La sentenza n. 40/2019 della Consulta e l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, c. 1, d.P.R. n. 309/1990
La Corte costituzionale, in data 8 marzo 2019, ha depositato la sentenza n. 40 del 2019 con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma primo, del Testo Unico Stupefacenti, nella parte in cui prevede come pena minima edittale la reclusione ad anni otto, anziché sei, per i casi “non lievi” di coltivazione, produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita, offerta o messa in vendita, cessione o ricezione, a qualsiasi titolo, distribuzione, commercio, acquisto, trasporto, esportazione, importazione, procacciamento ad altri, invio, passaggio o spedizione in transito, consegna per qualunque scopo o comunque di illecita detenzione, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17 e fuori dalle ipotesi previste dall’art. 75 (destinazione all’uso personale), di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’art. 14 dello stesso d.P.R. n. 309/1990.
L’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, nella sua formulazione originaria, differenziava il trattamento sanzionatorio dei reati aventi ad oggetto le droghe “pesanti” rispetto a quello dei reati aventi ad oggetto le droghe “leggere”. I primi erano puniti, al comma 1, con la reclusione da otto a venti anni (più multa), mentre i secondi, al comma 4, con la reclusione da due a sei anni (più multa). Per i fatti di “lieve entità”, il comma 5 dello stesso art. 73 stabiliva un’attenuante ad effetto speciale cosiddetta autonoma o indipendente, che puniva con la reclusione da uno a sei anni i fatti concernenti le droghe “pesanti” e con la reclusione da sei mesi a quattro anni quelli relativi alle droghe “leggere”. L’art. 4-bis del d.l. n. 272/2005, aveva eliminato dal testo dell’art. 73 T.U. Stupefacenti la distinzione fondata sul tipo di sostanza stupefacente, prevedendo la pena della reclusione da sei a venti anni (più multa) per i fatti non lievi e la pena della reclusione da uno a sei anni (più multa) per i casi in cui fosse applicabile l’attenuante del fatto di lieve entità. Con l’art. 2, comma 1, lettera a), del d. l. n. 146/2013, convertito, con modificazioni, nella legge n. 10/2014, la circostanza attenuante del fatto di lieve entità, di cui al comma 5, è stata trasformata in fattispecie autonoma di reato ed il limite edittale massimo della pena è stato ridotto da sei a cinque anni. Infine, il d.l. n. 36/2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 79/2014, tra l’altro, ha ulteriormente diminuito la pena massima edittale prevista per l’ipotesi di lieve entità, fissandola in anni quattro di reclusione. Questo l’iter normativo, accompagnato dai diversi interventi giurisprudenziali, che ha determinato quel divario oggi esistente tra la pena massima edittale prevista dal comma 5 per i casi di lieve entità e la pena minima edittale prevista dal primo comma per le ipotesi di non lieve entità.
La questione, quindi, è stata sottoposta al vaglio della Consulta con ordinanza di rimessione della Corte d’Appello di Trieste, la quale ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 73, c.1, d.P.R. n. 309/1990 per contrasto con gli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, nella parte in cui prevede per le ipotesi di non lieve entità una pena minima edittale pari ad anni otto di reclusione, anziché sei, come precedentemente previsto. L’attuale formulazione della norma è il risultato di un precedente intervento da parte della Corte stessa. Difatti, con le modifiche apportate al T.U. Stupefacenti dal decreto legge n. 272/2005, convertito, con modificazioni, nella legge n. 49/2006 (cd. Fini-Giovanardi), l’art. 73 prevedeva quale pena minima edittale per le ipotesi di cui al primo comma la reclusione di sei anni. Era stata proprio la Corte costituzionale che, con sentenza n. 32/2014 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis (e dell’art. 4-vicies ter) del decreto legge citato, convertito con modificazioni dall’art. 1, c.1, della Fini-Giovanardi, ossia di quella norma che aveva modificato l’art. 73 del T.U. determinando la riduzione della pena minima edittale, prevista per le ipotesi di cui al comma primo. Così, con la sentenza n. 32/2014, riportando in vigore l’art. 73 nella sua formulazione anteriore alle modifiche apportate con le norme dichiarate incostituzionali, la Corte ha determinato una pena minima edittale per le ipotesi “ordinarie” relative alle “droghe pesanti” pari al doppio della pena massima edittale prevista per le ipotesi di lieve entità dal comma 5 dello stesso art. 73 (reclusione da 6 mesi a 4 anni) e comunque di due anni più elevata rispetto alla pena massima edittale per le ipotesi di cui al quarto comma relative alle “droghe leggere” (reclusione da 2 a 6 anni).
Quanto ai profili di illegittimità costituzionale denunciati dalla Corte remittente, si è sostenuta la violazione degli artt. 3,25 e 27 della Costituzione. In primo luogo, si è asserita la violazione del principio di riserva di legge proprio in considerazione del fatto che l’attuale formulazione dell’art. 73, comma 1, è il risultato di quell’intervento della Corte testé citato. In particolare, attraverso il richiamo a precedente giurisprudenza di legittimità, la Corte d’Appello di Triste ha ricordato alla Consulta come, in virtù del principio di cui all’art. 25 Cost., siano rimessi al monopolio esclusivo del legislatore gli interventi volti ad ampliare le fattispecie di reato o, come nel caso di specie, ad inasprire il trattamento sanzionatorio. Sicché, essendo l’art. 73, c.1, il risultato di una pronuncia di illegittimità costituzionale che ha determinato un’innalzamento nel minimo edittale di pena da sei a otto anni, si è sostenuta la violazione dell’art. 25 Cost. e la necessità di ripristinare il trattamento sanzionatorio più mite.
In secondo luogo, con l’ordinanza di remissione si è asserita la violazione dell’art. 3 Cost, ritenendosi del tutto irragionevole il gap determinatosi tra la pena minima edittale prevista per le ipotesi “gravi” e la pena massima prevista per le ipotesi “lievi” e per i casi aventi ad oggetto “droghe leggere”. Secondo la Corte d’Appello, nonostante il confine tra le fattispecie “gravi” e quelle “lievi” spesso sia veramente labile, da un punto di vista sanzionatorio, al contrario, il divario risulta troppo netto, con la conseguenza per cui quelle ipotesi, non facilmente inquadrabili, finiscono con l’essere punite con un trattamento sanzionatorio difficilmente prevedibile in quanto dipendente dalla loro qualificazione quali ipotesi di lieve o grave entità, passandosi da una pena che va dai sei mesi ai quattro anni di reclusione ad una pena che, al contrario, parte dagli otto anni ed arriva ai venti.
L’ultimo motivo denunciato, strettamente collegato a quanto appena riportato, attiene alla violazione dei principi di proporzionalità, colpevolezza e finalizzazione rieducativa della pena di cui al combinato disposto degli artt. 3-27 Cost.. Necessario, infatti, che la pena sia proporzionata al disvalore dell’illecito commesso ed adeguata alla responsabilità penale, di modo che la pena stessa, da un lato abbia una funzione di difesa sociale e di tutela delle posizioni individuali e dall’altro, assicuri la piena proporzionalità tra offesa e qualità/quantità della sanzione. Pertanto, per la Corte remittente, una pena minima sproporzionatamente alta violerebbe al contempo tanto il principio di proporzionalità della stessa quanto quello della sua finalità rieducativa.
In merito alla violazione del principio di riserva di legge in materia penale (art. 25 Cost.), violazione che, secondo la Corte remittente, sarebbe stata commessa attraverso l’intervento in malam partem della Corte costituzionale con sentenza n. 32/2014, causa dell’inasprimento del regime sanzionatorio previsto dall’art. 73, c.1, T.U. Stupefacenti, la Corte ne ha dichiarato l’inammissibilità, qualificando la questione come un “improprio tentativo di impugnazione” della suddetta sentenza, limitandosi la questione, così come prospettata, a censurare gli effetti della stessa. La Corte, inoltre, ha precisato che l’assunto secondo il quale la riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. precluderebbe alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire in materia penale con effetti sfavorevoli non trova alcun riscontro nella giurisprudenza costituzionale, la quale, al contrario, ammette interventi in tal senso, con la precisazione di dover verificare l’ampiezza ed i limiti dell’ammissibilità degli interventi in malam partem in materia penale nei singoli casi. Difatti, se da un lato è indubbio che spetti al legislatore “la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare“, dall’altro, nulla esclude che la Corte possa assumere decisioni il cui effetto sfavorevole discenda dalla rimozione di disposizioni costituzionalmente illegittime, la cui caducazione determina l’automatica riespansione di altra norma di legge. Ed è proprio questa la situazione verificatasi nel caso di specie, dove la Corte, limitandosi a rimuovere le disposizioni costituzionalmente illegittime (artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272/2005, come convertito), mediante la sentenza n. 32/2014, ha così determinato la riapplicazione dell’art. 73 d.P.R. n. 309/1990, ossia l’applicazione di un regime sanzionatorio frutto di precedenti scelte operate la legislatore e poi da questi successivamente modificate con il decreto legge 20 marzo 2014, n. 36 convertito, con modificazioni, nella legge 16 maggio 2014, n. 79, che ha, tra l’altro, ridotto la pena massima edittale per i fatti lievi.
Per quanto, invece, attiene alle questioni relative all’irragionevolezza e alla sproporzione del trattamento sanzionatorio, la Corte, rilevato preliminarmente che “è rimasto inascoltato il pressante invito rivolto al legislatore affinché procedesse «rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990», anche in considerazione «dell’elevato numero dei giudizi, pendenti e definiti, aventi ad oggetto reati in materia di stupefacenti»“, ha sostenuto la fondatezza delle stesse nel merito.
In particolare, la Corte, con la sentenza n. 179 del 2017, aveva già evidenziato che la differenza di ben quattro anni tra il minimo edittale di pena previsto dal comma 1 dell’art. 73 ed il massimo edittale previsto dal comma 5 dello stesso articolo aveva raggiunto “un’ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria“. Difatti, sottolinea la Corte, molte ipotesi di reato si collocano in una “zona grigia”, al confine fra l’ipotesi di lieve entità e quella non lieve, e ciò rende ingiustificato il divario sanzionatorio, evidentemente sproporzionato, dal momento che la pena minima edittale per il fatto di non lieve entità è pari al doppio della pena massima edittale prevista per il fatto lieve. L’ampiezza di tale divario sanzionatorio condiziona la valutazione che il giudice deve compiere al fine di accertare la lieve entità del fatto, “con il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte“. Di conseguenza, la Corte ritiene sussistente la violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, oltre che del principio di rieducazione della pena. Richiamando la precedente sentenza n. 179/2017, la Consulta ha ricordato come i principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. «esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale» e come una pena oggettivamente non proporzionata alla gravità del fatto e pertanto, soggettivamente percepita come ingiusta ed inutilmente vessatoria, sia di ostacolo al pieno raggiungimento di tali obiettivi, non essendo una pana di tal specie idonea a realizzare lo scopo rieducativo cui è tesa. Per queste ragioni, la misura della pena, individuata dalla Corte d’Appello di Trieste attraverso il riferimento a previsioni già rinvenibili proprio nella disciplina sanzionatoria dei reati in materia di stupefacenti, è stata ritenuta dalla Corte costituzionale non arbitraria. Difatti, la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore (4-bis del d.l. n. 272 del 2005: pena minima per i fatti non lievi; art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309/1990: pena massima per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto le sostanze stupefacenti “leggere”) come misura adeguata ai fatti “di confine”, ossia a quei reati che si pongono su un piano inferiore rispetto alle ipotesi di reato più gravi, ma su un piano più elevato rispetto alle ipotesi meno gravi. Quindi, la Corte ha ritenuto appropriata la richiesta di ridurre a sei anni la pena minima per i fatti di non lieve entità di cui al comma 1 dell’art. 73 T.U. Stupefacenti, al fine di porre rimedio ai vizi di illegittimità costituzionale denunciati.
Così conclude la Corte: “è appena il caso di osservare che la misura sanzionatoria indicata, non costituendo una opzione costituzionalmente obbligata, resta soggetta a un diverso apprezzamento da parte del legislatore sempre nel rispetto del principio di proporzionalità (sentenza n. 222 del 2018)”, in tal modo segnando la rotta da seguire. Tuttavia, allo stato, non è scontato poter prevedere quali saranno i futuri rapporti tra Politica e Giustizia, per cui non resta che attendere che il legislatore, nell’esercizio della sua primazia nell’ambito delle scelte politiche, faccia il primo passo, si spera in maniera costituzionalmente orientata al rispetto del principio di proporzionalità, nel solco così tracciato dalla Corte costituzionale.
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