’evento.
Nella sentenza Franzese si parte proprio da tali assunti per giungere all’attuale principio di diritto ormai consolidatosi in materia. Le S.U. ritengono che l’accertamento della causalità omissiva, in ambito medico chirurgico in caso di morte del paziente, vada accertata sempre sulla base di un giudizio controfattuale di tipo condizionalistico. Il giudice, nello specifico, deve sicuramente ricorrere a leggi scientifiche e statistiche, ma queste non bastano in quanto va valutata, sulla base di criteri di probabilità logica e certezza razionale, la conformità di queste al caso concreto. Questo perché non sempre in campo medico vi sono delle leggi scientifiche aventi valore universale, cosa che porterebbe ad esiti assolutori assurdi, e inoltre perché il metodo delle serie ed apprezzabili probabilità di successo da solo applicato potrebbe fungere da strumento di un esercizio arbitrario e discrezionale del potere di accertamento giurisdizionale, trattandosi di un criterio eccessivamente manipolabile.
Per tali ragioni la Suprema Corte ritiene che, naturalmente, nel momento in cui sussistano leggi scientifiche o di tipo probabilistico e statistico in ambito medico che dimostrino che in un numero altissimo di casi da una determinata condotta derivi un particolare evento, queste vadano sicuramente considerate, in seguito, però, ad una verifica sulla loro fondatezza scientifica. Tuttavia, queste ultime non possono essere l’unico criterio che può guidare il giudice nell’operazione di accertamento della responsabilità medica, posto che deve sempre, sulla base del materiale probatorio e ricorrendo a criteri di probabilità logica e di certezza razionale, verificare che tali leggi possano applicarsi alla specificità del caso concreto e che non vi siano spiegazioni causali alternative. Ciò ha portato a ritenere che, quando sussistano dei ragionevoli dubbi circa l’influenza causale della condotta del medico, e quindi quando il riscontro probatorio è incerto, contraddittorio e insufficiente ciò deve condurre all’assoluzione del medico.
Rispetto alla questione di diritto intertemporale, invece, la IV Sezione ha risolto il problema nel senso già indicato. In particolare, ha sancito che: “La giurisprudenza di legittimità ha chiarito quale incidenza debba assegnarsi alla nuova normativa, rispetto ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della novella. Occorre in questa sede ribadire che la parziale abrogazione, determinata dall’art. 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189, delle fattispecie di cui agli artt. 589 e 590, cod. pen., qualora il soggetto agente sia un esercente la professione sanitaria, determina un problema di diritto intertemporale, che trova regolamentazione alla luce della disciplina legale. La restrizione della portata dell’incriminazione ha avuto luogo attraverso due passaggi: l’individuazione di un’area fattuale costituita da condotte aderenti ad accreditate linee guida; e l’attribuzione di rilevanza penale, in tale ambito, alle sole condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell’attuazione in concreto delle direttive scientifiche. Sulla scorta di tali rilievi, la giurisprudenza ha precisato: che nell’ambito delle richiamate fattispecie incriminatrici la rilevanza penale è da ritenersi circoscritta alla sola colpa grave (Sez. 4, Sentenza n. 16237 del 29/01/2013, dep. 09/04/2013, cit.); che la citata riforma in tema di responsabilità sanitaria ha realizzato un caso di abolitio criminis parziale; che si è in presenza di norma incriminatrice speciale, che ha restretto l’area applicativa della norma anteriormente vigente. Il parziale effetto abrogativo ha comportato, conseguentemente,
l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 2, comma 2, cod. pen., e quindi l’efficacia retroattiva del combinato disposto di cui agli artt. 3, legge n. 189/2012 e 589 e 590 cod. pen. Del resto, la giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Suprema Corte ha chiarito che il fenomeno dell’abrogazione parziale ricorre allorché tra due norme incriminatrici che si avvicendano nel tempo esiste una relazione di genere a specie (Sez. Un., 27 settembre 2007, Magera, Rv. 238197; Sez. Un. 26 marzo 2003, Giordano, Rv. 224607). Ciò premesso, è dato cogliere la portata delle ricadute nel presente procedimento, pendente in sede di merito alla data di entrata in vigore della novella del 2012, come delineate dal diritto vivente. Si è infatti chiarito che l’intervenuta parziale “abolitio criminis”, realizzata dall’art. 3 legge n.189 del 2012, in relazione alle ipotesi di omicidio e lesioni colpose connotate da colpa lieve, comporta che, nei procedimenti relativi a tali reati, pendenti in sede di merito alla data di entrata in vigore della novella, il giudice, in applicazione dell’art. 2, comma secondo, cod. pen., deve procedere d’ufficio all’accertamento del grado della colpa, in particolare verificando se la condotta del sanitario poteva dirsi aderente ad accreditate linee guida (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016 – dep. 06/06/2016, Denegri, Rv. 266904).”
Si può concludere come la materia della responsabilità medica continua ad essere un terreno privo di una effettiva disciplina che tenga conto delle esigenze prima esposte e che presenta un elevato grado di complessità, posto che spetta di nuovo agli interpreti individuare lo statuto normativo più idoneo a regolamentare la molteplicità di casi esistenti.
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Silvia Leone
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