La settimana corta: una prospettiva possibile
In questo ore è crescente il dibattito sulla settimana corta, che consiste nella distribuzione dell’orario lavorativo su quattro giorni settimanali, con riduzione dell’orario, come auspicato dal segretario della Uil Bombardieri, o senza.
Nel ragionare su tale opportunità, che tanto successo ha avuto nella sperimentazione avviata in Regno Unito, bisogna capire cosa c’è alla base di essa.
Se il contratto di lavoro subordinato ha quale fondamento uno scambio, quello tra lavoro e retribuzione, di scambio si tratta anche in questo caso.
I termini di esso sono minor costo per il datore e maggiore libertà per il lavoratore, qualora si prospettasse una conseguente riduzione retributiva, già osteggiata preventivamente sul versante sindacale, oppure maggiore flessibilità lato impresa a fronte di un incremento di produttività lato dipendente.
Se pensiamo a quest’ultimo scambio, comprendiamo che non siamo tanto lontani dal nucleo fondamentale del welfare aziendale, basato sulla valorizzazione del benessere in senso ampio del lavoratore, che copre anche vantaggi sotto il profilo della sua vita privata e del work life balance, per ricavarne un aumento di produttività idoneo a determinare un guadagno notevole per le aziende, che ottengono un riscontro maggiore rispetto a quanto investono in attività, attenzioni, forme di apertura che apparentemente sembrano non rendere immediatamente sotto il profilo economico, che è invece quello che maggiormente ne beneficia.
È proprio il tema del work life balance, che in questo caso si pone centralmente, ad essere poi alla base dello stesso smart-working, che con la pandemia ha acquisito un rilievo prima inimmaginabile, divenendo uno strumento utile e talvolta già utilizzato anche per porre un argine alle conseguenze dell’attuale crisi energetica. Quest’ultima potrebbe trovare beneficio dalla settimana corta che appare quindi una strada nuova, ma percorribile, condividendo la ratio con strumenti e fenomeni già diffusi con innegabile successo.
Se è vero poi che il tessuto produttivo italiano consta in particolare di medie imprese che ne trarrebbero almeno su carta più ostacoli che benefici, è altrettanto possibile affermare che solo testando soluzioni che pongono l’attenzione sulle esigenze dei lavoratori, anch’esse possono creare e diffondere una cultura aziendale che ha come risultato un salto di qualità sia sul piano dell’employer branding, rendendole più riconoscibili, identitarie e dunque attrattive sia, anche se non in termini immediati, sul lato meramente economico.
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