La sanatoria dell’atto amministrativo invalido, con particolare riferimento all’art. 21-octies, c. 2 L. 241/1990
Prima di procedere alla disamina dell’atto amministrativo invalido, è utile tratteggiare la categoria dell’invalidità del provvedimento amministrativo.
In via generale, essa costituisce una difformità dell’atto dal diritto, del provvedimento dal paradigma normativo e determina una sanzione di inefficacia definitiva dell’atto stesso, sanzione che può essere automatica (es. nullità che opera di diritto) o può necessitare di apposita applicazione giudiziale (es. annullabilità che deriva da una decisione del G.A. su sollecitazione del privato ricorrente).
Tali forme di invalidità costituiscono una qualificazione negativa dell’atto, derivante dall’inosservanza delle norme giuridiche, con la differenza che, mentre l’atto nullo, in quanto invalido, è inefficace di diritto e considerato tamquam non esset, l’atto annullabile è, nella sua difformità delle norme di azione e non del potere, in ogni caso idoneo a produrre i propri effetti fin quando e solo se, su istanza di parte, non se ne dichiari, in via giudiziale l’illegittimità o, nel caso di attività amministrativa pura, non operi in via di autotutela la stessa p.a. rimuovendolo/ritirandolo.
Nel nostro ordinamento giuridico la categoria dell’invalidità del provvedimento amministrativo ha trovato una compiuta disciplina ad opera della legge n. 15 del 2005, la quale ha inserito nel corpo della legge n. 241/1990 il capo IV bis dedicato all’efficacia ed invalidità.
L’invalidità è categoria onnicomprensiva in cui sono sussumibili e i vizi di nullità e i vizi di annullabilità.
I primi sono tassativamente individuati nell’art. 21 septies della legge n. 241/1990, la quale prevede: la nullità strutturale, il difetto assoluto di attribuzioni (inteso sia come totale carenza della norma attributiva del potere che come incompetenza assoluta, ricorrente allorché l’autorità emanante appartenga ad un plesso di attività radicalmente diverso da quello in cui il legislatore ha individuato la competenza), e la nullità testuale e del provvedimento adottato in contrasto con un precedente giudicato.
I vizi di annullabilità, invece, sono, ex art. 21 octies legge n. 241/1990, quelli di: violazione di legge, incompetenza (relativa) ed eccesso di potere.
La prima è in realtà un’ipotesi residuale, atteso che tecnicamente la stessa incompetenza si risolve in un vizio di violazione della legge che distribuisce la competenza tra le diverse amministrazioni.
L’eccesso di potere è il vizio tipico dell’attività amministrativa discrezionale, attinente al merito della scelta e si sostanza nello sviamento del potere rispetto alla funzione e agli scopi generali per cui esso è stato attribuito.
L’art. 21 octies L. 241/90 riferisce l’annullabilità al provvedimento conclusivo, sul presupposto che gli atti endoprocedimentali, in quanto preparatori, non siano direttamente lesivi e quindi siano suscettibili di impugnativa solo in concomitanza col provvedimento finale.
Tanto chiarito, è ora necessario mettere in luce il diverso modo di atteggiarsi dell’invalidità nel diritto amministrativo e nel diritto civile.
Invero, nell’ordinamento amministrativo, la patologia dell’atto opera con un modello contrario, per cui l’annullabilità costituisce la regola, mentre la nullità costituisce l’eccezione.
Il regime di invalidità degli atti amministrativi si avvicina, più significativamente, a quello delle delibere assembleari (delle società di capitali e del condominio) di cui agli artt. 2377-2379 c.c. (la regola generale è rappresentata dall’annullabilità, la nullità è l’eccezione).
La ratio di tale meccanismo risiede nel fatto che nel diritto amministrativo l’esigenza prioritaria è quella di assicurare la stabilità dell’atto o del provvedimento, essendo inconcepibile che un vizio di un atto amministrativo, per quanto derivante da violazione di norme imperative, possa essere rilevato senza limiti temporali, se non addirittura d’ufficio.
Con l’effetto di rendere l’azione amministrativa perennemente precaria ed incerta e rimessa in discussione in ogni tempo.
Esigenze di intangibilità giurisdizionale richiedono, pertanto, che decorso un termine di decadenza, l’atto o il provvedimento – quale che sia, giusto o viziato – diventi stabile.
Delineata in generale la categoria dell’invalidità del provvedimento amministrativo, ci si sofferma ora sulla figura della sanatoria degli atti invalidi.
Si osserva che, a fronte di una causa di invalidità, la p.a. mantiene un potere di intervento sul provvedimento che ne risulti affetto.
A differenza degli atti nulli — ab origine non produttivi di effetti e quindi considerati generalmente non sanabili — gli atti illegittimi, e dunque annullabili, possono essere ritirati dalla p.a. (con un provvedimento di secondo grado ad esito eliminatorio) oppure, a certe condizioni, possono essere mantenuti in vita.
L’atto amministrativo può, infatti, essere ritenuto meritevole di una sua permanenza, pur in presenza di vizi inficianti, e in tal caso trovano applicazione le figure della convalida, della ratifica e della sanatoria in senso stretto, caratterizzate dalla rimozione del vizio che affligge il provvedimento (cosiddetta convalescenza dell’atto amministrativo).
L’atto amministrativo illegittimo può, altresì, conseguire la propria conservazione grazie ad un atto o un fatto che lo renda inattaccabile sul piano amministrativo e giurisdizionale, attraverso le figure della consolidazione per inoppugnabilità, dell’acquiescenza e della conversione (cosiddetta conservazione dell’atto amministrativo).
L’amministrazione, pertanto, prima di eliminare dal mondo giuridico un provvedimento viziato deve verificare la possibilità di adottare una misura conservativa.
La scelta del legislatore è stata quella di disciplinare espressamente — con l’art. 21 nonies, comma 2, della legge n. 241/1990 — la sola convalida.
Ciò non significa, tuttavia, che essa possa essere considerata l’unico strumento conservativo ammesso, atteso che per tutti i cennati istituti sussiste la medesima ratio.
A fondamento delle indicate ipotesi di riesame vi è l’autotutela della p.a., con cui la stessa risolve nel proprio ambito potenziali o attuali conflitti legati a provvedimenti amministrativi, effettuando un ripensamento critico della propria attività provvedimentale.
La giurisprudenza sul punto ha sottolineato che gli atti attraverso i quali si manifesta la cosiddetta convalescenza del provvedimento amministrativo (convalida, ratifica e sanatoria) hanno efficacia ex tunc.
Come detto, la sola ipotesi avente supporto normativo è la convalida di cui all’art. 21 nonies, comma 2, legge n. 241/1990, che consente alla P.A. di convalidare il provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.
Nella definizione tradizionale, la convalida è un provvedimento di secondo grado, a carattere costitutivo, inteso ad eliminare i vizi di legittimità di un atto precedente — altrimenti suscettibile di eliminazione — e proveniente dalla stessa autorità emanante o da un suo superiore gerarchico.
Secondo costante dottrina e giurisprudenza, la convalida non può avere ad oggetto vizi di particolare gravità, idonei ad inficiare il contenuto stesso del provvedimento originario.
Essa, collegandosi ad un atto precedentemente emanato e conservandone gli effetti anche nel tempo intermedio, è stata considerata tendenzialmente operante ex tunc; infatti il provvedimento di primo grado, oggetto di convalida, esce convalidato sin dall’origine
Diversamente da quanto avviene a seguito della convalida civilistica, ove il soggetto convalidante si vede definitivamente preclusa l’azione di annullamento, la convalida amministrativa non esclude la possibilità di successivo ritiro, da parte della p.a., dell’atto convalidato, per esigenze prioritarie di interesse pubblico. Ulteriore differenza con l’istituto civilistico di cui all’art. 1444 c.c. è che la convalida del provvedimento proviene dalla stessa parte che ha causato il vizio (la p.a.) e non dal soggetto al quale spetta l’azione di annullamento.
L’art. 21 nonies, comma 2, della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 15/2005, dispone che è fatta salva la possibilità di convalida a fronte di un provvedimento annullabile, in presenza di un interesse pubblico ed entro un termine ragionevole (si tratta, quindi, di un provvedimento discrezionale).
In tal modo, l’intento del legislatore è di consentire, in via generale, il mantenimento in vita di provvedimenti affetti soltanto da vizi di carattere formale.
Con riguardo all’ambito di applicazione della convalida, si osserva che essa, può riguardare soltanto atti: annullabili e non nulli (in quanto non si può mantenere in vita un atto che risulta tamquam non esset fin dall’inizio), che non siano stati precedentemente annullati (perché tale atto può essere solo rinnovato, non più convalidato), in relazione ai quali l’autorità abbia ancora il relativo potere di disporre (se il potere si è consumato, nulla può più l’autorità emanante) ed il cui vizio inficiante possa essere eliminato (il fenomeno può verificarsi nel caso di atti invalidi per vizi formali o di procedura o per incompetenza).
Generalmente ammesso, tra i poteri lato sensu sanatori, è anche quello di ratifica.
Essa, è un provvedimento di secondo grado, autonomo e costitutivo, con cui l’autorità competente fa proprio un precedente atto, adottato da un organo riconosciuto incompetente, eliminando il vizio di incompetenza relativa.
La ratifica si sostituisce all’atto viziato con effetto ex tunc.
Per poter spiegare efficacia sanante il procedimento de quo deve contenere la precisa menzione dell’atto e del vizio che si intende sanare e la chiara e univoca volontà di eliminarlo.
Si differenzia dalla convalida, di cui costituisce una variante tipica, solo per l’autorità che pone in essere l’atto (che non è la stessa autorità emanante) e per il vizio sanabile (che è solo quello di incompetenza relativa).
L’amministrazione ratifica legittimamente un provvedimento emanato da organo incompetente, anche se esso abbia prodotto una parte o tutti i suoi effetti, e ciò indipendentemente dall’eventuale impugnativa dell’atto viziato.
Altra ipotesi di convalescenza è la conferma, espressione utilizzata per indicare l’atto mediante quale l’amministrazione dichiara di mantenere fermo un precedente provvedimento, del quale venga chiesto il ritiro.
La conferma costituisce la manifestazione più intensa ed espressa della volontà della pubblica amministrazione di conservare un atto antecedente, senza alcuna correzione.
Tale ratio si salda, altresì, al generale principio di economicità dei mezzi giuridici.
La dottrina ha, però, da tempo rilevato la genericità della predetta accezione dell’istituto della conferma, che va correttamente reimpostata attraverso l’individuazione delle due diverse figure accomunate sotto tale nomen: quella dell’atto meramente confermativo (conferma impropria) e quella dell’atto ad effetti confermativi (conferma propria).
Tradizionalmente, l’atto meramente confermativo è definito come il rigetto di una irrituale istanza del privato — tendente ad ottenere il ritiro di un precedente atto — caratterizzato dal fatto che dall’atto di conferma non si possa trarre alcun argomento per ritenere che l’autorità abbia valutato il provvedimento precedente e le situazioni soggettive e oggettive che vi si connettono alla luce di nuovi motivi, di nuove considerazioni, tali, cioè, da costituire una novità rispetto a quelli assunti nel
provvedimento confermato.
La conferma impropria rappresenta la mera riaffermazione dell’esistenza del precedente provvedimento, manifestando solo una funzione ricognitiva, con fini rafforzativi.
Quindi, un atto accessivo che non sostituisce quello confermato, tanto che le vicende della conferma ed anche il suo venir meno non interferiscono con la vita e la validità del medesimo atto confermato.
In altri termini, non procedendosi, in questa ipotesi, ad alcun riesame, non si riscontra alcuna nuova ponderazione valutativa degli interessi e manca, dunque, la produzione di effetti innovativi.
L’atto ad effetti confermativi, invece, è una statuizione con cui l’autorità dichiara di volere tuttora, dopo aver riesaminato la situazione alla luce dei motivi addotti dal privato, la medesima regolamentazione espressa nel precedente provvedimento.
Trattasi, quindi, dell’atto conclusivo di un procedimento di riesame, che dispone, sostanzialmente, un’autonoma regolamentazione d’interessi, con effetti innovativi, seppur il dispositivo sia identico a quello del provvedimento riesaminato.
Ciò spiega l’impugnabilità autonoma dell’atto ad effetti confermativi, dal momento che esso produce un effetto che, seppur identico a quello preesistente, deve considerarsi nuovo perché nuovo ed autonomo ne è il titolo.
Ultimo caso di convalescenza dell’atto amministrativo è la sanatoria in senso stretto.
In senso lato, il termine sanatoria è spesso utilizzato per individuare, in via generale, i vari modi in cui possono essere eliminati i vizi di un atto amministrativo. Si ha sanatoria in senso stretto, invece, quando un atto endoprocedimentale, preparatorio, che doveva essere emanato prima della adozione del provvedimento ma è risultato mancante, viene acquisito successivamente, ora per allora, in modo da ovviare al precedente operato dell’amministrazione agente, rivelatosi non conforme alla legge.
Essa non costituisce un provvedimento nuovo ed autonomo, ma si identifica con l’atto che nel singolo caso è stato omesso.
La sanatoria è, quindi, il risultato di una operazione amministrativa volta a rimediare ad un precedente errore procedimentale.
Può aversi sanatoria solo per alcune categorie di atti (ed esempio: nulla osta, proposte, approvazioni, autorizzazioni) che non hanno direttamente influenza sul contenuto del provvedimento conclusivo; la stessa non è, invece, generalmente, considerata ammissibile per quegli atti istruttori astrattamente idonei a condizionare l’esito finale del procedimento (ed esempio: pareri, valutazioni tecniche, etc.), posto che la loro acquisizione può avere un senso solo se effettuata prima della decisione finale.
Chiarite le ipotesi di convalescenza dell’atto amministrativo, un cenno va fatto a quelle di conservazione.
Una species della conservazione è la consolidazione.
Si tratta di una causa di conservazione oggettiva dell’atto amministrativo, che dipende dal decorso del termine perentorio entro il quale l’interessato avrebbe potuto proporre ricorso contro l’atto invalido.
Trascorso tale termine, infatti, l’atto amministrativo diviene inoppugnabile e, pur restando invalido, non può essere più toccato ab externo; l’unico rimedio a fronte di tale atto rimane l’annullamento d’ufficio.
Altra species è l’acquiescienza, con ciò ci si riferisce ad una causa di conservazione soggettiva dell’atto amministrativo, che dipende da un comportamento con cui il soggetto privato, dimostrando con manifestazioni espresse o per fatti concludenti, di essere d’accordo con l’operato della p.a., si preclude la possibilità di impugnare l’atto amministrativo.
Requisiti dell’acquiescenza sono: l’esistenza di un provvedimento amministrativo venuto a conoscenza dell’interessato e l’accettazione del privato attraverso un comportamento non equivoco e spontaneo.
Infine, vi è la conversione – istituto di chiara matrice privatistica di cui all’art. 1424 c.c. – in cui trova espressione il principio di conservazione dell’atto amministrativo.
Esso, avendo riguardo alla volontà ipotetica della p.a., riconduce un atto invalido per difetto di taluni requisiti (non solo nullo, ma anche annullabile) in relazione ad una determinata categoria provvedimentale, nell’ambito di un’altra tipologia di provvedimenti, di cui possiede invece i requisiti di forma e sostanza.
Tanto chiarito sulla sanatoria dell’atto amministrativo invalido, resta ora da soffermarsi in particolare sull’art. 21 octies, comma 2, della legge n. 241/1990.
Ben vero, la prima parte della norma stabilisce che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Il meccanismo di cui all’art. 21 octies, dunque, consisterebbe in una vera e propria sanatoria o convalida ex lege realizzata dalla p.a. attraverso l’adozione di un provvedimento con un contenuto in concreto privo di alternative.
La norma connette alla correttezza sostanziale del provvedimento finale l’effetto sanante dell’illegittimità procedimentale, spostando l’accento dal procedimento al provvedimento.
L’art. 21octies, visto sotto questa ottica, spezzerebbe il meccanismo dell’invalidità derivata consentendo di far ritenere pienamente legittimo il provvedimento finale, qualora si dimostri che, in assenza del vizio, esso non avrebbe potuto avere un contenuto diverso.
Osservando la disposizione, si nota che tre sono gli aspetti non invalidanti.
Il primo elemento, relativo alla “violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti”, attiene ai profili estrinseci dell’atto, con esclusione delle formalità essenziali punite con la nullità di cui all’art. 21 septies.
Tra questi vi rientrano le norme che si occupano del contenuto formale dell’atto, ovvero preambolo, intestazione, motivazione, menzione di atti endoprocedimentali, indicazioni della data e luogo in cui viene emesso.
Pertanto, l’art. 3 legge n. 241/1990 relativo alla motivazione, rientra tra le ipotesi in esame, la p.a. sarà, dunque, onerata ad provare, in sede di giudizio, che la mancata esternazione della motivazione non ha influito sul risultato del procedimento.
Il secondo aspetto attiene alla “natura vincolata del provvedimento”.
Il provvedimento non si ritiene viziato, qualora la sua natura sia vincolata (si considera tale il provvedimento in cui la legge stabilisce che, in presenza di determinati presupposti la p.a. lo adotta senza operare scelte o valutazioni opinabili), ovvero non vi siano alternative giuridiche al procedimento stesso.
Tali provvedimenti si distinguono dagli atti discrezionali che qualora presentino dei vizi possono ritenersi annullabili, in ragione del fatto che, in quel caso, la forbice amministrativa è molto più ampia e pertanto deve essere correttamente motivata nel rispetto del principio di trasparenza.
Quanto all’ultimo aspetto relativo al “contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” si introduce nell’ordinamento amministrativo, un concetto noto nel panorama penale e qui trasmigrato, ovvero quello del b.a.r.d. di cui all’art. 533 c.p.p.
Il giudice è dunque chiamato ad accertare se la violazione abbia influito sul contenuto del provvedimento così inteso.
Questi sarà investito dell’onere di provare, oltre ogni ragionevole dubbio, che la decisione si sarebbe formata negli stessi termini sostanziali, di quelli che in concreto si sono realizzati, così non giustificandosi l’applicazione della misura dell’annullabilità del provvedimento.
Quanto alla seconda parte dell’art. 21 octies comma 2 si legge: “Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Il secondo periodo si pone in una posizione di specialità rispetto a quella che la precede, introducendo ulteriori situazioni di non annullabilità.
La prima parte della disposizione “Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento” impone all’interprete di concentrarsi sulla congiunzione “comunque”.
Il termine viene prontamente inserito per regolare i casi di sanatoria relativi agli atti discrezionali, in cui non sia stata data comunicazione dell’avvio del procedimento. La disposizione rispecchia a tutti gli effetti quanto già detto in ordine all’art. 21 octies, comma 2 prima parte, estendendo i casi di sanabilità anche ai provvedimenti discrezionali.
Risulterebbe un possibile squilibrio tra le disposizioni di cui all’art. 7 e quella dell’art. 21 octies, comma 2, in ragione del fatto che la prima si preoccupa di regolamentare la comunicazione di avvio del procedimento e l’art. 21 octies, comma 2, sembra invece depotenziarla.
Questa antitesi risulta, però, del tutto apparente, posto che la mancata comunicazione non assume carattere invalidante nell’ipotesi in cui la p.a. dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Ne consegue che l’art. 7 introduce la necessità di comunicazione, mentre l’art. 21 octies, chiarisce che la mancanza comunicazione non comporta l’annullabilità nel caso limite in cui l’esito del procedimento non avrebbe potuto essere diverso.
Da quanto sopra detto, si deduce che tra il primo ed il secondo periodo del comma 2, sussiste un rapporto di specialità reciproca: il primo specifica e circoscrive il settore di attività (quella vincolata) laddove il secondo è generale, estendendosi all’intera attività amministrativa; d’altra parte il primo è generale quanto ai vizi, procedimentali e formali, mentre il secondo in parte qua è speciale, limitando l’irrilevanza al solo vizio di mancata comunicazione di avvio del procedimento.
Esaurito l’ambito di operatività della norma in oggetto, resta ora da chiarire la sua natura giuridica.
Sul punto si sono delineate due teorie: quella processuale (basata sul dato letterale e testuale della norma, che presuppone in ogni caso l’illegittimità dell’atto) e quella sostanziale (secondo la quale si realizza a mezzo di tale norma una sorta di sanatoria nel meccanismo di fattispecie-effetto tipico delle orme sostanziali).
Secondo la giurisprudenza prevalente la norma avrebbe natura processuale, non incidendo sulla qualificazione dell’atto che resterebbe, pertanto illegittimo, sebbene non annullabile dal giudice.
Ad avviso della tesi in esame, l’istituto si limita a codificare quelle tendenze già emerse nella prassi mirate a valutare l’interesse a ricorrere, che viene negato ove il ricorrente non possa attendersi, dalla rinnovazione del procedimento, una decisione diversa da quella già adottata.
Si tratterebbe, dunque, di una sanatoria di tipo processuale, il cui fondamento risiede nel principio del raggiungimento dello scopo di cui all’art. 156, comma 3, c.p.c. (secondo cui la nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato).
Tale ricostruzione ha delle ricadute pratiche notevoli.
Infatti, se l’atto è annullabile nel processo amministrativo, ma resta illegittimo, allora è ancora annullabile ex art. 21 nonies, legge n. 241/1990, in via di autotutela dalla stessa p.a..
La teorie sostanziali, invece, ravvisano nell’art. 21 octies, comma 2, legge n. 241/1990 una fattispecie di sanatoria che si realizza mediante il consueto meccanismo fattispecie-effetto tipico delle norme sostanziali.
A fondamento della teoria si rimarca la collocazione topografica della norme della norma, la quale è inserita nel corpo della legge n. 241/1990 che è una legge sostanziale e non processuale.
La principale implicazione pratica della teoria sostanziale è che dovrebbe ritenersi inammissibile il potere di annullamento d’ufficio, poiché esso impatta solo su atti amministrativi illegittimi mentre qui la precedente illegittimità risulterebbe sanata.
Un ultimo aspetto da traguardare è quello relativo ai profili risarcitori del provvedimento non annullato.
Esclusa ogni rilevanza risarcitoria per la tesi sostanziale (se il provvedimento è sanato, dunque legittimo, nessun danno può derivarne), il risultato non è così scontato per la prevalente impostazione processuale.
La questione richiede una lettura congiunta degli artt. 30 e 34, comma 3, c.p.a, nonché dell’art. 2 bis co. 1 bis della legge n. 241/1990, tenendo a base del ragionamento quel fondamentale aspetto per cui il provvedimento, in assenza del vizio, non sarebbe stato diverso da quello in concreto adottato.
Le disposizioni richiamate sembrano suggerire la risarcibilità del danno derivante da violazioni formali.
L’art. 30 c.p.a ammette, invero, l’esperibilità dell’azione risarcitoria anche in via autonoma rispetto a quella caducatoria, con ciò implicando che l’annullamento del provvedimento non è presupposto indefettibile del risarcimento del danno derivante dalla sua illegittimità.
L’art. 34, comma 3, c.p.a. afferma il principio per cui, se l’annullamento non risulta più utile per il ricorrente, il giudice può nondimeno accertare l’illegittimità ai fini risarcitori, confermando l’interruzione della relazione di necessarietà tra annullamento e risarcimento.
Infine, l’art. 2 bis, comma 1 bis, legge n. 241/90 prevedendo l’indennizzabilità del danno da mero ritardo, suggerirebbe il principio per cui la P.A. è sempre tenuta a risarcire il danno conseguente a violazioni procedimentali poste in essere.
Alle luce di tali coordinate ermeneutiche, ne consegue che è ben possibile ipotizzare per il privato il diritto al risarcimento dei danni ex art. 30 c.p.a. (stante la la mancanza di pregiudizialità tra l’azione di annullamento e quella di risarcimento del danno) allorquando, a fronte di vizi non invalidanti del provvedimento amministrativo, questi abbia comunque patito dei danni.
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Fabio Toto
Ha conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza nel 2010, con la votazione di 105/110, presso l’Università Lumsa di Palermo, discutendo una tesi in materia di Diritto Commerciale.
Ottiene, nel 2012, il diploma di specializzazione per le professioni legali presso la Scuola di Specializzazione Lumsa di Palermo e parallelamente svolge il tirocinio presso gli Uffici Giudiziari del Palazzo di Giustizia di Palermo.
Per la preparazione teorica, ha frequentato corsi di formazione giuridica avanzata, tenuti da Consiglieri di Stato, approfondendo, in particolare, il diritto civile, penale ed amministrativo.
È iscritto all’albo del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo dal 2016 (Tess. n. 224/16).
In qualità di autore ha scritto per riviste scientifiche ed è cultore di istituzioni di diritto pubblico presso l’università degli studi di Palermo.
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