La riforma dell’ordinamento penitenziario: ultimi aggiornamenti del travagliato iter formativo
“Le carceri sono lo specchio della civiltà di un paese” diceva Voltaire, citazione ricorrente ogni qual volta si discuta delle problematiche che caratterizzano il sistema penitenziario italiano.
Il sottinteso evidente è che, costatate le disumane e degradanti condizioni cui sono costretti i detenuti negli istituti di prevenzione e di pena italiani, il nostro sia un paese arretrato e incivile, un paese incapace di garantire il rispetto della dignità dei soggetti che popolano le nostre carceri, soggetti spesso in attesa di definitivo giudizio (essi sono infatti il 34,5%,[1] cifra molto superiore a quella degli altri paesi, precisamente una percentuale quasi doppia rispetto alla media europea[2]).
L’8 gennaio 2013, con la sentenza “Affaire Torreggiani e altri c. Italia”, la C.E.D.U. condannava l’Italia affermando che “il livello di abitabilità raccomandato dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti nelle camere di detenzione collettive è di 4m2”.
Tuttavia, essendo la maggioranza dei detenuti costretti a vivere in uno spazio inferiore a quello previsto, è confermata la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali. La sentenza Torreggiani ha invitato l’Italia non solo alla revisione delle politiche dell’esecuzione penale in vista di una sempre più frequente applicazione delle pene non detentive ma ha anche imposto la riorganizzazione della vita all’interno degli istituti di prevenzione e di pena italiani.
I detenuti, infatti, costretti spesso a vivere in meno di 3m2 di spazio per circa 23 ore al giorno (considerata la sola ora di aria concessa in molti istituti), hanno più volte denunciato le condizioni in cui sono chiamati a scontare una pena che, in ossequio ai principi di cui all’art. 27 Cost. dovrebbe tendere alla rieducazione e risocializzazione del detenuto in un’ottica di umanità della stessa.
Molte delle strutture carcerarie italiane presentano gravi problematiche, in primo luogo gli edifici che ospitano i detenuti non sono assolutamente adatti allo scopo detentivo (molti risalenti alla fine del 1800 e alla seconda metà del 1900). Tali strutture, infatti, spesso realizzate quando il rispetto per la dignità umana non era un obbligo costituzionale, quando la carcerazione era utilizzata solamente come una severa tortura, appaiono oggi ben lontane dall’assicurare spazi, servizi e condizioni adeguate ai cittadini.
Edifici fatiscenti, in stato di degrado totale, celle piccole e strette (i famosi cubicoli la cui eliminazione era stata prevista dal D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230), finestre, cosiddette < bocche di lupo > che sono solo strette fessure da cui la luce fatica a entrare, turche poste a pochi cm dai letti a castello solitamente a tre piani non permettono un minimo di privacy. Le condizioni igienico-sanitarie sono disumane: possibilità di fare la doccia spesso non più di due volte a settimana, con la stessa frequenza avviene il cambio delle lenzuola, assenza di acqua calda, riscaldamento spesso in disuso per periodi prolungati.
Solo 13 su un totale di 231 istituti penitenziari sono dotati di centri diagnostici terapeutici funzionanti e molti di questi dalle diverse testimonianze non sono effettivamente utilizzati..
Il carcere potrebbe essere definito come una “fabbrica di malattie”, circa il 70% dei detenuti sono affetti da varie patologie di tipo infettivo trasmesse a causa delle pessime condizioni igieniche causate anche dal grande problema del sovraffollamento che favorisce i contagi e non permette controlli sistematici. Epatite c, epatite b, HIV, tubercolosi (circa 250 casi l’anno) sono le malattie infettive più diffuse seguite dalle malattie psichiatriche (27%), osteoarticolari (17%), cardiovascolari (16%), dermatologiche (10%)[3].
Denunciato anche il completo disinteresse per le relazioni affettive e famigliari dei detenuti che spesso possono godere solo di un colloquio al mese e di una telefonata settimanale.
Si registra un forte limite addirittura impossibilità, a svolgere attività lavorativa o di volontariato nonostante le previsioni normative di cui agli artt. 20 e 21 L. 26 luglio 1975, n. 354 sull’ordinamento penitenziario ove è prevista la possibilità di svolgere attività lavorativa sia all’interno sia all’esterno delle mura carcerarie.
Dovrebbe essere, infatti, attuato il cosiddetto < trattamento individualizzato > previsto dalle Regole Minime approvate nel 1955 dal Congresso di Difesa Sociale dell’ONU di Ginevra e recepite in data 19 gennaio 1973 dal Consiglio d’Europa nelle Regole Penitenziarie Europee il cui ultimo aggiornamento risale al 2006, nonostante l’art. 108 delle stesse preveda espressamente un aggiornamento regolare.
Le problematiche riscontrate non sono solo circoscritte alla chiusa realtà del carcere ma non si deve dimenticare che quasi tutti i detenuti sono riammessi nella società civile costituendo un pericolo non solo sociale (poiché essi non migliorano il proprio comportamento anche a causa della mancanza di servizi e strutture adeguate alla rieducazione e risocializzazione come previsto dal dettato costituzionale) ma anche sanitario.
Preso in parte coscienza della situazione di estremo disagio di cui si è voluta dare contezza nella prima parte di questa breve trattazione, dal 2015 è stato intrapreso un percorso costruttivo atto al miglioramento della situazione carceraria in ossequio ai principi di rieducazione, risocializzazione e reinserimento dei detenuti all’interno della collettività nel rispetto di uno dei principi cardini del nostro ordinamento giuridico ossia il principio di certezza della pena.
Tale percorso ha portato dopo quasi tre anni, nel giugno 2017, all’approvazione della Legge Delega n. 103 di riforma dell’ordinamento penitenziario intitolata “modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”.
In particolare il Governo è stato chiamato a legiferare sui seguenti profili:
ampliamento dell’ambito di operatività delle misure alternative alla detenzione anche attraverso la semplificazione delle procedure di accesso alle stesse;
semplificazione delle procedure per le decisioni del Magistrato di Sorveglianza e del Tribunale di Sorveglianza;
superamento degli automatismi che limitano ed a volte precludono del tutto l’accesso alle forme di esecuzione della pena detentiva extra-carceraria;
incremento di nuove opportunità di lavoro e possibilità di svolgere attività di volontariato;
tutela delle relazioni famigliari dei detenuti e dei loro cari attraverso il riconoscimento del diritto alle affettività;
tutela delle detenute madri;
ampliamento delle garanzie dei detenuti attraverso una riforma del sistema sanitario;
tutela dei detenuti minorenni in ambito di fine rieducativo della pena.
Il comma 83 di tale L. Delega prevede che essa debba essere esercitata entro 1 anno dalla sua entrata in vigore e dunque entro il 3.08.2018.
Il 15.01.2018 è stato trasmesso dal Governo al Presidente della Camera dei Deputati lo schema di d.lgs. n. 501 della suddetta L.Delega il quale costa di 26 articoli per un totale di 6 capi.
Tuttavia, ad oggi, tale L.Delega non risulta attuata in ordine alle lettere g), h), p) disciplinanti rispettivamente l’incremento delle opportunità di lavoro retribuito, il rispetto del diritto all’affettività, nonché l’assunzione di provvedimenti in ordine alle esigenze rieducative dei detenuti minorenni.
Come sappiamo, nonostante la Cost. non lo preveda espressamente, è consuetudine prima di approvare un decreto delegato sottoporre lo schema di d.lgs. alle Commissioni Parlamentari competenti in materia, nel caso di specie individuate nella Commissione Giustizia e nella Commissione Bilancio.
Il 7.02.2018 sono stati deliberati dalle commissioni citate i rispettivi pareri (previsti entro il 2.03.2018) sullo schema di d.lgs. In particolare la Commissione Giustizia ha emesso parere con esito favorevole con condizioni ed osservazioni mentre la Commissione Bilancio ha espresso parere favorevole corredato dalla condizione volta a garantire il rispetto dell’art. 81 Cost., ossia il principio di equilibrio tra entrate e spese in merito al bilancio statale.
Il 14.02.2018 anche il CSM ha espresso il proprio parere sullo schema di d.lgs recante la riforma dell’ordinamento penitenziario.
L’organo di governo autonomo della magistratura ordinaria ha sottolineato ancora una volta la “necessità di abbandonare la tradizionale prospettiva carcerocentrica (…) per adottare forme di trattamento sanzionatorio individualizzate e, come tali, idonee al recupero e al reinserimento sociale del condannato; ciò, non solo per il rispetto del principio rieducativo a cui è informato l’art. 27 Cost., ma anche per la dimostrata
inadeguatezza della sola misura detentiva a contrastare la recidivanza, notoriamente molto più alta in coloro che subiscono un trattamento detentivo rispetto a coloro che, beneficiando di misure alternative adeguate, abbiano effettive opportunità di riscatto e di allontanamento da influenze criminali dalle quali inevitabilmente la vita penitenziaria non è immune[4]”.
Pensiero supportato dalla sentenza della Corte di Strasburgo in cui si afferma che la “detenzione non può comportare una intensità del sacrificio eccedente quello fisiologicamente insito nella detenzione stessa[5]”, nonché da numerosa giurisprudenza di cui si citano a titolo esemplificativo le sent. della Corte Cost. n. 26 del 1999 e n. 279 del 2013.
Il CSM a fronte di un giudizio positivo sui piani ispiratori del complessivo intervento riformatore ha però evidenziato alcuni punti critici della riforma: primo tra tutti la mancanza di risorse finanziarie adeguate alla realizzazione di un concreto miglioramento della vita carceraria, nonché di un più efficace perseguimento della funzione rieducativa della pena.
Il CMS ha rilevato inoltre, come già accennato, l’assenza di alcune previsioni della L.Delega in merito al trattamento dei detenuti minorenni, alla tutela del diritto all’affettività e al lavoro retribuito.
Vengono espressi inoltre forti dubbi sull’applicazione delle disposizioni relative alle modalità di comunicazione che sarebbero previste per i detenuti (permettendo l’utilizzo del programma Skype o della messaggistica istantanea tramite rete internet) ma che, allo stato attuale, parrebbero di difficile applicazione nel rispetto dei parametri di sicurezza posti al fine di evitare usi impropri degli strumenti tecnologici.
Il 22 febbraio 2018 il Consiglio dei Ministri ha annunciato il rinvio della riforma dell’ordinamento penitenziario proprio a causa dei numerosi rilievi sollevati nei pareri delle Commissioni suddette.
Si tratta dunque di una riforma attraverso la quale tra i vari interventi previsti potrebbe essere incentivata maggiormente l’applicazione delle misure alternative alla detenzione, introdotte dalla L. 26 giugno 1975, n. 354 e che nel nostro ordinamento sono la semilibertà, la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova al servizio sociale.
Si tratta di una riforma che ha espressamente escluso la possibilità di una sua applicazione per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale e che lascia comunque la decisione finale per l’applicazione dei permessi premio, delle misure alternative e di ogni altra decisione riguardante il trattamento del detenuto alla valutazione concreta del Magistrato di Sorveglianza che caso per caso, hic et nunc verificatosi, dovrà prendere una decisione basata sul comportamento e sulla storia processuale e non del singolo individuo.
È comprensibile la diffidenza espressa dall’opinione pubblica verso la riforma dell’ordinamento penitenziario, pensiero causato principalmente dalla paura di non sentirsi protetti e tutelati nella quotidianità.
Occorre pertanto far conoscere le numerose statistiche che dimostrano quanto il tasso di recidiva sia incomparabilmente inferiore per i detenuti che scontano almeno una parte della pena al di fuori delle mura carcerarie e per quei detenuti ai quali è permesso realmente di prendere parte ad un vero e proprio programma individualizzato di trattamento.
Tuttavia ad oggi il carcere potrebbe essere definito come una “fabbrica fallita” in quanto su oltre 56.438[6] detenuti quasi la metà hanno da 1 a 5 carcerazione precedenti, il 12% da 5 a 9 carcerazioni precedenti e circa 2000 detenuti più di 10 carcerazioni precedenti.
Appare dimostrato dunque che il sistema attuale è ben lontano da garantire ai cittadini una diminuzione considerevole del tasso di recidiva che dovrebbe essere il principale interesse della collettività.
Riponiamo dunque la nostra fiducia nell’attuazione non solo formale ma anche sostanziale di questa riforma che possa almeno in parte migliorare la situazione carceraria del nostro paese e conseguentemente la vita di ognuno di noi.
[1] Fonte Associazione Antigone – dato aggiornato ad aprile 2017.
[2] Sent. Corte e.d.u., Sez. II, Causa Torreggiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013.
[3] Associazione Antigone, Inchiesta sulle prigioni italiane, settembre 2012.
[4] Parere ai sensi dell’art. 10 L. 24.3.1958, n. 195, sullo schema di decreto legislativo recante la riforma dell’ordinamento penitenziario. (Delibera 14 febbraio 2018)
[5] sent. CEDU, Grande Chambre, Kudla c. Polonia, 26.10.2000
[6] Associazione Antigone, XIII rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia.
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