La responsabilità precontrattuale della P.A.
Appartiene ad un’annosa questione di stampo civilistico, l’esatta individuazione della natura giuridica della responsabilità precontrattuale, scaturente dalla violazione degli obblighi comportamentali contemplati, in via generale, dall’art. 1337 c.c. e, in via più dettagliata, dall’art. 1338 c.c.: da sempre quest’ultimo considerato, una specificazione, appunto, del più ampio ed indeterminato obbligo di condurre le trattative, conformemente al canone della buona fede, siccome sancito nell’articolo precedente. Dacché, tale aporia fu inevitabilmente recepita in sede di rapporti negoziali intrapresi dalla P.A. nei confronti dei privati: la soggezione al diritto comune dell’attività contrattuale della P.A., in forza del nuovo comma 1bis dell’art. 1 legge 241/90, introdotto con legge n. 15 del 2005, ha comportato il riconoscimento, in capo alla stessa, di una capacità di diritto privato; in virtù della quale essa è titolare di una facoltà di avvalersi dello strumento privatistico-contrattuale, qualora lo ritenga più idoneo, efficiente, efficace (art 97 Cost.) al conseguimento dell’interesse pubblico, cui è sempre teleologicamente vincolata.
Dunque, la dismissione dell’idea tradizionale secondo cui, il modello autoritativo- procedimentale sia il mezzo esclusivo di realizzazione dell’interesse pubblico, non ha, di contro, postulato una capacità di diritto privato “generale”, ossia “affrancata” dai limiti sottesi alle procedure di evidenza pubblica.
In entrambi i rami giuridici, fu pacifica l’adozione di un’accezione squisitamente oggettiva della buona fede nelle more del processo di formazione contrattuale: in tale senso essa si atteggia, infatti, a canone di valutazione comportamentale, da cui derivano obblighi positivi e negativi e che, pertanto, diventa sinonimo di “lealtà e correttezza” durante le trattative contrattuali.
Non rileva affatto, quindi, la nozione di buona fede in senso soggettivo, ossia come condizione subiettiva di non punibilità, derivante da “ignoranza o errore”, che viene contemplata in appositi articoli del codice civile (1147, 1148 e 1189 c.c.), quale elemento costitutivo di una fattispecie complessa, a cui il legislatore riconduce determinati effetti giuridici “esimenti” (solitamente, fino a prova contraria).
Tuttavia, residuava la necessità di individuare che tipo di rapporto s’instaurasse tra soggetti legati da un vincolo “minore”, rispetto a quello propriamente negoziale, ma che non fossero del tutto estranei tra loro; di guisa tale che, un’eventuale responsabilità derivasse, non dalla lesione del generale dovere di neminem laedere, quanto, piuttosto dal mancato rispetto di obblighi nascenti da una fonte, comunque, non negoziale.
Pertanto, dottrina e giurisprudenza si alternarono nel tempo, riconducendo la relazione sussistente tra i protagonisti nel processo di formazione del contratto, con riguardo alla violazione degli obblighi comportamentali ex artt. 1337 e 1338 c.c.; talvolta, alla categoria della responsabilità extracontrattuale, tal’altra qualificandola come contrattuale ex art. 1218 c.c, oppure ancora come appartenente ad un tertium genus non corrispondente né all’una né all’altra fattispecie.
Un ammissibile contemperamento di successo tra le diverse teorie, si ebbe con l’introduzione della categoria del c.d. “contatto sociale”, che ebbe notevole rilevanza in ambito medico-sanitario: in base a tale impostazione, la responsabilità, che deriva dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, sancite a norma degli artt. 1337 e 1338 c.c., è contestabile, non in forza di una fonte negoziale (obbligazione ex contracto ex art. 1173 c.c.), ma di un “rapporto” negoziale; sicché la fonte della relativa obbligazione è, per l’effetto, ascrivibile, “ad ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” (ex art. 1173 cpv.).
Tale tesi si basa sull’assunto che, nell’ambito del c.d. regime contrattuale si individua, sia un regime “dell’applicabilità”, dove vengono in essere tutte le regole di validità, che ineriscono il contratto, in termini di “accordo negoziale”, relative alle regole sulla capacità e ai vizi di volontà; sia un regime di “responsabilità”, dove rilevano la regole sul comportamento, relative al “rapporto”, sicché la loro violazione comporta la patologia di un’obbligazione, che, seppur non contrattuale, fonda una responsabilità ex art. 1218 c.c. e non ex art. 2043 c.c.
In altri termini, la correlata responsabilità non deriva dalla violazione di obblighi dapprima inesistenti, che scaturiscono ex delicto, dalla lesione di diritti soggettivi spettanti al soggetto danneggiato, ma, invece, dalla violazione di un obbligo risarcitorio <derivato>, quale risposta dell’ordinamento alla preesistente posizione di credito rimasta insoddisfatta.
Ebbene, siffatta divaricazione tra regole di validità e regole di comportamento, al fine di suffragare una teoria tendenzialmente affermativa della natura contrattuale della responsabilità precontrattuale, ha avuto inevitabili ripercussioni in sede di individuazione della portata dei relativi obblighi sanciti a norma degli art. 1137 e 1338 c.c.
Entrambe le regole comportamentali sono poste a tutela della libertà negoziale del privato, ossia della libertà di autodeterminazione rispetto ad un programma contrattuale in formazione, sul quale ha riposto determinate aspettative (legittimo affidamento), al fine di soddisfare determinate pretese.
Da qui, nessun problema ermeneutico si è registrato ai fini della perimetrazione dell’obbligo di cui all’art. 1338 c.c.: la norma chiaramente definisce, in capo a ciascuno potenziale contraente, la sussistenza di un dovere di informare l’altro dell’esistenza di un vizio, che possa determinare la nullità, l’annullabilità o l’inefficacia del contratto successivamente stipulato; fermo restando che lo scopo pratico ivi perseguito, non è tutelare il diritto ad essere informato, ma, alla luce della succitata libertà negoziale, di impedire la conclusione di un contratto invalido, che frusti le legittime aspettative di controparte negoziale.
L’art. 1337 c.c., di contro, ha suscitato non poche perplessità circa l’individuazione del canone di comportamento richiesto, stante la portata elastica, più che generale, della categoria della buona fede oggettiva, quivi in rilevo.
Sicché, in via di prima approssimazione, si è ricostruito, in relazione al succitato art. 1337 c.c., il divieto di recesso ingiustificato dalle trattative, purché sussistano determinati presupposti: l’avanzamento e serietà delle trattative intraprese, abbia fatto sorgere nella controparte un legittimo affidamento incolpevole alla conclusione del contratto, tale da rendere ingiustificabile un eventuale recesso dalle stesse, che, per l’effetto, produca un danno apprezzabile. Con riguardo alle residuate e non specificate ipotesi, comunque riconducibili alla carenza di lealtà e correttezza, si è fatto riferimento, invece, a tutti quei comportamenti, che incidono negativamente sul procedimento di formazione della volontà negoziale, rispetto ad un dato e futuro vincolo contrattuale, di guisa tale da omettere informazioni, non solo su gli elementi essenziali o accessori dello stesso, ma che possano menomare la piena conseguibilità del bene giuridico che, tramite la conclusione del contratto, si mira a conseguire. In altri termini, ciò che deve essere presa in considerazione è la preservazione della c.d. equità dello scambio, più che la proporzionalità delle prestazioni economiche: la prima infatti, risponde alle intenzioni delle parti, affinché il contenuto giuridico ed economico del contratto sia conforme a quanto programmato ed auspicato dalla parte stessa; il secondo, invece attiene alla convenienza dell’affare, che l’ordinamento rimette quasi integralmente alla valutazione delle parti.
Pertanto, da quanto esposto, si comprende come la summenzionata opposizione tra regole di validità e di comportamento, abbia inizialmente influenzato l’elaborazione ermeneutica circa la determinazione della portata degli obblighi comportamento, contestabili ai fini di un addebito precontrattuale: tradizionalmente si riteneva, infatti, che la tipizzazione, più o meno legislativa, del divieto di stipula di un contratto invalido e di recesso ingiustificato dalle trattative, facesse venir meno, nel caso in cui si pervenisse alla stipula di un contratto valido ed efficace, gli eventuali vizi di correttezza presenti durante le trattative, in quanto dal medesimo assorbiti.
Tuttavia, tenuto conto della finalità concreta cui sono preordinati gli obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1337 e 1338 c.c., – ossia alla tutela della libertà negoziale delle parti e all’equità dello scambio- ; è emerso, in sede di determinazione giurisprudenziale dell’ammontare risarcitorio spettante nel caso di loro violazione, come, in realtà, non si potesse fare esclusivo riferimento all’interesse “negativo”, ma anche all’interesse “positivo” della parte lesa, che, infatti, può azionare la relativa tutela anche nel caso di conclusione di un contratto valido ed efficace.
In altri termini, si è giunti alla conclusione che le regole di comportamento più che contrapporsi, prescindono dalle regole di validità contrattuale: nel caso di loro inosservanza, il compendio risarcitorio dovuto si commisura avuto riguardo, non solo all’interesse negativo della parte lesa “a non essere coinvolta in trattative inutili o a non stipulare un contratto invalido”; ma anche dell’interesse positivo all’adempimento, non limitato alle prestazioni nascenti da un contratto concluso, ma esteso alla pretesa, già a monte, del rispetto di obblighi di correttezza e buona fede. Occorre, dunque, fare riferimento al c.d. interesse differenziale ossia, attraverso l’eliminazione delle conseguenze negative prodotte dal comportamento scorretto, al ripristino della situazione economica, che la parte lesa avrebbe avuto, in mancanza della violazione del precetto di buona fede.
Perciò le poste risarcitorie del danno emergente e del lucro cessante, dovranno commisurarsi, non solo in termini di, rispettivamente, spese inutilmente sostenute per partecipare alle trattative e alla perdita di occasioni alternative di contrattazione, ma anche con riguardo al pregiudizio, derivante dalla scorrettezza subita, incidente sul vantaggio economico che, altrimenti, si sarebbe conseguito.
Il grado di tutela risarcitoria riconoscibile in capo al privato, nella fase precontrattuale di formazione della volontà negoziale, ha assunto notevole pregnanza anche nelle trattative contrattuali avviate con la P.A., sebbene per cause più che altro legate al doppio vincolo, cui è sottoposta l’attività negoziale della stessa: trattasi, invero del vaglio di meritevolezza, valido, ex art. 1322 c.c., per ogni tipo di contratto anche nei rapporti inter privates; nonché, del vincolo funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico, predeterminato per legge.
L’attività negoziale della pubblica amministrazione, infatti, non può prescindere dall’interesse pubblico cui è preposta, e la cui rilevanza è tale da condizionarne la validità del contratto posto in essere: non a caso si tratta di “attività privata di pubblico interesse”.
Siffatta peculiarità, consente di differenziare, da un lato, la libertà negoziale propria dei privati, dalla discrezionalità amministrativa, rispetto allo scopo da perseguire; dall’altro di distinguere altresì quest’ultima dal c.d. merito amministrativo, rispetto ai rimedi della revoca ed annullamento d’ufficio, azionabili in autotutela ex artt. 21 quinquies e 21 nonies, ovvero del recesso precontrattuale, ex artt. 1337 e 1338 c.c., con le annesse ripercussioni in tema di riparto giurisdizionale.
Difatti, il ricorso agli strumenti privatistici, seppur configurato come alternativa generale ed equivalente rispetto all’esercizio del potere amministrativo, comporta l’impiego di risorse pubbliche per il soddisfacimento degli interessi pubblici, cui la P.A. è preposta; dacché essa è altresì tenuta a motivarne l’adozione, poiché ritenuti più idonei al conseguimento delle finalità pubblicistiche, in ossequio ai principi di buona amministrazione ex art. 97 Cost.
Pertanto, l’esercizio dell’attività negoziale da parte della P.A. non si traduce in una piena libertà di azione, né per quanto riguarda la scelta del contratto né quella del contraente, che devono essere adeguatamente compatibili con il fine da conseguire e, per l’effetto, assunte inevitabilmente nel contesto di una procedura ad evidenza pubblica.
Quest’ultima, infatti, consta di quattro fasi: la determina, o decreto, a contrarre, ossia un provvedimento gestionale, che, in ossequio alla legge sulla contabilità di stato e quella sui contratti pubblici, deve precedere la conclusione di qualsiasi tipo di negozio della P.A., e dal quale sono deducibili gli elementi essenziali del contratto, nonché i criteri di selezioni dei contraenti e delle offerte.
In secondo luogo, si procederà alla scelta del contraente, in base ad una procedura aperta o ristretta e successivamente alla stipulazione, preceduta dal “momento” dell’aggiudicazione definitiva.
Con riguardo a tale terza fase dell’evidenza pubblica, tradizionalmente si riteneva che già l’aggiudicazione definitiva, ossia l’atto amministrativo con cui viene accertato e proclamato il vincitore, postulasse ex se l’incontro delle volontà negoziali, risultando pari ordinata, ad ogni effetto legale alla conclusione del contratto; sicché la stipulazione costituiva una mera riproduzione del contratto medesimo.
Tuttavia, il codice dei contratti pubblici, all’art. 11 commi da 7 a 13 D.lgs. 2006 n. 163, ha sancito in via generale, l’indefettibilità della stipulazione ai fini della relazione negoziale, la quale produrrà pienamente i suoi effetti in forza della quarta ed ultima fase c.d. della “approvazione”: quest’ultima, con cui si realizza il controllo di regolarità amministrativa e contabile, pur essendo estranea alla fase formativa del contratto, ne costituisce condicio juris per la produzione della sua efficacia giuridica, che discenderà retroattivamente o sin dal momento della stipulazione o dell’aggiudicazione, qualora questa tenga luogo del contratto stesso.
Dunque, alla luce del ruolo svolto dalla fase dell’approvazione, occorre stabilire se l’eventuale revoca o annullamento d’ufficio, posto in essere dalla Pubblica amministrazione dopo l’aggiudicazione, ma prima della stipulazione, integri un’ipotesi di ius poenitendi, azionato in autotutela, ai fini del più idoneo conseguimento del pubblico interesse e, per l’effetto, ascrivibile ex art. 133 c.p.a alla cognizione del giudice amministrativo (quale materia tassativamente ricondotta alla c.d. giurisdizione esclusiva); ovvero un caso di recesso precontrattuale, valutabile ex artt. 1337 e 1338 c.c. da parte del giudice ordinario.
In altri termini, è necessario comprendere se sia contestabile in capo alla P.A. una privatistica culpa in contraendo, laddove la violazione delle regole di comportamento, che, in forza del recepimento della direttiva CE 2007/66, ad opera del D.lgs. n. 53 del 2010, sono confluite, tra gli altri, negli artt. 121 e 122 c.p.a., realizzi, a sua volta, la lesione del canone di buona fede e correttezza, nell’accezione civilistica di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c.
Secondo una prima impostazione, la revoca dalle trattative o l’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione, precedenti la stipulazione, costituivano espressione della potestà della Pubblica amministrazione, la quale si avvaleva di tali strumenti, al fine di adottare atti il più possibile conformi al fine pubblicistico, cui è vincolata, in ossequio al principio costituzionale del buon andamento; sebbene fosse, al contempo, tenuta a motivare adeguatamente le ragioni che, in sede di una valutazione comparativa tra l’interesse pubblico primario e quelli secondari-antagonisti, pur qualificati, dei partecipanti alla gara (oggetto della c.d. discrezionalità amministrativa pura), giustificassero il provvedimento di autotutela.
Di contro, l’opposto orientamento, – conformemente tra l’altro alla normativa nazionale e comunitaria (Direttiva 2007/66 CE)- non riconosce in capo alla stazione appaltante un potere, in autotutela, di revoca o di annullamento d’ufficio, idoneo a privare di efficacia il contratto stipulato: ciò in forza delle statuizioni contenute negli artt. 121 e 122 c.p.a., ove si rimette alla discrezionalità del giudice amministrativo la decisione di far discendere la caducazione degli effetti del contratto, escludendo, per l’effetto, che qualsiasi soggetto, anche se trattasi di ente pubblico, possa sciogliersi unilateralmente dal vincolo negoziale, nemmeno in presenza di violazioni della procedura di evidenza pubblica.
Si ritiene, dunque, che in tal caso la Pubblica amministrazione mantiene fermo l’interesse pubblico perseguito ab origine, ma tuttavia manifesta la volontà di non addivenire più alla stipulazione del contratto, oggetto dell’aggiudicazione; sicché essa pone in essere non una revoca pubblicistica, ma un recesso precontrattuale, determinando una duplice conseguenza: se il giudice amministrativo si pronuncia nel senso dell’inefficacia del contratto, la Pubblica amministrazione risponderà, ex art.1338 c.c. per aver omesso la comunicazione di vizi, che avrebbero condotto alla stipula di un contratto invalido o inefficace; invece, se il giudice amministrativo decide nel senso dell’efficacia del contratto, alla P.A. sarà addebitata la responsabilità precontrattuale, di cui all’art. 1337 c.c., ossia in virtù della lesione della categoria elastica della buona fede, tenuto conto dell’affidamento incolpevole del privato e della serietà delle trattative.
In entrambi i casi sarà rimesso al giudice ordinario, il compito di valutare se la pubblica amministrazione abbia agito nel corso delle trattative non come “buon amministratore”, ma in qualità di “buon contraente” ; il che non implica alcun sindacato nel merito.
Tuttavia, in sede civile, la tutela risarcitoria avrà comunque come presupposto la lesione dell’equità dello scambio, – compromessa dal comportamento scorretto della P.A. -, ossia la mancata rispondenza tra il contratto concluso ed il bene vita auspicato dal privato; sicché il relativo ammontare sarà commisurato, in base all’interesse differenziale, cioè tenuto conto della situazione economica, di cui si sarebbe avvantaggiato, in mancanza dell’inosservanza del precetto di buona fede. Invece, di fronte al giudice amministrativo, il privato potrà far valere ex art. 124 c.p.a., il c.d. “danno da perdita di chance”, che comporta, da un lato, la puntuale allegazione dei presupposti di fatto comprovanti la probabile aggiudicazione, dall’altro, l’esonero dalla prova del carattere colpevole delle violazioni della P.A. commesse nel corso delle gare d’appalto: ciò secondo un recente arresto della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che configura come “oggettiva”, la responsabilità della pubblica amministrazione in materia di appalti. In ogni caso, anche qualora si ritenesse sussistente, in capo al privato, l’onere probatorio sulla colpevolezza della P.A., quest’ultima non potrebbe addurre a proprio discarico, un errore riconducibile ad una diversa valutazione di opportunità e convenienza, circa il soddisfacimento dell’interesse pubblico primario, vista la succitata carenza di potestà pubblica e, per l’effetto, di discrezionalità amministrativa, in sede di recesso unilaterale precontrattuale.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.