La responsabilità per il danno cagionato dall’incapace
Sommario: 1. L’imputabilità del fatto dannoso – 2. L’infermità di mente e gli stati emotivi e passionali – 3. La responsabilità dell’interdetto, dell’inabilitato, del beneficiario dell’amministrazione di sostegno e del minore – 4. La responsabilità del sorvegliante – 5. La condanna dell’incapace al pagamento di un’indennità
L’incapace di intendere e di volere non è responsabile per le conseguenze del fatto dannoso tranne che nell’ipotesi in cui lo stato di incapacità derivi da sua colpa. La capacità di intendere va intesa come l’idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni mentre la capacità di volere è l’attitudine a determinarsi in modo autonomo e a decidere quindi il proprio comportamento.
1. L’imputabilità del fatto dannoso. L’articolo 2046 del Codice civile prevede, in linea generale, che chi non aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui ha commesso il fatto dannoso, non risponde delle conseguenze dallo stesso causate. Tale regola subisce un’eccezione nel caso in cui il soggetto si sia colposamente messo in stato di incapacità: in tale ipotesi, infatti, risponde delle conseguenze del fatto dannoso come se fosse capace al momento in cui lo ha commesso. Si pensi al caso in cui il fatto illecito sia commesso in stato di incapacità causato da ubriachezza preordinata.
In conseguenza di un fatto illecito l’accertamento della incapacità d’intendere e di volere deve valutarsi con riferimento al caso concreto in quanto non può farsi derivare semplicemente dallo stato d’interdizione (o di inabilitazione) in cui eventualmente il soggetto si trovi. L’interdizione, infatti, deriva da un provvedimento giudiziale che riguarda chi sia incapace di provvedere ai propri interessi, mentre affinché nasca un’obbligazione per fatto illecito non è necessaria la piena capacità richiesta per i contratti, bastando quel tanto d’integrità mentale che permetta una conveniente valutazione dell’atto che si vuol compiere e consenta relativa libertà di determinazione. Un interdetto, dunque, non avrà la capacità legale di porre validamente in essere atti negoziali, ma potrà essere dichiarato responsabile per fatto illecito.
In altre parole la risarcibilità del danno da fatto illecito è subordinata alla sussistenza dell’imputabilità, ossia alla capacità di intendere e di volere dell’autore del fatto lesivo, non rilevando in materia di illecito la capacità legale, richiesta invece per i contratti. Pertanto, anche un minore di età, purché capace di intendere e di volere, può essere in grado di comprendere le conseguenze dannose che da un certo comportamento possono derivare e, per converso, un maggiore d’età, anche se legalmente capace, può non essere in condizione di capire il significato delle proprie azioni e di autodeterminarsi.
Peraltro, la definizione di imputabilità prevista dall’articolo 2046 c.c. è la stessa che figura nel codice penale dove, ai sensi dell’articolo 85, comma 2, “è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”. Per tale ragione si è anche affermato che il concetto di imputabilità coincida con quello di capacità di intendere o di volere ossia che non vi sarebbe imputabilità in caso di incapacità naturale e, cioè, nell’ipotesi in cui vi sia difetto di coscienza o di volontà. Orientamento di segno opposto, invece, evidenzia l’opportunità di costruire in maniera autonoma ed indipendente i rispettivi concetti di imputabilità, richiamandosi soprattutto alle diverse finalità delle due materie: punitivo-afflittiva quella penale, risarcitoria o satisfattiva quella civile.
In ogni caso, da una attenta lettura della norma, sembra potersi accogliere la tesi di chi, come il Bianca, assegna all’articolo 2046 c.c. una portata generale sostenendo che l’imputabilità sia un presupposto imprescindibile affinché si possa configurare la colpa del soggetto agente: difatti affinché un soggetto possa essere considerato colpevole è necessario che sia in grado di rendersi conto delle azioni che pone in essere e delle relative ripercussioni positive o negative anche sui terzi.
2. L’infermità di mente e gli stati emotivi e passionali. Nel caso di infermità di mente, ai fini dell’incapacità di intendere e di volere, non si richiede un’alterazione delle facoltà intellettive o volitive che abolisca del tutto la coscienza e la libertà del soggetto, essendo invece sufficiente che la degenerazione sia di tale gravità da menomare le facoltà psichiche della persona. Con riferimento, invece, agli stati passionali od emotivi, essi di regola non comportano incapacità, ma possono provocarla quando risulti provato che abbiano inciso sulla sfera psico-intellettiva del soggetto producendo un vero e proprio squilibrio mentale di tale intensità da privarlo, sia pure in via transitoria, della capacità di intendere o di volere.
Il concetto di imputabilità è svincolato da quello di malattia mentale per due motivi: in primo luogo, perché la maggior parte della scienza psichiatrica ritiene che non sia più il caso di delineare un concetto unitario di “infermità mentale”; in secondo luogo, perché essa non coinciderebbe con la nozione giuridica di incapacità naturale. Il malato di mente, quindi, viene considerato dotato di capacità naturale, a prescindere dalla patologia duratura. Può, però, anche verificarsi la situazione inversa, ossia l’imputabilità può venire meno in caso di situazioni transitorie di perturbamento psichico: in tale ipotesi, la persona perde temporaneamente la capacità di intendere e volere
3. La responsabilità dell’interdetto, dell’inabilitato, del beneficiario dell’amministrazione di sostegno e del minore. Nel caso di soggetti interdetti, inabilitati o beneficiari dell’amministrazione di sostegno ci si domanda se rispondano o meno dei danni da essi stessi cagionati.
Sia in relazione allo stato di interdizione che di inabilitazione, si tratta di un accertamento da condurre in concreto atteso che “il grado e l’intensità della malattia mentale necessaria e sufficiente per la pronuncia d’inabilitazione sono inferiori a quelli richiesti per l’accertamento dell’incapacità naturale, per cui l’avvenuta declaratoria d’inabilitazione non equivale alla dimostrazione dell’incapacità naturale dell’inabilitato” (Cass. civ., 11.02.1994, n. 1388).
Per quanto concerne l’amministrazione di sostegno, invece, il beneficiario viene considerato dal legislatore capace di agire, anche se si tratta di una capacità che viene limitata in relazione alla idoneità del soggetto di curare i propri interessi. Anche in tal caso l’incapacità di intendere e di volere dovrà essere accertata nel caso concreto. Lo stesso principio è stabilito per l’accertamento della capacità naturale del minore: dovranno anche essere presi in considerazione lo sviluppo intellettivo, quello fisico, l’assenza di eventuali malattie, la forza del carattere, gli studi effettuati, le modalità del fatto, la capacità del minore a comprendere l’illiceità dell’azione dannosa compiuta.
4. La responsabilità del sorvegliante. Ai sensi dell’articolo 2047 del Codice civile, comma 1, il soggetto tenuto alla sorveglianza è responsabile per il danno cagionato dal fatto dell’incapace, salvo che provi di non averlo potuto impedire. L’attribuzione della qualifica di sorvegliante spetta per legge ai genitori o tutori del minore incapace, ai tutori dell’interdetto, alle persone o istituti di cura che hanno contrattualmente assunto tale dovere tramite un incarico conferito dai genitori o dai tutori.
Si è a lungo dibattuto circa la natura di tale tipo di responsabilità. Secondo l’opinione tradizionale si tratterebbe di una responsabilità per fatto proprio, sotto il profilo dell’omessa vigilanza: il responsabile, infatti, risponde per una propria colpa, ravvisabile nella non diligente sorveglianza dell’incapace (c.d. culpa in vigilando). Secondo altra impostazione (Franzoni), la norma contempla un caso di responsabilità indiretta, cioè per fatto altrui, e di tipo oggettivo. Infatti, provare di non aver potuto impedire il fatto significa essere ammessi a provare solo la mancanza del nesso causale; significa, in altre parole, essere ammessi a provare non la propria mancanza di colpa, ma il fatto positivo da cui l’evento dannoso è derivato.
In ogni caso la norma rientra tra le ipotesi di responsabilità aggravata, nella quale opera una presunzione relativa di colpa, superabile dal sorvegliante attraverso la prova liberatoria “di non aver potuto impedire il fatto”. La giurisprudenza pare orientata a richiedere al sorvegliante la prova di aver adottato tutte le cautele idonee ad evitare il danno, in relazione allo stato e alle condizioni dell’incapace; il fatto dannoso, in altri termini, deve risultare inevitabile, malgrado l’adozione di tutte le cautele appropriate.
Ai fini del riconoscimento della responsabilità del sorvegliante è altresì necessario che il fatto commesso dall’incapace presenti tutte le caratteristiche oggettive dell’antigiuridicità, ovvero sia tale che, se fosse assistito da dolo o colpa, integrerebbe un fatto illecito (Trib. Campobasso, 15.05.2014).
Nel caso di incapace maggiorenne non interdetto, risponde dei danni cagionati da quest’ultimo colui il quale abbia liberamente scelto di accogliere l’incapace nella propria sfera personale, convivendo con esso ed assumendone spontaneamente la sorveglianza (Cass. civ., 26.01.2016, n. 1321).
La responsabilità prevista dall’articolo 2047 c.c. riguarda l’ipotesi in cui l’incapace cagiona un danno ad un terzo, e non il diverso caso in cui tale soggetto procuri un danno a sé stesso. In tale ipotesi, sono applicabili le disposizioni di cui agli articoli 1218 o 2043 del Codice civile, a seconda che ricorra una responsabilità contrattuale o extracontrattuale del soggetto tenuto alla vigilanza.
In merito, è stata ritenuta configurabile la responsabilità della struttura sanitaria per i danni a sé provocati da un paziente in condizioni di disagio psichico atteso l’inadempimento della struttura stessa nel vigilare sulla sicurezza del soggetto in menomate condizioni di capacità di intendere e di volere, poiché l’ospedale è tenuto a spiegare un “atteggiamento di protezione differenziato”, a seconda della patologia lamentata dalla persona ricoverata, sin dalla prima fase di intervento (Cass. civ., 16.05.2014, n. 10832).
E’ opportuno evidenziare, infine, che la fattispecie prevista dall’articolo 2047 c.c. va tenuta distinta dall’ipotesi in cui i minori (o le persone soggette a tutela) siano capaci di intendere e di volere al momento della commissione del fatto dannoso. In tale circostanza si applica l’articolo 2048, comma 1, del Codice civile, il quale disciplina la responsabilità dei genitori e del tutore, stabilendo che tali soggetti rispondono del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati, ovvero delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi.
L’applicabilità dell’articolo 2048, in luogo dell’articolo 2047 del codice civile, postulerebbe l’esistenza di un fatto illecito compiuto da un minore capace di intendere e di volere, in relazione al quale soltanto sono configurabili la “culpa in educando” e la “culpa in vigilando” (Cass. civ. 2.03.2012, n. 3242). In tal caso incombe sui genitori l’onere di dimostrare di aver impartito al figlio un’educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta via di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini ed alla sua personalità, dovendo rispondere delle carenze educative cui l’illecito commesso dal figlio sia riconducibile (Cass. civ., 19.02.2014, n. 3964; Cass. civ., 10.09.2019, n. 22541).
5. La condanna dell’incapace al pagamento di un’indennità. Il secondo comma dell’articolo 2047 c.c. prevede la possibilità che il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, possa condannare l’incapace al pagamento di un’equa indennità nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere dal sorvegliante il risarcimento del danno.
Tale norma pone una deroga al principio dell’irresponsabilità del soggetto incapace al fine di garantire una indennità a favore del terzo nei casi in cui sia stata infruttuosamente esperita l’azione contro il sorvegliante. Si tratta, precisamente, di una responsabilità sussidiaria, rispetto alla responsabilità principale del sorvegliante, ed eventuale, poiché subordinata all’apprezzamento equitativo da parte del giudice circa le condizioni economiche delle parti.
L’indennizzo può essere concesso anche quando il danneggiato sia stato risarcito solo parzialmente dal sorvegliante e, secondo attenta giurisprudenza, anche quando non sia rinvenibile alcun soggetto addetto alla sorveglianza dell’incapace. Tale ipotesi, infatti, risulta logicamente comparabile a quella, considerata dall’articolo 2047, comma 1 del Codice civile, in cui il sorvegliante, chiamato a rispondere per il fatto proprio comunque direttamente ricollegabile all’incapace, ha potuto provare la sua assenza di colpa (Cass civ., 5.05.2021., n. 11718).
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Avv. Raffaele Nugnes
Laureato presso l’Università Federico II di Napoli con una tesi in diritto processuale amministrativo (relatore prof. Giovanni Leone), esercita la professione forense occupandosi principalmente di diritto civile e amministrativo.
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