La ricostruzione dei presupposti in concreto nel procedimento amministrativo discrezionale per il rilascio del porto d’armi per difesa personale
Con sentenza N. 09209/2023 pubblicata il 24 ottobre 2023 il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) è intervenuto in materia di rilascio del porto d’armi (nel caso concreto di porto di pistola per difesa personale).
La sentenza è stata l’occasione per ricostruire la natura del porto d’armi e la fattispecie per il rilascio, ed assume un valore aggiuntivo nel più ampio contesto in cui il dibattito politico in materia di sicurezza dei cittadini, porta spesso la discussione pubblica sul tema dell’estensione del diritto di difesa armata personale.
Nel decidere sul caso concreto il Consiglio di Stato mette in evidenza da un lato l’eccezionalità del rilascio del porto d’armi rispetto alla regola del non possesso.
Ribadisce che – data la natura dell’oggetto del procedimento amministrativo – nel più ampio contesto di rilievo costituzionale di bilanciamento degli interessi di sicurezza pubblica e privata – le prove della necessità e die requisiti soggettivi a fondamento del rilascio del permesso di detenzione debbano essere quanto mai approfonditi e stringenti.
Infine censura – nemmeno velatamente – quelle descrizioni di pericolo generico a fondamento di una sicurezza armata personale, laddove nella fattispecie il rischio debba essere provato in concreto.
La questione – concluderà il Consiglio di Strato – controversa attiene alla sussistenza o meno del dimostrato bisogno dell’arma imposto ai fini del rilascio del porto di pistola per difesa personale dall’art. 42 del T.U.L.P.S.
Il Fatto. Con provvedimento del 30 aprile 2019 il Prefetto della Provincia di Pavia ha respinto l’istanza di rilascio del porto di pistola per difesa personale, richiesta dal titolare di numerosi punti vendita di negozi di parrucchieri.
Il provvedimento di diniego ha tratto fondamento dalla circostanza che l’interessato non ha dimostrato il proprio bisogno di circolare armato per difesa personale e non sono emerse concrete situazioni di reali pericoli che necessitavano di essere fronteggiati con la disponibilità di un’arma.
Con ricorso proposto dinanzi al Tar Milano, l’interessato ha dedotto l’eccesso di potere e violazione dell’art. 3, l. n. 241 del 1990 per istruttoria incongrua, contrastante, lacunosa e per difetto di motivazione; violazione e falsa applicazione degli artt. 11, 39 e 42, 43, r.d. n. 773 del 1931; eccesso di potere; violazione del principio di tutela dell’affidamento. In particolare e nello specifico il Prefetto avrebbe dovuto tener conto della circostanza che il richiedente è titolare, nel Nord di Italia, di più di 50 negozi di parrucchieri e ogni giorno si trova a dover trasportare l’incasso della giornata dei vari negozi, consistente in ingenti quantità di somme di denaro.
Il Tar Milano ha respinto il ricorso considerando il provvedimento impugnato sufficientemente motivato data l’assenza di prove in ordine a un concreto pericolo, non risultando denunciate minacce o aggressioni in occasione dell’attività di portavalori svolta, la quale da sola non giustifica la richiesta di porto d’armi. L’Amministrazione avrebbe considerato anche la contrazione dei reati predatori nella provincia di Pavia tra il 2015 e il 2018.
La sentenza è stata impugnata con appello riproducendo sostanzialmente le censure non accolte in prime cure e ponendole in chiave critica rispetto alla sentenza avversata.
La sentenza. In camera di consiglio il Collegio ha sentenziato l’appello come infondato.
Sulla base della interpretazione delle basi giuridiche il Consiglio di Stato ha innanzitutto premesso che il rilascio di porto d’armi per difesa personale rientra tra le cosiddette autorizzazioni di polizia, disciplinate a livello generale dal Capo III del Titolo I del R.D. 18 giugno 1931, n. 773.
Il potere di rilasciare le licenze per porto d’armi costituisce una deroga al divieto di detenere armi sancito dall’art. 699 c.p. e dall’art. 4, comma 1, l.n. 110 del 1975.
La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire.
La Corte costituzionale, sin dalla sentenza del 16 dicembre 1993, n. 440, ha affermato che “il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse”.
Il Giudice delle leggi ha osservato, altresì, che “dalla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli e situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti”.
Secondo il richiamo del Consiglio di Stato, proprio in ragione dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, il Giudice Costituzionale ha aggiunto, nella sentenza del 20 marzo 2019, n. 109, che “deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che – entro il limite della non manifesta irragionevolezza – mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica: beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi”.
La giurisprudenza, rammenta il massimo organo della giustizia amministrativa, è consolidata nel ritenere che il porto d’armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, rappresentando un’eccezione al normale divieto di detenere armi e potendo essere riconosciuto soltanto a fronte della perfetta e completa sicurezza circa il loro buon uso, in modo da scongiurare dubbi o perplessità, sotto il profilo prognostico, per l’ordine pubblico e per la tranquilla convivenza della collettività (Cons. St., sez. III, 25 marzo 2019, n. 1972; id. giugno 2018, n. 3435).
Il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che presuppone una analisi comparativa dell’interesse pubblico primario, degli interessi pubblici secondari, nonché degli interessi dei privati, oltre che un giudizio di completa affidabilità del soggetto istante basato su rigorosi parametri tecnici.
Nello specifico settore delle armi, tale valutazione comparativa si connota in modo peculiare rispetto al giudizio che tradizionalmente l’Amministrazione compie nell’adottare provvedimenti permissivi di tipo diverso.
La peculiarità deriva dal fatto che, stante l’assenza di un diritto assoluto al porto d’armi, nella valutazione comparativa degli interessi coinvolti assume carattere prevalente, nella scelta selettiva dell’Amministrazione, quello di rilievo pubblico, inerente alla sicurezza e all’incolumità delle persone, rispetto a quello del privato.
Con particolare riferimento al rilascio della licenza del porto d’arma per difesa personale, l’art. 42 del T.U.L.P.S. subordina l’autorizzazione all’attenzione della Consiglio di Stato all’esistenza del “dimostrato bisogno dell’arma”.
Ai sensi di legge, quindi, l’Autorità di pubblica sicurezza ha l’onere di valutare i casi in cui è possibile accordare l’uso delle armi per difesa personale, ancorando tale valutazione alla sussistenza di un effettivo bisogno dell’interessato di proteggersi da una situazione di pericolo.
A tal fine, l’Amministrazione è chiamata a compiere una valutazione tecnica in ordine al pericolo per l’incolumità personale dell’istante, che giustifica il “dimostrato bisogno dell’arma” e che deve essere ricavato da circostanze di fatto specifiche e attuali, non potendo invece essere desunto né dalla tipologia di attività o professione svolta dal richiedente, né dalla pluralità e consistenza degli interessi patrimoniali del richiedente, o dalla conseguente necessità di movimentare rilevanti somme di denaro (Cons.St., sez. III, 28 marzo 2023, n. 3189; id. 25 gennaio 2023, n. 822; id. 20 gennaio 2023, n. 720).
Con riguardo alla prova del “dimostrato bisogno”, essa ricade sul richiedente, e la circostanza che il porto sia stato autorizzato in passato non genera una inversione dell’onere probatorio.
Chi chiede il rinnovo deve sempre provare l’esistenza di condizioni attuali e concrete di bisogno che giustificano la concessione dello speciale titolo di polizia, e l’esigenza di dar corso a questa verifica con frequente periodicità è confermata dal secondo periodo del terzo comma del citato art. 42 TULPS, per cui “la licenza ha validità annuale” (periodo aggiunto dall’art. 13, comma 1, lettera b), d.l. 9 febbraio 2012, n. 5).
Nel caso specifico oggetto di sentenza, il Consiglio di Stato, rigetta come privo di motivazione l’appello dell’istante, sulla base del fatto che come ritenuto dal Prefetto e dal primo giudice, la circostanza che l’istante quotidianamente trasporti ingenti quantità di denaro prelevato dai diversi negozi sparsi nel Nord di Italia non rappresenta una ragione da sola sufficiente a giustificare il rilascio del porto di pistola per difesa personale in assenza di episodi concreti che dimostrino un effettivo e attuale pericolo per la propria incolumità fisica… l’assoluto bisogno di portare l’arma non può desumersi automaticamente dalla particolare attività professionale svolta dall’appellante (e dalle modalità del suo svolgersi) ovvero dal fatto di operare in zone assertivamente pericolose.
Appaiono generici i richiami contenuti nel gravame volti ad evidenziare la particolare situazione ambientale in cui l’appellante opera (“negozio o abitazione isolata”, “necessità di attraversare quartieri malfamati”, “zona con alto indice di criminalità”).
Tali riferimenti, infatti, integrano un mero rischio potenziale e non dimostrano alcuna sovraesposizione al pericolo di divenire vittima di fatti delittuosi.
Infine, rispetto alla circostanza – valorizzata nel ricorso – che nel territorio pavese ci sarebbe stato un incremento dei reati contro la persona e il patrimonio, vale ricordare la necessità di impedire che l’aumento (o il paventato pericolo di aumento) di tali reati possa alimentare una generalizzata diffusione delle armi, determinando un ulteriore aggravio per la tutela della sicurezza pubblica (Cons. St., sez. III, 20 gennaio 2023, n.720).
La censura concernente l’affidabilità dell’interessato è, invece, inconferente, atteso che la questione controversa non attiene al giudizio di inaffidabilità del soggetto, ma alla sussistenza o meno del dimostrato bisogno dell’arma imposto ai fini del rilascio del porto di pistola per difesa personale dall’art. 42 del T.U.L.P.S.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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