La Segnalazione certificata di inizio attività ed il c.d. annullamento “atecnico”

La Segnalazione certificata di inizio attività ed il c.d. annullamento “atecnico”

La Segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), è un atto privatistico che ha sostituito la vecchia Dichiarazione di inizio attività (DIA).

Prendendo il posto dei tradizionali modelli provvedimentali autorizzatori, la SCIA introduce un meccanismo teso a liberalizzare le attività economiche private, nel rispetto, chiaramente, della legge.

Più in particolare, ai sensi dell’art. 19 della legge 241/1990 (che si riferisce sia alla SCIA commerciale, che “edilizia”), si prevede che ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, è sostituito da una segnalazione di inizio attività dell’interessato.

L’elemento innovativo di tale istituto risiede dunque nell’assenza di un vero e proprio procedimento amministrativo.

La Pubblica Amministrazione non emana a monte alcun atto autorizzativo o di assenso, poichè questo è sostituito dalla segnalazione, atto soggettivamente ed oggettivamente privato. A partite dalla sua presentazione, è possibile iniziale l’attività.

Tale peculiare meccanismo induce taluno a ritenere che il privato, benché dialoghi con la Pubblica Amministrazione, sia titolare di una posizione giuridica diversa dal mero interesse legittimo. Invero, il bene della vita cui aspira non necessita dell’intermediazione del potere pubblico e dunque spetta al privato ex lege.

Un cenno va fatto all’ intenso dibattito dottrinale e giurisprudenziale sorto in merito alla natura della SCIA.

Tradizionalmente, a contendersi il campo erano due teorie.

La prima riteneva che la mancanza di una determinazione provvedimentale equivalesse ad un provvedimento tacito di assenso; la seconda qualificava la SCIA come un atto strettamente privatistico e, dunque, il “silenzio” della Pubblica Amministrazione, non aveva alcun valore provvedimentale.

L’accoglimento dell’una piuttosto che dell’altra teoria, aveva ripercussioni in punto di tutela giurisdizionale del terzo leso dalla SCIA: dando seguito alla prima impostazione, il terzo avrebbe potuto agire con l’impugnativa del provvedimento tacito; al contrario, la qualificazione della SCIA come atto privatistico, escludeva in radice la possibilità di un’impugnativa giurisdizionale.

L’Adunanza Plenaria, intervenuta in seguito sulla questione, qualificò espressamente la SCIA come atto privato.

Al fine di dirimere ogni resisuale dubbio, intervenne più tardi il legislatore, novellando, per mezzo del decreto legge 13 agosto 2011 n. 138, l’art. 19 l.241/1990, che al comma 6 ter esclude espressamente che la SCIA sia un provvedimento tacito autonomamente impugnabile.

Oggi dunque la SCIA è a tutti gli effetti un atto oggettivamente e soggettivamente privato.

E’ bene precisare che la SCIA non ha un campo di applicazione illimitato.

L’art. 19 riguarda invero materie soggette a provvedimenti autorizzatori a carattere essenzialmente vincolato (“l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge”), subordinati dunque al solo accertamento della sussistenza dei presupposti di legge.

Inoltre, è compito del privato dimostrare, mediante la presentazione della documentazione necessaria, la sussistenza di tutti requisiti richiesti dalla legge per lo svolgimento dell’attività interessata.

La SCIA viene applicata anche in ambito edilizio.

In particolare, a livello di normativa nazionale, l’art. 22 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 (TU sull’Edilizia) prevede un elenco tassativo di interventi edilizi realizzabili mediante la segnalazione certificata di inizio attività, facendo salva però la facoltà dell’interessato di chiedere il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione dei medesimi interventi.

A livello regionale invece, la SCIA è richiamata dalla Legge regionale Sicilia n. 16 del 2016 che, come noto, ai sensi dell’art. 1, ha operato un recepimento del DPR 380/01 sia dinamico, che statico in parte,  laddove è intervenuto con modifiche sull’articolato del TU Edilizia nazionale. L’art. 10 della predetta legge, in particolare, recepisce, con modifiche, proprio l’art. 22 del TU sull’Edilizia, e dunque, sottopone a SCIA alcuni interventi edilizi.

Benché, come si è detto, la SCIA sia un atto del privato, alla Pubblica amministrazione spettano comunque dei poteri di verifica e di controllo.

Ciò al fine di monitorare il corretto svolgimento dell’attività e, soprattutto, la non confliggenza con gli interessi pubblici.

A tal proposito, il comma 3 dell’art. 19 citato prevede un potere inibitorio/repressivo che l’amministrazione competente può esercitare in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti, nel termine di sessanta giorni (ridotto a trenta giorni in materia di SCIA edilizia ai sensi dell’art. 19 comma 6bis legge 241/1990) dal ricevimento della segnalazione, mediante adozione di motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa.

Qualora sia possibile conformare l’attività intrapresa e i suoi effetti alla normativa vigente, l’amministrazione competente, con atto motivato, invita il privato a provvedere, prescrivendo le misure necessarie con la fissazione di un termine non inferiore a trenta giorni per l’adozione di queste ultime. In difetto di adozione delle misure da parte del privato, decorso il suddetto termine, l’attività si intende vietata.

Il comma 4, così come novellato a seguito della Riforma Madia (Legge 124/2015), prevede invece che, spirato il termine di sessanta giorni, la Pubblica amministrazione può adottare comunque i provvedimenti inibitori/repressivi di cui al comma 3, nel rispetto tuttavia delle condizioni dell’art. 21 nonies l. 241/1990.

Tale norma permette dunque di esercitare “tardivamente” i poteri inibitori/repressivi (dopo i sessanta giorni o i trenta giorni nel caso di SCIA edilizia).

La ratio di tale previsione risiede probabilmente nell’esigenza di consentire un ulteriore controllo dell’amministrazione laddove l’attività, col passare del tempo, si riveli non più conforme alla legge.

La giurisprudenza parla a tal proposito di “autotutela impropria”, o di “annullamento atecnico” , o  ancora,  di “annullamento sui generis”.

Ebbene, per meglio comprendere il significato delle espressioni richiamate, occorre ricordare che l’autotutela (che comprende in sè tanto il potere di annullamento d’ufficio, quanto il potere di revoca dei provvedimenti) è il potere della pubblica amministrazione di ritornare sui propri atti e, se ricorrono i presupposti, di ritirarli o annullarli.

Si tratta di una facoltà di “ripensamento”, di riesame, definita per tale motivo anche potere di “secondo grado”.

E’ funzionale al buon andamento e all’efficienza della Pubblica Amministrazione, giacchè permette di perseguire costantemente l’interesse pubblico, anche ponendo nel nulla precedenti esternazioni.

Carattere prioritario dell’autotutela è la discrezionalità, vale a dire, il suo esercizio dipende esclusivamente da valutazioni di opportunità della Pubblica Amministrazione, salve le ipotesi di autotutela c.d. “doverosa”.

L’autotutela può avere esito demolitorio o conservativo.

I provvedimenti con esito demolitorio sono l’annullamento d’ufficio (art. 21 nonies l. 241/1990) e la revoca (art. 21 quinquies l. 241/1990).

L’annullamento d’ufficio in particolare, consiste nell’eliminazione, con effetto ex tunc, di un provvedimento amministrativo.

Per poter essercitare legittimamente tale potere, debbono tuttavia sussistere, ai sensi dell’art. 21 nonies, quattro presupposti: a) l’esistenza di un provvedimento illegittimo, b) un interesse pubblico prevalente alla sua rimozione, c) una previa ponderazione degli interessi in gioco, d) il rispetto di un  termine ragionevole non superiore a 12 mesi (la cui ratio risiede nella tutela dell’affidamento del privato).

Fatta questa premessa, in materia di SCIA si parla di annullamento atecnico o autotutela impropria proprio perchè manca il presupposto principale dell’annullamento d’ufficio, vale a dire l’esistenza di un provvedimento amministrativo.

Sembrerebbe dunque improprio utilizzare il termine “annullamento”.

La giurisprudenza, a tal proposito, ha definito tale potere, che non incide su un precedente provvedimento amministrativo, come “un atto di «primo grado» che deve, però, possedere i requisiti legittimanti l’atto di «secondo grado»” (Consiglio di Stato, sez. IV, 11.03.2022, n. 1737, T.A.R. Napoli, sez. IV, 14.05.2019,  n.2568).

Per ovviare all’apparente incompatibilità concettuale, la soluzione migliore è quella di interpretare l’art. 21 nonies, in maniera conforme alla disciplina sulla SCIA.

In particolare, l’illegittimità del provvedimento, andrebbe intesa in tal caso come “irregolarità” della SCIA per carenza dei presupposti formali e/o sostanziali.

Per quanto riguarda gli altri tre presupposti invece, la caducazione della SCIA sarà subordinata alla dimostrazione della sussistenza di un interesse pubblico prevalente; richiederà una previa  ponderazione degli interessi in gioco; dovrà rispettare un termine non superiore a 12 mesi dal momento della presentazione della segnalazione.

In definitiva, solo rispettando tali “condizioni” l’amministrazione potrà agire, ai sensi dell’art. 19 comma 4, con l’annullamento atecnico della SCIA irregolare.

Spirato anche il termine di 12 mesi, l’unica chance di mettere ancora in discussione la SCIA, si avrà nella sola ipotesi di presentazione di dichiarazioni non veritiere da parte del privato.

Invero, è principio indiscusso quello dell’irrilevanza del decorso del tempo in caso di dichiarazioni mendaci, non ravvisandosi, in tali ipotesi, alcun affidamento tutelabile.

In conclusione, la SCIA, pur rappresentando un atto privato rispondente ad una logica di  liberalizzazione, non rimane immune da ingerenze pubblicistihce.

Sarà sempre ravvisabile un potere di controllo, seppur successivo, dell’amministrazione, la quale, si ripete, può intervenire  in via ordinaria nel termine di sessanta (o trenta) giorni, o in via di autotutela “atecnica” nel termine di 12 mesi.

Per completezza si rileva che soggiace alla medesima disciplina (nonché alla medesima logica di liberalizzazione) la CILA (comunicazione di inizio lavori asseverata), prevista dall’art. 3 della legge regionale n. 16/2016 (che recepisce, con modifiche, l’art. 6 bis D.P.R. 380/2001).


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