La rilevanza penale del “saluto fascista” nelle pubbliche manifestazioni
La rilevanza penale del “saluto fascista” nelle pubbliche manifestazioni.
Alcune riflessioni e la giurisprudenza di riferimento.
di Michele Di Salvo
Le Sezioni Unite penali della Corte di cassazione con la sentenza 16 aprile 2024, n. 16153 hanno dato risposta al seguente quesito: «Se la condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ e nel ‘saluto romano’, rituali evocativi della gestualità propria del disciolto partito fascista, sia sussumibile nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 2 del D.L. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella L. 25 giugno 1993, n. 205 ovvero in quella prevista dall’art. 5 della L. 20 giugno 1952, n. 645; se, inoltre, le due disposizioni configurino un reato di pericolo concreto o di pericolo astratto e se i due reati possano concorrere oppure le relative norme incriminatrici siano tra loro in rapporto di concorso apparente».
La soluzione. La condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ e nel cosiddetto ‘saluto romano’ integra il delitto previsto dall’art. 5L. 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. fin. Cost; tale condotta può integrare anche il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2, comma 1, D.L. n. 122 del 26 aprile 1993, convertito dalla L. 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del significativo contesto fattuale complessivo, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 604-bis, comma 2, c.p. (già art. 3L. 13 ottobre 1975, n. 654).
I precedenti. Il cd. “saluto romano” o “saluto fascista” (nella specie accompagnato dall’espressione “presenti e ne siamo fieri”) è una manifestazione esteriore propria od usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel D.L. 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, nella L. 25 giugno 1993, n. 205 (recante misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), ed inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall’art. 2 del citato decreto-legge. Cass. pen., Sez. I, 16/5/2019, n. 21409. Cass. pen., Sez. I, 17/6/2009, n. 25184
Il delitto di cui all’art. 5 della L. 20 giugno 1952, n. 645 (come modificato dall’art.11 della L. 22 maggio 1975, n. 152) è reato di pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascista in sé, attese le libertà garantite dall’art. 21 Cost., ma soltanto ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all’ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi. (Nella specie, relativa ad una cerimonia commemorativa di alcuni defunti militanti nella R.S.I. ed in formazioni politiche di destra in successive fasi storiche, la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza di merito che aveva escluso che l’impiego del “saluto romano”, l’intonazione della “chiamata del presente” e l’utilizzo della croce celtica avessero presentato alcuna concreta idoneità offensiva nel quadro di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma incriminatrice, essendo rivolte esclusivamente ai defunti in segno di omaggio ed umana pietà). Cass. pen., Sez. I, 7/3/2017, n. 11038
Il delitto di cui all’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645 (come modificato dall’art.11 della legge 22 maggio 1975, n. 152) è reato di pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascista in sé, attese le libertà garantite dall’art. 21 Cost., ma soltanto quelle manifestazioni che determinino il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all’ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi. Cass. pen., Sez. V, 16/8/2019, n. 36162
Il “saluto romano” e l’intonazione del coro “presente” durante una manifestazione integrano il reato i cui all’art. 5 della L. 20 giugno 1952, n. 645 (come modificato dall’art.11 della L. 22 maggio 1975, n. 152) per la connotazione di pubblicità che qualifica tali espressioni esteriori, evocative del disciolto partito fascista, contrassegnandone l’idoneità lesiva per l’ordinamento democratico ed i valori ad esso sottesi. (Nella specie, relativa ad un incontro in memoria delle vittime delle Foibe, la Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 5L. n. 645/1952 per la perdurante attualità dell’esigenza di tutela delle istituzioni democratiche, atta a legittimare limitazioni alla libertà di espressione, secondo quanto previsto anche dall’art. 10 della Convenzione Europea per i Diritti Umani). Cass. pen., Sez. I, 12/9/2014, n. 37577
Il caso e la questione di diritto (sentenza 16 aprile 2024, n. 16153). In occasione di una pubblica riunione organizzata in Milano il 29 aprile 2016 nei giardini antistanti la chiesa di S. Nereo e Achilleo in memoria di Enrico Pedenovi, Sergio Ramelli e Carlo Bersani (il primo consigliere provinciale del Movimento sociale italiano, ucciso nel 1976, il secondo, giovane militante del Fronte della Gioventù, ucciso nel 1975, il terzo, militante della Repubblica Sociale Italiana, ucciso nel 1945), si erano date convegno circa 1200 persone che, all’invocazione, da parte di uno degli imputati, del “camerata Sergio Ramelli” e alla formulazione per tre volte della chiamata del “presente”, avevano coralmente risposto: “presente” accompagnando la risposta con il “saluto romano”.
Tratti a giudizio per rispondere del reato di cui agli artt. 110 c.p., 2, comma 1, D.L. n. 122/1993, conv. con modificazioni dalla L. n. 205/1993, gli imputati erano stati assolti perché il fatto non costituisce reato.
A seguito di impugnazione del pubblico ministero, la Corte di appello li aveva invece ritenuti responsabili del reato loro ascritto e condannati.
Investita del ricorso per cassazione degli imputati (che, tra l’altro, avevano dedotto l’erronea applicazione dell’art. 2D.L. n. 122/1993, laddove il fatto avrebbe dovuto, in tesi difensiva, essere qualificato ai sensi dell’art. 5L. n. 645/1952), la Prima Sezione penale aveva rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alle questioni poste e, con ordinanza del 6 settembre 2023, aveva rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.
La giurisprudenza precedente. Secondo un primo orientamento il “saluto romano” integra il reato di pericolo astratto di cui all’art. 2D.L. n. 122/1993, trattandosi di una manifestazione esteriore che costituisce rappresentazione tipica delle organizzazioni o dei gruppi inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico. Secondo questo orientamento, la condotta, rievocando l’ideologia fascista e i valori della discriminazione razziale e dell’intolleranza, farebbe assumere alla norma una funzione di tutela preventiva del bene giuridico protetto.
Un secondo orientamento ravvisa nel “saluto romano”, gesto evocativo del disciolto partito fascista, la violazione dell’art. 5, L. n. 645/1952 (cd. legge Scelba), a condizione che, trattandosi di reato di pericolo concreto, la condotta sia idonea a determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste in relazione al momento e all’ambiente in cui è compiuta.
Inoltre, secondo alcune pronunce, il rapporto tra le due norme è regolato dal principio di specialità, che osta al concorso formale; secondo altre, invece, i due reati possono concorrere perché caratterizzati da un diverso ambito applicativo.
Con decreto del 3 ottobre 2023, la Prima Presidente aveva assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali fissando per la trattazione l’udienza camerale del 18 gennaio 2024.
La decisione delle Sezioni Unite. Le Sezioni Unite aderiscono al secondo orientamento e ritengono possibile il concorso formale.
La sentenza si sofferma, in primo luogo, sui tratti distintivi dei reati rispettivamente disciplinati dalle due norme e sui rapporti tra le stesse intercorrenti.
Identica è la condotta materiale che, in entrambi i casi, consiste nel compimento di manifestazioni tenute partecipando a pubbliche riunioni, distinguendosi in virtù del diverso contenuto delle stesse, individuate, nell’art. 5L. n. 645/1952, in quelle usuali del «disciolto partito fascista» di cui alla XII disp. trans. fin. Cost., e, nell’art. 2D.L. n. 122/1993, in forza del richiamo all’art. 3, L. n. 654/1975, in quelle proprie od usuali dei «movimenti, gruppi, associazioni aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza».
Pur nell’identità delle manifestazioni esteriori, la diversa natura delle entità cui sono riferibili riflette la diversità dei beni giuridici.
Quanto al reato di cui all’art. 5L. n. 645/1952, caratterizzato, annotano le Sezioni Unite, quale reato “di pericolo concreto”, il bene giuridico leso dalle condotte, qualificate dalla dottrina come di “esibizionismo fascista”, non può non essere strettamente correlato alla stessa ragione storica e “costituzionale” della introduzione della norma, contenuta in una legge significativamente intitolata «norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione», ossia di quella disposizione che vieta la «riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Di qui la necessaria conseguenza per la quale il bene giuridico deve essere identificato nell’”ordinamento democratico” o, meglio ancora, “costituzionale”, cui viene apprestata una tutela anticipata in relazione a manifestazioni che, in connessione con la natura pubblica delle stesse, espressamente richiesta dalla norma, possono essere tali da indurre alla ricostituzione di un partito che, per la sua ideologia antidemocratica, e per espressa previsione appena sopra richiamata, contenuta nella stessa Carta del 1948 (XII, disp. trans. fin. Cost.), è contraria all’assetto costituzionale.
Trattandosi di norma direttamente attuativa di un divieto contenuto nella Costituzione, non può dubitarsi della sua conciliabilità con il principio della libera manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost., purché le condotte siano “coniugate” con elementi modali e spaziali (ossia lo svolgimento in “pubbliche riunioni”) idonei «a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste» (Corte cost., sent. n. 74/1958).
In tale ottica, osservano le Sezioni Unite, l’integrazione della norma operata nel 1975 mediante l’inserimento delle «organizzazioni naziste» tra le organizzazioni le cui manifestazioni rilevano penalmente, al pari del «disciolto partito fascista», non consentirebbe di giungere, sol per questo, a diverse conclusioni, tenuto conto del riferimento, anche in tal caso, ad una ideologia ugualmente storicamente definita e parimenti platealmente incompatibile con i valori democratici e costituzionali, omologa, su tale piano, a quella fascista.
Non viene, dunque, in rilievo la tutela del mero “ordine pubblico materiale” bensì, la stessa tavola dei valori costituzionali e democratici fondativi della Repubblica, efficacemente riassumibili nel bene dell'”ordine pubblico democratico o costituzionale”, posto in pericolo, a fronte dell’elemento modale – spaziale indicato dalla norma, da possibili consensi o reazioni a tali manifestazioni atti a turbare, anche ma non solo, la civile convivenza.
La necessità del mantenimento nell’alveo dei principi costituzionali della lettura dell’art. 5L. n. 645/1952 comporta, simmetricamente, la individuazione come concreta della natura del pericolo del reato.
È la stessa funzione “ancillare” della norma rispetto ad una precisa disposizione costituzionale che rivela l’oggetto del pericolo che si vuole contrastare (ovvero la ricostituzione del disciolto partito fascista) e, allo stesso tempo, per conseguente necessità di considerare i limiti intrinseci del bilanciamento con altri valori costituzionali, la natura non astratta bensì concreta dello stesso. In altre parole, la necessità per il giudice di «appurare se, alla luce delle specifiche circostanze, sussista una seria probabilità di verificazione del danno» (così, testualmente, Corte cost., sent. n. 139/2023, quanto ai reati di pericolo concreto) non può non discendere dalla necessaria considerazione di un tale bilanciamento.
Diverso è, invece, il bene giuridico tutelato dall’art. 2D.L. n. 122/1993, volto a contrastare, anche in tal caso su un piano anticipato, la diffusione delle idee discriminatorie o di atti di violenza per ragioni (espressamente riassunte nell’art. 3L. n. 654/1975, cui l’art. 2 fa richiamo attraverso il significativo riferimento ad entità collettive che a tali idee si riferiscono) razziali, etniche, nazionali o religiose.
Pur non potendosi far riferimento alla XII disp. trans. fin. Cost., è tuttavia innegabile, osservano le Sezioni Unite, che, anche in tal caso, non possa prescindersi dalla individuazione di principi costituzionali la cui offesa, in una chiave di selezione del bene giuridico propria di un diritto penale moderno, deve segnalare la “giustificazione” della scelta incriminatrice del legislatore.
È la necessaria coniugazione delle pubbliche manifestazioni con il contenuto delle stesse, evocante ideologie di tipo discriminatorio specificamente emergenti dalla norma e proprie od usuali di entità collettive, a dare vita ad un bene giuridico di tipo “composito”.
È questa la ragione per la quale a venire in rilievo è la necessità di scongiurare il pericolo della lesione ai beni fondamentali, costituzionalmente protetti dagli artt. 2 e 3 Cost., della dignità ed eguaglianza della persona.
Se ne trae conferma – affermano le Sezioni Unite – nella collocazione sistematica dell’art. 604-bis c.p. (il cui secondo comma riproduce esattamente il primo comma dell’art. 3L. n. 654/1975), inserito, per effetto della cd. “riserva di codice” di cui al D.Lgs. 1/3/2018, n. 21, tra i «delitti contro la persona» di cui al titolo XII del Codice penale, al cui interno è stata creata una nuova Sezione denominata «delitti contro l’eguaglianza».
In definitiva, la individuazione del bene tutelato non può che avvenire mediante il ricorso al “filtro” del piano costituzionale, punto costante di riferimento in una chiave interpretativa che, ammoniscono le Sezioni Unite, sempre deve conformarsi al principio di offensività; e in un quadro di comune sfondo, derivante dai connotati democratici della Repubblica italiana, se, nel caso dell’art. 5L. n. 645/1952, rileva la necessità di preservare l’ordinamento da condotte che ne pongano precipuamente in pericolo i fondamenti anche istituzionali, nel caso dell’art. 2D.L. n. 122/1993 emerge la necessità di evitare la disgregazione dei valori di solidarietà, dignità ed eguaglianza di tutti i consociati.
Quanto alla natura del pericolo che caratterizza il reato, per le Sezioni Unite assume uno specifico rilievo il fatto che il reato di cui all’art. 2 cit., plasmato sulle condotte di manifestazioni tenute in pubbliche riunioni, pur possedendo la stessa struttura morfologica del reato di cui all’art. 5L. n. 645/1952, si differenzia da questo per il diverso contenuto evocativo di dette manifestazioni e per il collegamento dello stesso con le «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi» di cui all’art. 3L. n. 654/1975.
Tale ultimo elemento assume un rilievo particolare ove si tratti, evidentemente, di considerare il grado di pericolosità da attribuire alla condotta, la cui capacità di “contagio” o diffusione delle idee contrastanti con i valori sanciti dagli artt. 2 e 3 Cost. assume una consistenza proporzionalmente collegata all’esistenza attuale di detti agglomerati.
Da ciò deriva che, in tal caso, la valutazione del pericolo, che si esaurisce all’interno della fattispecie astratta, risulta già fatta, a priori, dal legislatore, spettando invece al giudice, secondo il “meccanismo” di funzionamento proprio della presunzione, il compito di verificare, nell’analisi della fattispecie, elementi di fatto capaci di dimostrane, in concreto, l’assenza. Una tale conclusione non rischia, a giudizio delle Sezioni Unite, di provocare “soglie di frattura” con principi costituzionali, posto che neppure il “pericolo presunto” può andare esente dalla necessità di provarne il “grado di resistenza” al principio di offensività. Non pare dubbio che, considerando la dimensione del bene giuridico tutelato, la natura pur solo presuntiva del pericolo preso in considerazione dall’art. 2 D.L. n. 122/2023 mantenga una precisa ed innegabile giustificazione.
Tanto premesso, le Sezioni Unite escludono che tra le due norme vi sia un rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p., dovendosi intendere per tale solo il rapporto di “specialità unilaterale” giacché le altre tipologie di relazioni tra norme, quali la “specialità reciproca” o “bilaterale”, non evidenziano alcun rapporto di genus ad speciem, laddove i criteri di “sussidiarietà”, “assorbimento” e “consunzione” sono suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti e sono estranei all’unico criterio legale previsto: quello di specialità positivizzato dall’art. 15 c.p.
Le Sezioni Unite, peraltro, ribadiscono l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità secondo il quale il criterio di specialità deve essere inteso in senso logico-formale: il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola relativa alla individuazione della disposizione prevalente, può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse.
Orbene, notano le Sezioni Unite, al nucleo comune di “manifestazioni tenute in pubbliche riunioni”, si aggiunge, in ognuna delle due fattispecie, l’elemento differenziante del loro contenuto, rilevante già sul piano astratto giacché, se nell’art. 5L. n. 645/1952 le manifestazioni devono essere quelle «usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste», nell’art. 2D.L. n. 122/1993 le manifestazioni sono quelle esteriori, proprie ed usuali «delle organizzazioni, movimenti o gruppi di cui all’articolo 3 della L. 13 ottobre 1975, n. 654». Sicché, atteso l’inequivocabile diverso significato di tali manifestazioni, discendente dalla stessa “diversità genetica” degli enti, appare, semmai, ricorrere tra le norme in oggetto un rapporto di “specialità bilaterale” che, per quanto sopra detto, deve ritenersi estraneo alla previsione dell’art. 15 c.p., unicamente espressivo della specialità “unilaterale”.
Escluso, dunque, il rapporto di specialità tra le due norme, le Sezioni Unite si sono poste il problema di configurare l’inquadramento giuridico del “saluto romano” nelle “manifestazioni” di cui all’art. 5L. n. 645/1952 o in quelle dell’art. 2D.L. n. 122/1993 o, eventualmente, e a determinate condizioni, in entrambe.
Il riferimento agli artt. 3 e 9 del regolamento del partito nazionale fascista (che disciplinava il saluto fascista) è sufficiente, per le Sezioni Unite, a collocare il “saluto romano” nell’alveo dell’art. 5, trattandosi di rituale immediatamente e notoriamente idoneo ad evocare, anzitutto, la “liturgia” delle adunanze fasciste.
Sicché, la “naturale” identificazione tra saluto romano da una parte e disciolto partito fascista dall’altro è da sola sufficiente ad integrare sul piano oggettivo, sempre e comunque, il reato di cui all’art. 5. Il giudice, però, deve accertare in concreto, alla stregua di una valutazione da effettuarsi complessivamente, la sussistenza degli elementi di fatto (esemplificativamente, tra gli altri, il contesto ambientale, la eventuale valenza simbolica del luogo di verificazione, il grado di immediata, o meno, ricollegabilità dello stesso contesto al periodo storico in oggetto e alla sua simbologia, il numero dei partecipanti, la ripetizione insistita dei gesti, ecc.) idonei a dare concretezza al pericolo di “emulazione” insito nel reato secondo i principi enunciati dalla Corte costituzionale.
Le Sezioni Unite non escludono, a questo punto, che il “saluto romano” possa integrare anche, a fronte di determinati presupposti, il reato di cui all’art. 2D.L. n. 122/1993, attesa la possibilità di considerare una tale condotta come evocativa, sempre in ragione del dato storico-sociale e del dato normativo ricavabile dall’art. 1, L. 20 giugno 1952, n. 645, anche di ideologie discriminatorie e razziali.
È necessario che il rituale evochi non le manifestazioni di tipo razziale o discriminatorio tout court, bensì le manifestazioni proprie od usuali delle «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi dell’articolo 3 della L. 13 ottobre 1975, n. 654». Il legislatore – sottolineano le Sezioni Unite – non sanziona direttamente le manifestazioni esteriori espressive di incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi ma esige che tali manifestazioni siano quelle proprie od usuali dei gruppi che tale incitamento pongono in essere, con l’ulteriore conseguenza della necessaria individuazione di tali gruppi da parte del giudice.
Al riguardo, le Sezioni Unite precisano che se, da un lato, tali associazioni, movimenti o gruppi, in quanto necessariamente espressivi della stessa ragione della natura presunta del pericolo, devono inevitabilmente essere operanti nell’attualità, dall’altro, non è neppure necessario un loro inquadramento in entità espressamente operanti sotto un nome, ovvero dotate di uno statuto, ovvero ancora articolate, al loro interno, attraverso ripartizioni di incarichi e mansioni, ben potendo trattarsi anche di aggregazioni di natura estemporanea, come desumibile dal tenore letterale dell’art. 604-bis c.p. (che fa riferimento a realtà strutturate, come «organizzazioni» e «associazioni», ma anche ad agglomerati più fluidi come «gruppi» e «movimenti»), sicché non appare necessaria, sulla base dello stesso dato normativo, una dimostrazione dei tempi e dei modi della costituzione di tali agglomerati, del resto incompatibile con la ratio della norma e la natura presunta del pericolo che caratterizza il reato.
Non può escludersi, affermano le Sezioni Unite, che la operatività di tali aggregazioni sia dimostrata proprio dalla condotta “collettiva” posta in essere senza che, dunque, sia necessario che, al fine di rispettare il principio di tassatività, il gruppo o la organizzazione in oggetto vadano identificati come previamente sorti rispetto alla manifestazione; gli scopi de «l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», richiesti dall’art. 3, ben potrebbero, infatti, emergere dallo stesso contenuto della manifestazione di cui all’art. 2D.L. n. 122/1993, concretamente rappresentativa di essi.
Infine, affinché il “saluto romano” tenuto nei contesti indicati dall’art. 5L. n. 645/1952 possa integrare anche il reato di cui all’art. 2D.L. n. 122/1993, è necessario che ad esso si accompagnino elementi, relativi al contesto complessivo in cui lo stesso sia tenuto, idonei ad attribuirgli non la sola funzione semplicemente evocativa del disciolto partito fascista – e, dunque, ove ricorrente il pericolo concreto richiesto, incitativa della sua ricostituzione – ma anche, a fronte del contesto materiale o dell’ambito nel quale la manifestazione ha luogo, il significato discriminatorio tipizzante il reato di cui all’art. 2 cit.
Ove il “saluto romano” non sia tenuto nello stretto ambito di un contesto chiaramente connotato (per le modalità e le finalità della riunione nonché per i simboli impiegati) dal riferimento a fatti direttamente o indirettamente ricollegabili all’ideologia fascista, il fatto ben potrebbe essere qualificato anche ai sensi del concorrente reato di cui all’art. 2 D.L. n. 122/1993 ove espressivo delle idee di intolleranza e discriminazione proprie, nell’attualità, degli agglomerati considerati dall’art. 3 L. n. 654/1975.
Di qui l’affermazione del principio di diritto sopra indicato in attuazione del quale le Sezioni Unite hanno qualificato il fatto ai sensi dell’art. 5L. n. 645/1952.
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