La rilevanza dell’indirizzo IP nella diffamazione via web
Cassazione Penale, Sez. V. 5, febbraio 2018, n. 5352
La pronuncia giurisprudenziale esaminanda schiude una questione di rilevante interesse per gli operatori del diritto, relativa al ruolo assunto dall’indirizzo IP ai fini dell’accertamento della penale responsabilità per il delitto di diffamazione commesso tramite il noto social network “Facebook”.
Ebbene, prima di addentrarci nell’analisi della vicenda fattuale e delle connesse questioni giuridiche, risulta opportuno partire da una breve osservazione di carattere preliminare.
La rivoluzione tecnologica, indiscusso fattore di progresso, ha avuto un forte impatto sui rapporti sociali e giuridici, determinando inevitabili ed intensi cambiamenti che hanno inciso anche sulla sfera del diritto penale, con il sorgere del cosiddetto cybercrime oppure, per meglio dire, crimine informatico. Trattasi di un fenomeno che si sostanzia nell’ utilizzo di internet e della tecnologia informatica ad esso correlata, al fine di commettere uno o più crimini e che disvela “il lato oscuro del web” quale vero e proprio fattore criminogeno. In particolare, l’assenza di confini spazio-temporali e dunque il potere di agire senza esporsi in prima persona con l’esclusione dei rischi a ciò connessi, hanno indotto un numero sempre maggiore di soggetti a delinquere, agevolando la commissione di reati tramite la rete Internet. Ed è in tale quadro che s’inserisce il delitto di diffamazione posto in essere tramite l’utilizzo della rete e, segnatamente, del social network Facebook.
Sul punto, giova specificare come la condotta di chi pubblichi commenti di natura offensiva sul social network Facebook, sia idonea a configurare il delitto di diffamazione aggravata di cui all’art. 595 comma 3 c.p.
Infatti, secondo le coordinate ermeneutiche declinate dalla giurisprudenza di legittimità “la condotta di postare un commento sulla bacheca di Facebook realizza la pubblicazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque apprezzabile per composizione numerica, sicché, se tale commento ha carattere offensivo, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall’art. 595 c.p. 3 comma ” [1].
L’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova infatti la sua ragion d’essere nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando e aggravando in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche dei social network rientranti in tutti quei sistemi di comunicazione e di diffusione che rendono possibile la trasmissione di dati e di notizie ad un numero indeterminato di persone.
Premesso ciò, questione giuridica invece ancora controversa è quella relativa al ruolo e alla rilevanza assunta dall’indirizzo IP[2] nel delitto di diffamazione a mezzo Facebook. Trattasi di una questione che innegabilmente s’inserisce all’interno del più ampio quadro comprendente tutte le problematiche che si pongono con riguardo a tali “nuove” fattispecie di reato, in special modo in merito all’ individuazione dell’autore di tali condotte antigiuridiche.
Ebbene, il dato fattuale oggetto della sentenza esaminanda, vedeva imputata e condannata in primo e secondo grado per il reato di cui all’art. 595 comma 3 c.p. una sindacalista, per aver indirizzato espressioni diffamatorie attraverso il social network Facebook, nei confronti del Sindaco del proprio Comune di appartenenza.
Il giudice di prime cure, trattandosi di procedimento definito con rito abbreviato, riteneva che la paternità del messaggio diffamatorio fosse stata adeguatamente provata sulla base della denuncia presentata dalla persona offesa, con annessa allegazione della stampa della pagina social su cui erano contenute le espressioni diffamatorie.
La Corte d’Appello, più ampiamente, riteneva raggiunta la penale responsabilità dell’imputata per il delitto contestato e dunque, la riferibilità ad essa del messaggio diffamatorio sulla base di una serie di indizi: la provenienza da un profilo Facebook riportante il nome ed il cognome della sindacalista; dalla natura dell’argomento di discussione del forum in cui era contenuto il messaggio diffamatorio, riguardante pretese di lavoratori del Comune, e per tale ragione, ritenuto di interesse dell’imputata che all’epoca dei fatti svolgeva la professione di sindacalista; dall’ulteriore circostanza per la quale non risulta che la stessa abbia mai lamentato che altri avessero usato il suo nome e cognome abusivamente, né abbia mai denunciato alcuno per furto d’identità.
L’imputata adiva la Suprema Corte, contestando il criterio di valutazione della prova utilizzato dal giudicante sotto il profilo della convergenza, concordanza e precisione degli indizi posti a base del giudizio di penale responsabilità. Infatti, la Corte di Appello non aveva dato conto in modo adeguato delle ragioni per le quali non avesse dubitato della paternità delle frasi incriminate, lasciando del tutto inesplorata l’ipotesi che terzi avessero potuto utilizzare abusivamente il profilo dell’imputata, rendendosi dunque autori della condotta diffamatoria.
In particolare, la ricorrente riteneva che la motivazione addotta dal giudicante non fosse scevra da vizi, in quanto carente di un elemento essenziale, da un lato l’omesso confronto con la mancata identificazione dell’indirizzo IP di provenienza della frase diffamatoria, dall’altro l’assente prova fornita dai cd. “file log”[3]. Infatti, secondo la difesa, per accertare la paternità dello scritto bisognava reperire e verificare l’indirizzo IP associabile al profilo dell’imputata, che avrebbe consentito di attestarne l’effettiva titolarità mediante l’intestazione della linea telefonica allo stesso associata, ed effettuare inoltre, un’operazione a ritroso mediante la ricerca e l’acquisizione dei cd. “file di log” contenenti tempi ed orari della connessione.
La Suprema Corte, dopo aver riscontrato che la motivazione della sentenza di appello non si confrontava con alcuna delle doglianze mosse dalla difesa, accoglieva il ricorso presentato dalla ricorrente.
Orbene, un’attenta lettura della sentenza in commento, potrebbe spingere a ritenere che la verifica dell’indirizzo IP di provenienza del contenuto lesivo, riferibile al profilo Facebook incriminato, sia un presupposto imprescindibile per procedere con il massimo grado di certezza all’attribuzione della penale responsabilità per il reato di cui all’art. 595 comma 3 c.p., essendo esclusa per il suo tramite, l’ipotesi relativa ad un possibile utilizzo abusivo del nickname dell’account Facebook del presunto autore del reato da parte di terzi.
A tal uopo, mette conto rilevare come sul punto, però, si siano affermati orientamenti giurisprudenziali contrastanti, secondo cui, la riferibilità soggettiva del messaggio diffamatorio, potrebbe desumersi da differenti circostanze fattuali, escludendo pertanto, il ruolo centrale dell’identificazione dell’indirizzo IP quale elemento essenziale al fine di provare la paternità delle espressioni diffamatorie e la consequenziale sussistenza del delitto di diffamazione a mezzo Facebook.
[1] Cass. Pen. Sez. V 1° marzo, n.8328
[2] Codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico, per navigare in Internet e per comunicare in una rete locale. Un indirizzo IP costituisce la base per una trasmissione corretta delle informazioni dal mittente al ricevente.
[3] Registro di eventi contenente informazioni in merito alle attività implicite ed esplicite di un qualsiasi sistema informatico hardware e software.
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Rosalba Taverniti
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