La rilevanza penale del mobbing in ambito lavorativo

La rilevanza penale del mobbing in ambito lavorativo

Sommario: 1. L’assenza di un titolo di reato specifico e le possibili fattispecie applicabili – 2. L’approdo finale: la punibilità ex art. 572 c.p. e la figura dei c.d. “maltrattamenti in ambito lavorativo” – 3. Il mobbing ed il reato di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p. – 4. Conclusioni

 

1. L’assenza di un titolo di reato specifico e le possibili fattispecie applicabili

Con il termine “mobbing” si intende fare riferimento a quell’insieme di comportamenti vessatori perpetrati in danno di un dipendente da parte del datore di lavoro (mobbing c.d. verticale) o dei suoi colleghi (mobbing c.d. orizzontale), che danno luogo ad una vera e propria condotta persecutoria, connotata da abitualità ed idoneità a compromettere la condizione psicofisica del lavoratore, ledendone la dignità, anche al fine di allontanarlo e marginalizzarlo all’interno dell’ambiente in seno al quale svolge la sua attività lavorativa[1].

Manca, tuttavia, all’interno del nostro ordinamento, una specifica disciplina del mobbing e, di conseguenza, sotto il profilo penalistico, non essendovi una norma incriminatrice che espressamente sanzioni la condotta in esame, occorre individuare le fattispecie più idonee ad assicurare un’adeguata tutela del lavoratore, pur sempre nel rispetto dei principi di tassatività e di determinatezza, capisaldi irrinunciabili del diritto penale.

Considerando che la condotta persecutoria deve necessariamente essere integrata da una pluralità di atti, i quali, autonomamente considerati, normalmente possono assumere, anche singolarmente, rilevanza penale, una prima soluzione praticabile, suggerita da una parte della dottrina, sarebbe quella di “parcellizzare” la condotta persecutoria, punendo i singoli atti lesivi compiuti in danno del lavoratore.

Vengono in rilievo, in quest’ottica, i reati di minaccia (art. 612 c.p.), quello di lesioni volontarie (art. 582 c.p.) ed infine la violenza privata (art. 610 c.p.), in quanto la condotta vessatoria del mobber non è mai fine a se stessa, ma tende, di regola, a costringere la vittima a tenere uno specifico comportamento, come, ad esempio, rassegnare le dimissioni, oppure accettare l’assegnazione a mansioni subalterne o anche un trasferimento in un’altra sede, al fine di ottenere il raggiungimento dell’obiettivo sperato.

Laddove, chiaramente, la condotta violenta dovesse attingere la sfera sessuale potrebbe essere integrato anche il delitto di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p. o di estorsione (art. 629 c.p.), se si dovesse ravvisare una costrizione nei confronti del dipendente al fine di indurlo a rinunciare a sue legittime spettanze economiche, con conseguente danno ingiusto realizzato nei suoi confronti ed indebito profitto conseguito dal datore di lavoro. Ove invece la condotta vessatoria dovesse configurarsi nel contesto di una Pubblica Amministrazione e quindi ai danni di un dipendente pubblico, potrebbe essere integrata la fattispecie dell’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p.

Tale soluzione ha il pregio di garantire l’applicazione delle norme penali di volta in volta evocate alla ricorrenza dei loro specifici elementi costitutivi e questa opera è sicuramente in linea con i principi didi determinatezza e di tassatività, rivelandosi anche in grado di adattarsi alle peculiarità del caso concreto.

Tale modalità operativa, tuttavia non sembra garantire, al contempo, un’efficace tutela al lavoratore.

Sebbene, in astratto, sia anche configurabile, in relazione ai singoli reati ravvisati nel caso di specie, la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 11 c.p., connessa all’abuso di autorità di relazioni di ufficio o di prestazione d’opera, la risposta sanzionatoria potrebbe comunque risultare inadeguata rispetto al grado di vessazioni subita dal dipendente[2].

La “parcellizzazione” della responsabilità penale del mobber, inoltre, non consentirebbe, in molti casi, di punire il fenomeno nel suo complesso, posto che la condotta persecutoria, il più delle volte, ben può manifestarsi anche attraverso comportamenti privi, in sé, di rilevanza penale (umiliazioni, offese, atti di scherno, sottoposizione a continui controlli o provvedimenti disciplinari ecc.)[3].

Se si intende verificare l’eventuale rilevanza penale dell’intero comportamento mobizzante complessivamente considerato, occorrerà, quindi, giocoforza, fare riferimento a fattispecie connotate da una condotta eventualmente o necessariamente abituale, che rifletta cioè i caratteri strutturali tipici del mobbing.

A tal fine una possibile alternativa è costituita dal reato di molestie, previsto dall’art. 660 c.p.

La natura contravvenzionale di tale fattispecie rischia, tuttavia, di frustrare l’aspettativa di un’adeguata risposta sanzionatoria, soprattutto quando la condotta vessatoria posta in essere dal soggetto agente abbia prodotto conseguenze pregiudizievoli per lo stato psicofisico della vittima[4].

L’attenzione va rivolta, pertanto, alla fattispecie dei “maltrattamenti contro familiari e conviventi” (art. 572 c.p.)  e a quella degli “atti persecutori” (art. 612 bis c.p.) per sondare la loro adattabilità alle condotte vessatorie perpetrate in ambito lavorativo.

2. L’approdo finale: la punibilità ex art. 572 c.p. e la figura dei c.d. “maltrattamenti in ambito lavorativo”

La giurisprudenza di legittimità ha più volte affrontato la problematica relativa alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. nell’ambito del rapporto di lavoro.

Sul punto, con un orientamento che si è andato via via consolidando, la suprema Corte ha affermato che per sostenere la rilevanza penale del mobbing ben si potrebbe invocare il disposto dell’art. 572 c.p. a condizione, però, che il rapporto tra datore di lavoro e dipendente sia caratterizzato da “familiarità”.

In altri termini, le pratiche persecutorie, realizzate in danno del lavoratore e finalizzate alla sua emarginazione potranno integrare il delitto di maltrattamenti esclusivamente quando il rapporto tra il mobber e la vittima assuma natura “para familiare[5] perché caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i due soggetti (datore di lavoro e dipendente), dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra o dalla fiducia riposta dal soggetto più debole nei confronti del soggetto che ricopre una posizione sovraordinata.

Queste condizioni sono tali da determinare un contesto lavorativo “para familiare” e quindi una comunanza di vita assimilabile a quella che rinviene all’interno del consesso, la cui tutela è il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice in esame. La disposizione è infatti inserita nel capo IV del titolo XI del codice penale, “delitti contro l’assistenza familiare”.

È soltanto in un contesto dotato di questa caratteristiche, quindi, che può concretamente ipotizzarsi, ove si verifichino condotte lesive della dignità fisica o morale del soggetto passivo, con alterazione della funzione posta alla base del rapporto di lavoro, la consumazione del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p.

Sul piano strettamente normativo occorre poi ricordare che l’art. 572 c.p., include tra le potenziali vittime dei maltrattamenti anche i soggetti “sottoposti all’autorità dell’agente o al medesimo affidati per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”.

Il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al primo nei confronti del secondo (v. artt. 2086, 2106 e 2134 c.c.) sembra porre, inoltre, il dipendente nella condizione specificamente prevista dall’art. 572 c.p. quale persona sottoposta all’altrui autorità.

D’altra parte la disposizione di cui all’art. 572 c.p. non precisa il concetto di maltrattamenti ben potendosi far rientrare in tale ambito qualunque fatto che cagioni sofferenze fisiche o morali, comprese le condotte c.d. “mobbizzanti”, anche perché i maltrattamenti condividono con il mobbing la serialità e la sistematicità degli atti lesivi[6].

La fattispecie prevista dall’art. 572 c.p. sembrerebbe quindi essere quella che meglio si adatta alla realtà fenomenica del mobbing, ma tale soluzione ermeneutica, in realtà, non si rivela per nulla agevole, come è stato anticipato e la tutela penale, utilizzando la suddetta disposizione rischierebbe di essere irrimediabilmente parziale.

Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in ambito lavorativo non basta infatti che il soggetto attivo si trovi in una posizione di supremazia da cui derivi uno stato di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto agente nei confronti del soggetto subordinato, ma occorre anche che il rapporto lavorativo intercorrente tra soggetto attivo e soggetto passivo appaia assimilabile, per le ragioni sopra delineate, a quello di natura familiare.

È la verifica di questo secondo requisito che rischia di determinare gravi tensioni con i principi di legalità e determinatezza. Se infatti il concetto di “supremazia” di origine legale o contrattuale può essere definito agevolmente e, in particolare, può ravvisato nell’esistenza di poteri autoritativi esercitati dal soggetto agente sul dipendente vittima della condotta lesiva, ben più complessa risulta, all’atto pratico, l’esplicazione del concetto di “familiarità”.

Di questa circostanza ne ha piena contezza anche quella giurisprudenza (cfr. Cassazione Penale, Sez. 2, 16 febbraio 2018, n. 7639) che ha cercato di ancorare il concetto di “familiarità” a dati obiettivi e quantitativi, escludendo la sussistenza del reato nel caso in cui il teatro della vicenda mobbizante sia una realtà aziendale articolata e complessa, con un numero considerevole di lavoratori, dove non è obiettivamente ravvisabile una stretta ed intensa relazione tra datore di lavoro e dipendente.

Tuttavia, la comunanza di vita assimilabile a quella del consorzio familiare che si ravvisa certamente nella stretta relazione che può instaurarsi, ad esempio, tra tutor e apprendista, così come nell’ambito di un seminario, di un convivio o comunque, più in generale, di un contesto in cui possono aver luogo relazioni strette, intense, abituali, espressive del c.d. affidamento che connota i rapporti di educazione, istruzione, vigilanza, custodia o cura di cui all’art. 572 c.p., non sembra potersi riscontrare, di regola, nell’ordinario contesto lavorativo, anche quando la realtà aziendale si articoli in uno spazio limitato e sia composta da un numero ristretto di dipendenti.

La previsione di cui all’art. 572 c.p. tutela la dignità della persona da maltrattamenti commessi in un particolare contesto intersoggettivo (la famiglia/convivenza) sicché non basta per la configurabilità del reato in esame l’esistenza di una posizione sovraordinata del soggetto agente (di cui egli abusa in danno della vittima), ma occorre altresì che il reo assuma una posizione di garanzia dipendente dalla relazione familiare o di convivenza o comunque, più in generale dall’affidamento che la vittima ripone nel soggetto in questione e nei suoi doveri di tutela[7].

Da qui la necessità che la condotta si esplichi in un contesto di tipo familiare non ravvisabile ordinariamente nell’ambito dei rapporti di lavoro.

Né si può valorizzare, al fine di sostenere, comunque, la configurabilità del delitto di maltrattamenti in ambito lavorativo, il riferimento anch’esso contenuto nell’art. 572 c.p. alla persona “comunque convivente”. Fatta eccezione per i lavoratori domestici, infatti, anche la relazione di convivenza non sembra ipotizzabile tra il datore di lavoro ed i suoi dipendenti, né nel caso di un’impresa di ridotte dimensione, né quando, nel contesto aziendale, si intrattengano relazioni personali di natura confidenziale.

In definitiva, se si prescinde da una interpretazione rigorosa dei presupposti fattuali della “relazione familiare” o della “convivenza” che devono sussistere tra il reo e la vittima, al fine di integrare il delitto di cui all’art. 572 c.p., il precetto penale rischia di precipitare nella indeterminatezza, rendendo, così, imprevedibile il suo campo applicativo ed entrare in contrasto con quanto statuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sua più ampia ed avanzata concezione del principio di legalità (sub specie prevedibilità della pena), quale caposaldo imprescindibile del diritto penale contemporaneo.

Il riferimento ai rapporti “para familiari” utilizzato dalla giurisprudenza di legittimità per giustificare l’applicazione dell’art. 572 c.p. nei rapporti di lavoro rischia quindi di generare gravi disparità di trattamento, conseguenti alla elasticità di un concetto collegato a parametri come il numero dei lavoratori, le dimensioni dell’azienda o il grado di confidenzialità delle relazioni tra datore di lavoro e dipendenti, tutti elementi che non si prestano ad una oggettiva e uniforme applicazione in sede giudiziale e che rendono l’applicazione del precetto imprevedibile ed indeterminata.

3. Il mobbing ed il reato di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p.

Anche il reato di atti persecutori cui all’art. 612 bis c.p. è fattispecie alquanto prossima al fenomeno del mobbing in ambito lavorativo, trattandosi di un’ipotesi delittuosa comunque caratterizzata dalla abitualità di condotte persecutorie, idonee ad incutere uno stato di soggezione nella vittima, provocandole un disagio fisico o psichico.

Tale prossimità consente di ipotizzare la punibilità ai sensi dell’art. 612 bis c.p. delle condotte vessatorie realizzate in ambito lavorativo, purché esse siano reiterate e siano idonee a cagionare un perdurante stato di ansia o di paura nel lavoratore[8].

In presenza di reiterate minacce o molestie del datore di lavoro, che abbiano cagionato un perdurante e grave stato di ansia o di paura nel dipendente, o lo abbiano costretto a mutare le proprie abitudini di vita, deve ritenersi sicuramente integrata la fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p

Anzi, la configurazione dello stalking come reato comune e la mancanza di qualunque riferimento, all’interno della norma incriminatrice, ad un contesto familiare o affettivo, rendono tale fattispecie la più adatta, probabilmente, a punire le molestie perpetrate in ambito lavorativo, anche nei rapporti tra dipendenti pari-ordinati, tra i quali, cioè, non sussiste alcuna relazione di supremazia e di correlata subordinazione, ambito che, come visto, spesso rimarrebbe tagliato fuori dalla tutela penale, applicando le fattispecie sin qui esaminate.

È vero che il delitto di cui all’art. 612 bis c.p., a differenza dei maltrattamenti ex art. 572 c.p., è reato di evento che richiede, ai fini della sua consumazione, il realizzarsi di una delle conseguenze lesive previste dalla norma incriminatrice (un perdurante stato di ansia della vittima, il fondato timore per la propria o l’altrui incolumità o la costrizione ad alterare le abitudini di vita), ma ciò non sembra costituire un limite all’applicabilità della fattispecie, soprattutto alla luce dell’orientamento univocamente espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui non occorre l’accertamento di uno stato patologico nella vittima ai fini della configurazione del reato in esame, essendo sufficiente che gli atti persecutori abbiano prodotto un “effetto destabilizzante sulla serenità e sull’equilibrio psicologico della vittima”.

4. Conclusioni

Le considerazioni sin qui effettuate portano quindi a ritenere che il reato di atti persecutori ex art. 612 bis c.p., alla presenza di tutti gli elementi costitutivi richiesti dalla norma in esame ai fini della sua concreta configurabilità, così come ormai sembra essere affermato a più riprese dalla giurisprudenza della Suprema Corte, sia la fattispecie più idonea a fornire un’adeguata tutela penale al fenomeno del mobbing in ambito lavorativo, trattandosi della fattispecie che sembra garantire da un lato un maggiore rispetto dei principi di legalità, prevedibilità, tassatività e determinatezza, dall’altro, un’adeguata risposta sanzionatoria calibrata al grado di gravità della condotta mobizzante posta in essere dal soggetto agente (anche in ragione delle conseguenze prodotte all’interno della sfera giuridica della vittima), evitando, così, la “parcellizzazione” della condotta, anche in virtù del fatto che, come ricordato, i singoli atti vessatori potrebbero anche non detenere, se considerati singolarmente, rilevanza penale e questo rischierebbe di produrre inevitabili vuoti di tutela.

 

 

 

 

 


[1] Cass. 17/2/2009 n. 3785, Pres. Sciarelli Est. D’Agostino, in Orient. Giur. Lav. 2009, 115
[2] Coordinate ermeneutiche di diritto penale, V edizione 2021, M. Santise, F. Zunica, Torino.
[3] Cassazione Penale, Sez. V, 15 maggio 2013, n. 20993.
[4] Mobbing: le novità introdotte dalla giurisprudenza, di Fiorella Floridia, in Cammino Diritto, rivista giuridica.
[5] Cassazione Penale, Sez. 2, 16 febbraio 2018, n. 7639.
[6] Cassazione Penale, Sez. 2, 16 febbraio 2018, n. 7639.
[7] Mobbing e diritto penale: un difficile connubio?, M. Miglio, in Giurisprudenza Penale Web, 9 Luglio 2017 .
[8] Quando il mobbing sul lavoro integra il reato di stalking, commento a Cassazione Penale n.31273/2020 di Giuliano Libutti, in Cammino Diritto, rivista giuridica.

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