La rilevanza penale della coltivazione domestica di stupefacenti destinati ad uso esclusivamente personale
In tema di coltivazione domestica di stupefacenti giova, in via preliminare, segnalare l’indirizzo recepito dalla giurisprudenza della Sezioni Unite con la sentenza del 24 aprile 2008, n. 28605, all’indomani del contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità sul punto.
Le Sezioni Unite hanno, infatti, stabilito che “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso esclusivamente personale”, con l’unico limite del reato impossibile per inidoneità della condotta di cui all’art. 49 c.p., ravvisabile nelle ipotesi in cui le piante coltivate non consentano di ricavare sostanza stupefacente in grado di produrre alcun effetto drogante.
Alla base di tali conclusioni, vengono addotte da parte delle Corte varie argomentazioni.
In primo luogo, si fa notare come non sia individuabile un nesso di immediatezza tra la coltivazione e l’uso personale e sia conseguentemente impossibile determinare ex ante le potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione. Del resto, la distinzione tra “coltivazione in senso tecnico-agrario” e “coltivazione domestica” è arbitraria e comunque superata dal rilievo che qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato da un dato distintivo rispetto alla fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere la quantità di sostanza stupefacente esistente sul mercato, tale da meritare un trattamento sanzionatorio più grave.
Secondo la Corte, infatti, la condotta di coltivazione (punibile fin dal momento di messa a dimora dei semi) si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti (ossia la salute collettiva, la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché la salvaguardia delle giovani generazioni) e ciò quali che siano le caratteristiche della coltivazione e quale che sia il quantitativo di principio attivo ricavabile.
La pericolosità della condotta in questione è, pertanto, correlata alla valorizzazione del pericolo di spaccio derivante dalla capacità della coltivazione, attraverso l’aumento dei quantitativi di droga, di incrementare le occasioni di cessione della stessa e il mercato degli stupefacenti fuori del controllo delle autorità, oltre che al fatto in sé di contribuire ad accrescere (in qualunque entità) la quantità di sostanza stupefacente esistente e dare luogo a un processo produttivo astrattamente capace di “autoalimentarsi” attraverso la riproduzione dei vegetali.
Ebbene, nonostante la (astratta) rilevanza penale di qualsiasi condotta di coltivazione, rimane comunque necessario postulare, in ogni caso, una verifica del giudice di merito circa l’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata, dovendo il giudicante valutare, ai fini della punibilità della condotta posta in essere, l’idoneità della sostanza ricavabile dalla coltivazione a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.
Tuttavia, giurisprudenza successiva si è spinta leggermente oltre la predetta pronuncia delle Sezioni Unite del 2008 che considerano inoffensiva solo una condotta che non leda né metta in pericolo anche in grado minimo il bene tutelato.
Sulla scorta, infatti, di un ulteriore intervento della Cassazione (Cass., 17.02.2011, n. 351) – in base al quale “la coltivazione domestica di una piantina di canapa indiana contenente principio attivo pari a mg. 16, posta in un piccolo vaso sul terrazzo di casa, costituisce condotta inoffensiva ex art. 49 c.p., e non integra il reato di cui all’art. 73 d.p.r. 309/1990 – tale orientamento giurisprudenziale sostiene sia possibile concludere per l’inoffensività della condotta anche in presenza di coltivazione di stupefacenti aventi concreto effetto drogante, purché minimo.
La sentenza interviene su un tema, come già detto, sul quale si sono avvicendati orientamenti contrastanti nella giurisprudenza, anche di legittimità, che hanno portato nel 2008 al richiamato intervento della Corte a Sezioni Unite.
Peraltro, anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di intervenire sul tema (C. Cost., 443/1994 e 360/1995).
La questione ruotava attorno alla corretta interpretazione da darsi agli artt. 73 e 75 del T.U. stupefacenti; il primo comma dell’art. 73 punisce, infatti, le condotte di chi, senza autorizzazione, “coltiva, produce, fabbrica (…) sostanze stupefacenti o psicotrope”.
Colui che, invece, “…comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti psicotrope”, è punito solamente ove tali sostanze non appaiano destinate ad un uso esclusivamente personale, altrimenti tali condotte costituiscono meri illeciti amministrativi ai sensi dell’art. 75.
Ebbene, la coltivazione non rientrando tra le condotte di cui all’art. 73, c. 1-bis, risulterebbe sempre penalmente rilevante, a prescindere dalla destinazione (uso personale o spaccio) del prodotto ricavato.
La giurisprudenza prevalente – attenendosi ad un’interpretazione letterale della normativa – ritiene quindi in ogni caso punibile la coltivazione di piante stupefacenti, quand’anche risulti provata la destinazione ad uso personale degli stessi (in tal senso, Cass. SS.UU., 28605/2008, Di Salvia; Cass., sez. IV, 7.7.2011, n. 3130).
La ratio alla base di siffatta disciplina risiederebbe nella maggior offensività di una condotta che, pur se destinata all’uso personale, è comunque idonea a creare nuove disponibilità di droga sul territorio.
Sennonché, l’incriminazione della mera coltivazione di stupefacenti costituisce una notevole anticipazione della tutela penale, configurando – secondo le Sezioni Unite – un reato di “pericolo di pericolo”, ossia “del pericolo derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti”. La Suprema Corte osserva, tuttavia, come tale anticipazione sia giustificata dalle esigenze di “tutela della salute collettiva connesse alla valorizzazione del pericolo di spaccio” derivanti proprio dalla “capacità della coltivazione, attraverso l’aumento dei quantitativi di droga, di incrementare il mercato degli stupefacenti fuori del controllo dell’autorità”.
Peraltro, le Sezioni Unite hanno ritenuto arbitraria, poiché non legittimata dal dato letterale della norma, la distinzione tra coltivazione in senso tecnico-agrario e domestica.
La ragione di fondo alla base di interpretazioni della normativa che equiparano la “coltivazione domestica” alla detenzione potrebbe sintetizzarsi nella necessità di “escludere che un legislatore ragionevole possa prevedere pene elevate per la coltivazione di un numero circoscritto di piante di marijuana” per chi “coltivi la cannabis per uso personale”. Per una condotta, in definitiva, che pare avere un basso grado di offensività.
Proprio in relazione al profilo dell’offensività la sentenza n. 360/1995 della Corte Costituzionale aveva peraltro operato importanti precisazioni. Essa, infatti, pur respingendo l’equiparazione “coltivazione domestica – detenzione”, ed ammettendo che la coltivazione “costituisce reato anche quando sia realizzata per uso personale”, giunge comunque ad escludere la rilevanza penale della coltivazione “casalinga” di poche piante.
Tale soluzione passa attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa, sotto il profilo del rispetto del principio di offensività inteso come “criterio guida per l’interprete onde valutare la tipicità della condotta”. La Corte ritiene, infatti, che l’art. 73 del T.U. rispetti il principio di offensività “come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario”, perché la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti “ben può valutarsi come pericolosa (in astratto), ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga”. Tuttavia, chiarisce che quello dell’offensività specifica della singola condotta in concreta accertata, costituisce un diverso profilo, rispetto al quale il giudizio è devoluto al giudice ordinario. Infatti, la indispensabile connotazione di offensività in generale [della fattispecie astratta] implica di riflesso la necessità che anche in concreto l’offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente; quando, al contrario, la condotta sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta”, ed il giudice dovrà di conseguenza escludere la rilevanza penale del fatto.
Allo stesso modo, le richiamate Sezioni Unite e la successiva giurisprudenza di legittimità, richiamandosi a questa sentenza, hanno osservato che spetta comunque al giudice “verificare se la condotta di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva”.
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