La rilevanza penale della condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti
L’art. 73 del D.P.R. 309/90, al primo comma, punisce chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17 del medesimo decreto, coltiva piante dalle quali è possibile estrarre sostanze stupefacenti. Siffatta condotta conserva la propria illiceità penale indipendentemente dalla finalità cui è preposta, a differenza delle condotte di ricezione, acquisto e detenzione per le quali, l’odierna disciplina, adotta quale indice di rilevanza penale il criterio della destinazione della sostanza stupefacente, sicchè non è condotta penalmente punibile quella finalizzata all’uso personale e non alla cessione a terzi.
L’attuale assetto normativo è frutto del noto referendum abrogativo del 1993. Prima di allora il discrimen tra le condotte penalmente rilevanti e quelle sanzionate solo amministrativamente era affidato ad un criterio puramente oggettivo-quantitativo: la “dose media giornaliera”.
L’esito del referendum ha comportato l’abrogazione dell’inciso contenuto nel primo comma dell’art. 75 cit. che attribuiva rilevanza penale alla sola ricezione e detenzione di sostanza stupefacente in dose superiore a quella media giornaliera, pertanto la norma oggi punisce in via amministrativa “chiunque, per farne uso personale, illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope”. Le medesime condotte, invece, se poste in essere al fine di spaccio varcano la soglia del penalmente rilevante e soggiacciono alle sanzioni previste dall’art. 73 D.P.R. 309/90.
Il referendum abrogativo non ha riguardato la condotta di coltivazione, la quale conserva la propria illiceità penale a prescindere dal dato finalistico-teleologico per la quale è posta in essere. Ne consegue che se è possibile detenere sostanza stupefacente per uso personale, salve le sanzioni amministrative, è, invece, penalmente rilevante la coltivazione della pianta dalla quale si estrae la sostanza, anche se questa serve a produrne una quantità destinata al mero consumo.
Questa distinzione tra la condotta di coltivazione, sempre penalmente punita, e le altre condotte contigue al consumo di sostanze stupefacenti, per le quali assume rilevanza il criterio finalistico della destinazione ad uso di terzi, ha destato non poche perplessità sia in termini di irragionevolezza sia per il paventato contrasto con il principio di offensività. Un sospetto di illegittimità, per contrasto con l’art. 3 Cost. e violazione del principio di offensività, ben giustificato e al quale ha dato risposta la Corte Costituzionale con sentenza n. 360 del 1995.
Al fine di comprendere le conclusioni della Corte e la successiva dialettica ermeneutica occorre fornire qualche coordinata di carattere generale sul principio di offensività.
Mentre il principio di ragionevolezza, ex art. 3 Cost., è di più agevole e pronta comprensione, essendo quel principio in forza del quale il legislatore non può disciplinare in modo uguale fattispecie diverse e in modo diverso fattispecie identiche; il principio di offensività, il cui sostrato costituzionale si ricava dalla lettura di plurime norme (artt. 13, 25, secondo comma, 27, terzo comma , 21 Cost.), sconta una maggiore complessità ontologica, pertanto necessita di, seppur brevi, precisazioni.
Il principio di offensività subordina l’incriminazione e, dunque, la sanzione penale all’offesa del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, tanto nella forma della lesione, quale nocumento effettivo, quanto nella forma di esposizione a pericolo, quale nocumento potenziale. Il principio in esame, nella sua accezione astratta, si rivolge al legislatore, impedendogli di incriminare atteggiamenti interiori, mere condotte di vita o semplici opinioni e funge da parametro di controllo di legittimità costituzionale della norma incriminatrice. Ciononostante non preclude al legislatore di ricorrere a presunzioni, purché trovino conferma nell’id quod plerumque accidit. Una presunzione smentita dall’osservazione di ciò che normalmente accade è una presunzione irragionevole, che viola il principio di offensività in astratto e che, pertanto, deve essere dichiarata incostituzionale.
Diverso è il caso in cui la presunzione di cui si avvale il legislatore, seppure ragionevole in astratto, nel caso concreto non rispecchia la realtà dei fatti. In tal caso la norma, ossequiosa del principio di offensività in astratto, pone il problema della verifica dell’offensività in concreto, valutazione questa rimessa al giudice, il quale, nell’applicare la norma, deve espungere dal fatto tipico tutte quelle condotte che, sebbene corrispondenti alla descrizione compiuta dal legislatore risulteranno, date le particolari circostanze, inoffensive.
In altre parole, la sfasatura che in concreto può verificarsi tra ciò che normalmente accade – e il legislatore incrimina – e ciò che, nel singolo caso eccezionale, si verifica va risolta non caducando la norma, ma in sede applicativa. Sarà compito del giudice ritagliare i confini della tipicità lasciando fuori ciò che risulta concretamente inoffensivo
Nella sua accezione concreta, dunque, il principio di offensività funge da criterio ermeneutico indirizzato al giudice e non da parametro di legittimità costituzionale.
Applicate siffatte coordinate ermeneutiche, la Corte Costituzionale (n. 360 del 1995), investita della questione afferente la legittimità costituzionale dell’art. 73 D.P.R. 309 del 1990, l’ha dichiarata infondata.
In particolare, la Corte ha escluso il contrasto della disciplina in esame con l’art. 3 Cost. La diversità di trattamento tra le condotte di acquisto, detenzione et similia e la coltivazione ben si spiega tenuto conto del fatto che quest’ultima, a differenza delle prime, arricchisce la provvista di sostanza stupefacente esistente, essendo tra l’altro, impossibile determinare ex ante il quantitativo esatto di sostanza estraibile. Ad avviso della Corte non solo è rispettato il principio di ragionevolezza, atteso che il legislatore disciplina in modo diverso condotte ontologicamente distinte, ma anche il principio di offensività in astratto, in considerazione del fatto che la presunzione di pericolosità della condotta di coltivazione, compiuta dal legislatore, è ragionevole e aderente all’attualità dei tempi, attesa l’esigenza di presidiare il bene salute, sicuramente esposto a pericolo per effetto di condotte implicanti la produzione di nuova sostanza stupefacente. Ciononostante, precisa il Giudice delle Leggi, spetta comunque al giudice di merito valutare, in concreto, che la condotta sia idonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, dovendo in caso contrario escludere la tipicità della condotta e ritenerla non punibile.
Il principio espresso dalla Corte Costituzionale è chiaro, ma si innesta in una realtà fattuale che vede la coltivazione come un fenomeno dalle caratteristiche diversissime, che può interessare quantità minime o rilevanti, che ha uno sviluppo complesso, dai risultati incerti e non sempre prevedibili.
Ciò giustifica la dialettica ermeneutica successiva alla sentenza n. 360 del 1995.
In particolare, tre sono state le tesi giurisprudenziali emerse di cui occorre dare atto:
per un primo e più rigoroso orientamento, valorizzando il dato letterale dell’art.73 cit., la coltivazione costituisce reato a prescindere da fattori qualitativi, come il grado di tossicità, quantitativi, come il numero di piantine, e dalla destinazione della sostanza, se ad uso personale o finalizzata alla cessione a terzi.
Tale assunto, però, contraddice in radice le conclusione raggiunge dalla Corte Costituzionale nel 1995, laddove rimette al giudice di merito il compito di valutare in concreto l’offensività della condotta;
più coerente con le conclusioni rassegnate dalla Corte Costituzionale è la tesi sostenuta da altro orientamento, secondo cui va esclusa la realizzazione del delitto in presenza di un dato quantitativo estramemente ridotto;
un terzo orientamento, infine, prese a distinguere due forme di coltivazione:
la coltura cd domestica, effettuata in via approssimativa e rudimentale, funzionale alla produzione di un ridotto quantitativo destinata al consumo personale e, pertanto, equiparabile, sul piano del trattamento penale, alla mera detenzione;
la coltura cd tecnico-agraria, caratterizzata da un elevato coefficiente organizzativo, desumibile dal tipo di coltivazione, dalla semina, dalla disponibilità di attrezzi e strutture tali da far presagire un approccio imprenditoriale nella coltivazione, punibile a prescindere dal dato teleologico. Non si può non notare come quest’ultima impostazione dogmatica, finalizzata ad espungere dall’area del penalmente rilevante i coltivatori occasionali, trascende il dato letterale della norma, che non distingue diverse ipotesi di coltivazione, ma le considera tutte integranti reato, indifferenti essendo le modalità di semina o l’organizzazione di chi coltiva.
A dirimere il contrasto giurisprudenziale sono intervenute due sentenze gemelle del 2008, con cui la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha affermato il principio secondo cui: “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostante stupefanti, anche quando sia realizzata per la destinazione ad uso personale”. Le Sezioni Unite, avendo fatto propri gli argomenti già sostenuti dalla Corte Costituzionale 360/1995, hanno ribadito che la condotta di coltivazione integra reato indipendentemente dal modus operandi del coltivatore e dal quantitativo di principio attivo estraibile. È assolutamente arbitraria e non supportata dal dato letterale la distinzione tra coltivazione domestica e tecnico-agraria, in considerazione del fatto che, in ogni caso, la coltivazione per sua intrinseca natura contribuisce ad accrescere il quantitativo di sostanza stupefacente esistente sul mercato e ciò vale a distinguerla dalla condotta di mera detenzione o acquisto.
Le Sezioni Unite nel 2008, pertanto, concludono nel senso della rilevanza penale della condotta di coltivazione, anche se ad uso personale, ma, sensibili al principio di offensività, rimettono al giudice di merito la valutazione, in concreto, dell’eventuale inoffensività della condotta.
Sennonché nel 2015, il tema in esame si ripropone all’attenzione della Corte Costituzionale data l’ordinanza di rimessione proposta dalla Corte di Appello di Brescia il 10 marzo 2015 sulla questione di legittimità costituzionale, stavolta, dell’art. 75 D.P.R. n. 309/90, nella parte in cui esclude tra le condotte suscettibili di sola sanzione amministrativa, qualora finalizzate al solo uso personale dello stupefacente, la condotta di coltivazione, in relazione ai principi di ragionevolezza, di uguaglianza e di offensività, quali ricavabili dagli artt. 3, 13, comma secondo, 25, comma secondo, 27, comma terzo, Cost.
In particolare, la Corte di Appello di Brescia richiama un precedente orientamento seguito dalle Sezioni Unite nel 1998 secondo cui l’oggettività giuridica presidiata dalla norma che incrimina la coltivazione ad uso personale è la salute pubblica, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica, messe a repentaglio dalla circolazione della sostanza stupefacente; sicchè la condotta che si esaurisce in un perimetro spaziale circoscritto, tale per cui la sostanza non circola (e non può circolare se il soggetto, ad esempio, coltiva e consuma all’interno della propria abitazione), non è penalmente rilevante.
Queste considerazioni non hanno convinto la Corte Costituzionale che con sentenza 109 del 2016 ha dichiarato infondata la questione.
In particolare, la Corte ribadisce che la norma in questione è coerente con il principio di offensività in astratto, tenuto conto del fatto che la condotta di coltivazione, anche ad uso personale, è idonea per le ragioni suesposte a mettere in pericolo il bene giuridico presidiato dalla norma incriminatrice. Questo, precisa la Corte, non è la salute pubblica, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica, come erroneamente supposto dalla Corte d’Appello, ma più genericamente il bene “salute”. Affrontata la questione nella prospettiva della cd. offensività in astratto, la sentenza si chiude con un prevedibile richiamo al canone dell’offensività in concreto, che convoca il giudice, al momento dell’applicazione della norma, a verificare se la singola condotta di coltivazione non autorizzata, contestata all’agente, risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto dalla fattispecie incriminatrice con conseguente esclusione della punibilità dell’imputato. Nel condurre siffatta verifica la Corte pare fornire ai giudici di merito due direttrici:
la prima è la figura del reato impossibile, di cui all’art. 49, secondo comma, cod. pen., in forza del quale “la punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”;
la seconda è il riconoscimento del difetto di tipicità della condotta di coltivazione oggetto di giudizio.
L’adesione all’una o all’altra opzione non è priva di conseguenze pratiche.
Rinvenire nella figura del reato impossibile il rimedio al difetto di offensività in concreto consegna al giudice uno strumento per superare la tipizzazione legislativa e concludere per l’inesistenza del reato tutte quelle volte in cui la condotta, pur se tipica, antigiuridica e colpevole, risulti essere in concreto inoffensiva, come se l’offensività fosse un elemento aggiuntivo del reato. Detto diversamente, il giudice potrebbe concludere nel senso che il fatto è tipico ma è inoffensivo e pertanto non punibile, alla luce di una valutazione di offensività che smentisce quella di tipicità compiuta a monte dal Legislatore.
Di tutta evidenza la criticità di siffatto orientamento che si pone in netto contrasto con i principi di diritto che regolano i rapporti tra legalità e valutazione giudiziaria. Il giudice, per definizione, non si erge a ultimo baluardo tra la tipicità e la pena, ma è chiamato ad applicare quanto previsto dal Legislatore. E quanto previsto dal Legislatore penale è già concretamente offensivo.
A contrario, ciò che è concretamente inoffensivo non è tipico. Ne consegue che il giudice, chiamato ad effettuare la verifica di offensività in concreto, qualora accerti che la condotta non abbia raggiunto una soglia di offensività tale da meritare la pena dovrà concludere nel senso che il fatto realizzatosi non corrisponde al tipo legale.
Nonostante appare questo l’orientamento più coerente con i principi di legalità e separazione dei poteri, la giurisprudenza di legittimità successiva alla pronuncia della Corte Costituzionale ha preso a dividersi.
Su un primo fronte è emerso l’orientamento (Cassazione n. 3037 del 2016) secondo cui l’offensività in concreto della condotta “consiste nella sua idoneità a produrre sostanza per il consumo (…) sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente”.
Altra parte della giurisprudenza di legittimità, invece, ritiene che la condotta di coltivazione deve ritenersi inoffensiva quando dimostri “una tale lievità da essere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità di droga e non prospettabile alcuna ulteriore diffusione della sostanza. Ovvero, a fronte della realizzazione della condotta tipica, che è la coltivazione della pianta conforme al tipo botanico e che abbia, se matura, raggiunto la soglia di capacità drogante minima, il giudice potrà e dovrà valutare se la condotta stessa sia del tutto inidonea alla realizzazione dell’offensività in concreto. L’ambito di tale inoffensività è, ragionevolmente, quello del conclamato uso esclusivamente personale e della minima entità della coltivazione tale da escludere la possibile diffusione della sostanza producibile e/o l’ampliamento della coltivazione”.
Insomma, una storia che si ripete e si ripropone in termini sostanzialmente analoghi; come se non fosse bastata la sentenza della Corte Cost. 360/95, le S.U. 2008, la Corte Cost. 109/2016.
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