La responsabilità penale per morte in conseguenza di pratiche sessuali estreme
Sommario: 1. Incipit – 2. L’omicidio preterintenzionale – 3. L’omicidio colposo – 4. Conclusioni
1. Incipit
Oggetto del presente contributo è l’indagine volta a stabilire se la condotta consistente nell’esercitare pratiche di coercizione fisica ai fini sessuali dalla cui realizzazione consegue, in senso condizionalistico, la morte di un soggetto partecipante volontariamente a tali pratiche, integri gli estremi della colpa punibile, e se del caso con quale grado, ovvero il più grave delitto di omicidio preterintenzionale.
La soluzione del quesito proposto necessita della preliminare disamina degli istituti coinvolti, e più precisamente il delitto di omicidio preterintenzionale e di omicidio colposo.
2. L’omicidio preterintenzionale
Secondo la più condivisibile impostazione dottrinale l’art. 43 c.p. individuerebbe un criterio generale di imputazione dei delitti, il dolo, e due criteri speciali, la colpa e la preterintenzione, che troverebbero applicazione solo nei casi in cui il legislatore abbia tassativamente l’imputazione di un delitto di parte speciale, a mezzo di tali modelli secondari di colpevolezza.
Quanto al delitto preterintenzionale, andata desueta la teorica che concepiva tale modello di colpevolezza come criterio generale, a cui ricondurre anche i casi di cui all’art. 586 c.p., è pacifico che tale modello di colpevolezza trova applicazione solo laddove previsto dal legislatore. Ciò pertanto è possibile affrontare l’indagine in ordine al delitto preterintenzionale procedendo con la scomposizione analitica del delitto di cui all’art. 584 c.p. che, a ben vedere, costituisce l’unico delitto preterintenzionale contenuto del codice penale, a cui aggiungersi l’aborto preterintenzionale previsto da apposita legge speciale.
Il paradigma di tipicità del delitto preterintenzionale si snoda attraverso la realizzazione di una condotta a forma libera, connotata da peculiare inclinazione lesiva verso il bene giuridico incolumità fisica, da cui deriva, in senso causalistico, la morte di un uomo. Per l’estremo rilievo che riveste nella soluzione del caso de quo, occorre soffermarsi sulla condotta e, in specie, sulla necessità che questa si connoti per un potenziale di aggressività verso i beni giuridici dell’incolumità fisica e della vita. L’art. 584 c.p. testualmente prevede che l’incolpazione a titolo preterintenzionale della condotta omicidiaria esige la verifica che l’evento morte sia riconducibile, sul piano della causalità materiale, al compimento di atti idonei a ledere (art. 582 c.p.) o percuotere (art. 581 c.p.). E’ controverso, tanto in dottrina che in giurisprudenza, se tale elemento normativo vada interpretato nel senso di ritenere integrata la condotta di cui all’art. 584 c.p. ogni qualvolta che questa configuri integri il paradigma di tipicità dei delitti di percosse e lesioni, quantomeno nella forma del delitto tentato. Dall’altro canto, infatti, va segnalata una tendenza oltre modo espansiva che, facendo leva sull’assenza del requisito dell’univocità degli atti previsto invece all’art. 56 c.p. nel paradigma del delitto di cui all’art. 584 c.p., ritiene che la condotta debba connotarsi per la semplice attitudine ad integrare i delitti di cui agli artt. 581 e 582 c.p. In questo senso, esemplificativamente, la Suprema Corte ha stabilito che “la figura dell’omicidio preterintenzionale non deve ritenersi necessariamente ed esclusivamente legata al presupposto di un tipico tentativo di percosse e lesioni, giacchè nel testo dell’art. 584 c.p. non è trasfusa la formula di cui all’art. 56 c.p. ma è contemplata una forma di condotta atipica, nella quale può desumersi anche un semplice comportamento minaccioso od aggressivo, sempre che sia tendente a ledere o percuotere” (Cass. Pen. Sent. 20 gennaio 1998).
Altri due elementi di tipicità del delitto di cui all’art. 584 c.p. sono l’evento morte ed il rapporto eziologico che lega quest’ultimo alla condotta dell’agente, da verificare secondo gli insegnamenti della giurisprudenza Franzese.
Controversa è anche la tematica relativa alla natura della responsabilità penale preterintenzionale. A tal riguardo si segnalano tre orientamenti contrapposti che hanno trovato alternativamente accoglimento in giurisprudenza. Da un lato, la teoria tradizionale, ad oggi prevalente nella casistica della giurisprudenza di legittimità, ritiene che la preterintenzione sia un criterio composito di imputazione della responsabilità penale che si connota per la presenza del dolo in riferimento alla condotta tipica, mentre l’evento morte sarebbe imputato di guisa al rapporto di causalità materiale, e quindi a titolo di responsabilità oggettiva, con la conseguenza che, con riferimento all’evento-morte, “ si prescinde da ogni indagine di carattere psicologico sulla volontarietà, sulla colpa o sulla prevedibilità dell’evento” (Cass. Pen., sent. 8 giugno 2006, n. 19611).
Un orientamento più sensibile al principio della responsabilità penale personale, intesa nell’ampia accezione di responsabilità penale solo per fatto proprio e colpevole, cioè connotato da l’animus nocendi o dalla rimproverabilità della condotta, ha ritenuto che la preterintenzione costituisse un criterio di imputazione misto dolo-colpa. Tale orientamento che secondo la Corte di Legittimità apparirebbe “maggiormente coerente con il principio di colpevolezza e con i principi fissati dalla sentenza della Corte Costituzionale 368/1998 secondo cui deve almeno postularsi la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie, fra i quali il complessivo risultato ultimo vietato, se non si vuole incorrere nel divieto ex art. 27, commi 1 e 3, costituzione della responsabilità oggettiva cd. propria o pura” (Cass. Pen., sent. 8 giugno 2006, n. 19611). Il punto di criticità di tale teorica concerne l’individuazione della regola cautelare violata, elemento catalizzatore della rimproverabilità della condotta colposa, in quanto, nella casistica giurisprudenziale, la verifica della sussistenza della colpa con riferimento all’evento-morte parrebbe ridursi al solo scrutinio di prevedibilità-evitabilità dell’evento che, invece, nel paradigma del delitto colposo pure costituisce mero criterio di gradazione della colpevolezza, mentre, per altro, si evidenziavano le perplessità relative all’artificiosa scomposizione di un fatto materiale unitario originato da un’unica condotta. Per ovviare a tali perplessità, certa giurisprudenza, in considerazione del fatto che “la speculazione teorica del doppio elemento psicologico pone la disciplina normativa fuori dalla realtà” (Cass. Pen., sent. 14 aprile 2006, n. 13673) ha avallato la teoria del tertium genus, secondo cui la preterinzione costituirebbe un autonomo criterio di imputazione della responsabilità penale caratterizzato per il fatto che il dolo che connota la condotta tipica assorbe la prevedibilità dell’evento più grave in quanto “il rischio di evento omogeneo più grave è insito nel danno o pericolo che si arreca alla persona fisica” (Cass. Pen., sent. 14 aprile 2006, n. 13673)
3. L’omicidio colposo
Il delitto omicidiario è colposo, o contro l’intenzione (art. 43, co. 3 c.p.), quando la morte si realizza quale conseguenza, in senso causale, di una condotta antigiuridica (commissiva o omissiva) resa in violazione di una norma cautelare. Peculiarità del delitto colposo è quel peculiare elemento che individua l’inclinazione lesiva della condotta già sul piano del fatto tipico, la cd. causalità della colpa, che esige la corrispondenza dell’evento-morte alla concretizzazione del rischio alla cui prevenzione era destinata la norma cautelare violata. Sul piano della colpevolezza, invece, rileva scrutinio di prevedibilità-evitabilità dell’evento in base al quale l’addebitabilità dell’evento-morte alla condotta del reo diviene più pregnante in ragione della verifica della sussistenza di un elemento rappresentativo (cd. colpa cosciente) e della misura della divergenza della condotta posta in essere dal reo rispetto a quella esigibile in ossequio alla norma.
4. Conclusioni
Una lettura del fatto tipico alla stregua delle precedenti considerazioni lascia presumere che la la condotta consistente nell’esercitare pratiche di coercizione fisica ai fini sessuali dalla cui realizzazione consegue, in senso condizionalistico, la morte di un soggetto partecipante volontariamente a tali pratiche, integri il delitto di omicidio colposo e non anche quello di omicidio preterintenzionale.
Infatti, benché l’atto di costrizione fisica come materialmente posto in essere dall’agente sia indubbiamente atto potenzialmente idoneo ad integrare le fattispecie di cui agli artt. 581 e 582 c.p., non appare configurabile l’elemento soggettivo in quanto tali pratiche sono, non equivocamente, finalizzate a procurare un piacere fisico.
Giova altresì precisare che, nel caso di specie, appare configurabile, in funzione scriminante rispetto alla condotta dell’agente, ai sensi dell’art. 50 c.p., il consenso prestato dalla sfortunata partecipante.
Del resto l’applicazione della scriminante di cui all’art. 50 c.p. a certe pratiche sessuali estreme costituisce un dato incontrovertibile in giurisprudenza ove è stata esclusa solo nei casi in cui “l’avente diritto manifesta, espressamente o mediante comportamenti univoci, di non essere più consenziente al protrarsi dell’azione alla quale aveva inizialmente aderito” (Cass. Pen., sent. 27 giugno 2012, n. 37916).
Ciò pertanto, anche a volersi ammettere che la pratica sessuale estrema possa integrare gli estremi dell’atto idoneo a ledere o percuotere, va da sé che l’incriminazione della condotta sarebbe esclusa in applicazione dell’art. 50 c.p.
Ad avvalorare tale considerazione un granitico orientamento della Corte di Legittimità secondo cui “il consenso dell’avente diritto, quale causa di giustificazione, è efficace se riguarda diritti dei quali la persona consenziente può disporre. Deve essere considerato non disponibile il diritto alla vita”, come deve ritenersi proibita, ai sensi dell’art. 5 c.c., “qualsiasi alterazione del corpo incidente in modo apprezzabile, temporaneamente o definitivamente sul valore dell’individuo, impedendogli di adempiere i suoi doveri ed esercitare i suoi diritti” (Cass. Pen., sent. 11 luglio 2002, n. 26446).
Gli atti autorizzati dai partecipanti, quindi, non devono superare, per ciò, la soglia di tollerabilità individuata dalla giurisprudenza penale sulla base di quanto disposto dall’art. 5 c.c., in quanto non rientra nell’id quod plerumque accidit .
Se ne deduce che, la condotta posta in essere dal partecipante superstite non può integrare gli estremi della condotta tipica ex art. 584 c.p., bensì, al più, quella di omicidio colposo perpetrato in violazione di regole di condotta di tipo prudenziale.
Tale conclusione risulta avvalorata dalla giurisprudenza di legittimità la quale ha precisato, in un caso simile a quello in esame, che “l’elemento psicologico del reato di percosse e lesioni è dato dalla coscienza e volontà di serbare una condotta violenta tale da cagionare una sensazione di dolore o di malattia. Un siffatto elemento è stato ragionevolmente escluso dal Giudice della sentenza impugnata il quale ha rilevato che la condotta – posta in essere dall’imputato con il consenso delle amiche – non era diretta a procurare alcuna sofferenza alle giovani malcapitate ma un piacere sia pur umanamente discutibile. E tanto basta ad escludere che sia stato realizzato il presupposto dell’omicidio preterintenzionale” (Cass. Pen., sent. 26 ottobre 2016, n. 44986).
V’è da precisare, tuttavia, che alcune peculiarità della condotta posta in essere dal partecipante superstite possono determinare un aggravamento della colpevolezza, con conseguenze in ordine al quantum respondeatur, qualora emergesse che lo stesso si fosse rappresentato il pericolo insito nella pratica sessuale, ed al fine di prevenirlo, abbia adottato alcuni accorgimenti benché risultati non salvifici.
In ogni caso, nell’ambito delle valutazioni relative alla determinazione della pena, assumono rilievo anche le circostanze successive alla verificazione del delitto, ciò pertanto l’immediato soccorso prestato alla sfortunata partecipante e successive condotte collaborative con gli bastano, a parere dello scrivente, per esigere il riconoscimento delle attenuanti generiche ai sensi dell’art. 62 bis c.p.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Salvatore Tartaro
Salvatore Tartaro, dott. Mag. in Giurisprudenza, abilitato all'esercizio della professione forense ex art. 41, co. 11 l. 247/2012. Laureato con 105/110 con una Tesi multidisciplinare in tema di Danno da Radiazioni Ionizzanti. Collabora con Studio Legale Di Giorgi.
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