La tempesta emotiva e la sua rilevanza giudiziaria
Sommario: Premessa – 1. Gli stati emotivi e passionali: la genesi della norma e i suoi problemi – 2. Passione amorosa, gelosia e diritto penale – 3. Conclusioni
Premessa. Ha sollevato un certo rumore mediatico una sentenza della Corte di Assise di Bologna (Sez. I, 28.02.2019 n. 28) che, secondo la sintesi giornalistica, avrebbe “dimezzato” la pena a un imputato condannato a trent’anni in primo grado per aver ucciso la donna con la quale aveva una relazione sentimentale.
La riduzione di pena sarebbe stata motivata, a quanto si è letto su alcuni quotidiani, dalla <<soverchiante tempesta emotiva e passionale>> in cui si trovava l’imputato al momento dell’omicidio.
Il caso ha provocato anche l’intervento di alcune figure istituzionali che si sono schierate in senso nettamente contrario alle determinazione del giudice di appello.
La pubblicazione della sentenza su alcune riviste giuridiche consente una più serena e rigorosa disamina della vicenda consentendoci di fare chiarezza.
Innanzitutto l’espressione plastica e suggestiva di <<tempesta emotiva e passionale>> non è opera dei giudici ma è stata utilizzata dal perito, il quale ha comunque concluso per la capacità di intendere e di volere dell’imputato.
Occorre inoltre chiarire che la perizia citata non ha avuto alcuna rilevanza in primo grado e ben poco ne ha avuta in appello.
La Corte di Assise di Appello, infatti, ha motivato la concessione delle attenuanti generiche con tre argomenti: la confessione dell’imputato, il suo tentativo di risarcimento e lo stato emotivo in cui si trovava al momento della commissione del delitto.
La Corte ha osservato che la confessione dell’imputato non rileva tanto con riferimento all’ammissione del fatto storico quanto all’aggravante del motivo futile, che, come si legge in sentenza, <<verosimilmente non sarebbe stata contestata >> se l’imputato non avesse parlato della gelosia e dei suoi litigi con la vittima.
Inoltre, quanto al tentativo di risarcimento verso la figlia della vittima, la Corte evidenzia che tale comportamento rivela <<una presa di coscienza dell’enormità dell’azione compiuta>>.
Bastavano queste due circostanze per giustificare la concessione delle attenuanti generiche ma la Corte, ad abundantiam, enumera anche la <<soverchiante tempesta emotiva>> a cui era in preda l’imputato.
Sul punto urge osservare che la Corte ritiene irrilevante lo stato emotivo sotto il profilo dell’imputabilità, in ossequio all’articolo 90 del Codice penale, ma idoneo a <<influire sulla misura della responsabilità penale>> e dunque rilevante ai fini della concessione delle attenuanti generiche.
Il ragionamento seguito in sentenza, come meglio si dirà più avanti, è conforme all’insegnamento costante e uniforme della giurisprudenza sedimentatosi negli anni.
Infine, per completezza, bisogna altresì aggiungere che i giudici di seconde cure hanno anche ritenuto sussistente l’aggravante del motivo futile in quanto, si legge in sentenza, la gelosia del reo si tradusse in <<uno stato d’animo improvviso e passeggero …. non determinato da un sentimento profondo di attaccamento per una dona con la quale vi erano seri progetti di vita>>.
La gelosia, dunque, fu, ad avviso dei giudici, <<l’espressione di un intento meramente punitivo>> verso una donna che, ad avviso dell’omicida, si mostrava insensibile alle sue fragilità e sul punto di lasciarlo.
Anche con riferimento al rapporto tra gelosia e aggravante del motivo futile il ragionamento seguito dalla Corte è ineccepibile e aderente all’orientamento ormai maggioritario seguito in giurisprudenza ma su questo torneremo più analiticamente in seguito.
I problemi giuridici affrontati e risolti in sentenza meritano maggiore approfondimento, anche in considerazione della delicatezza del momento storico in cui viviamo, connotato da efferati delitti, specialmente nei confronti delle donne e delle misure di contrasto che il legislatore sta preparando.
1. Gli stati emotivi e passionali: la genesi della norma e i suoi problemi. L’articolo 90 del Codice penale recita perentorio: <<gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità>>.
La norma, così semplice nella sua formulazione, fu il frutto di una scelta tormentata che vide coinvolti psichiatri e giuristi. Alcuni giuristi ne evidenziarono subito il carattere tautologico, pleonastico e del tutto inutile, un mero corollario dell’articolo 85. Se la imputabilità si identifica esclusivamente con la capacità di intendere e di volere perché specificare l’irrilevanza degli stati emotivi o passionali?
In verità la norma nasceva da una scelta di politica criminale dettata dal bisogno di porre termine alle polemiche e alle confusioni che si erano verificate, nelle aule giudiziarie, sotto la vigenza del Codice Zanardelli.
Quest’ultimo, infatti, nel disciplinare l’imputabilità, aveva eliminato ogni riferimento alla “pazzia”, “morboso furore”, “imbecillità” e “forza irresistibile”, contemplati in alcuni codici preunitari[1] ma non aveva previsto una norma ad hoc per gli stati emotivi e passionali.
Tale lacuna normativa non aveva impedito che, di fatto, forti stati emotivi e passionali che agitavano la mente del reo entrassero nella valutazione del giudice, anche attraverso la figura più letteraria che scientifica del “delitto passionale”.
La norma del Codice Rocco nasceva dunque dal bisogno di fare chiarezza. Un acuto commentatore, infatti, nel salutare positivamente la nuova norma, definiva gli stati emotivi e passionali come <<il diafano velo sul quale avvocati forniti di dolce eloquenza strappavano assoluzioni>>[2]. Altro giurista osservava che se da un lato l’articolo 90 aveva tolto rilevanza a emozioni e passioni che <<hanno fornito tanta materia alla umana storia del delitto>>, dall’altro riconosceva il merito di aver posto fine a un <<deprecabile giustizia passionale e romantica>>[3].
La stessa Relazione sul Progetto del Codice penale rimarcava che la genesi della norma era da rinvenirsi negli <<equivoci e abusi>> verificatisi nella pratica giudiziaria, dovuti alla lacuna esistente nel Codice Zanardelli.
Chiarito questo, la Relazione ribadiva che il vizio di mente può esser inteso solo quello derivante da <<infermità fisica o psichica clinicamente accertata>> e dunque <<le passioni, le emozioni attengono alla valutazione della quantità del delitto e della pericolosità sociale>>[4].
La formulazione dell’articolo 90 del Codice penale recepiva, inoltre, le acquisizioni della moderna psichiatria che faceva giustizia di alcune vaghe e suggestive formule adottate dalla psichiatria ottocentesca, come ad esempio psicosi passionale, pazzia morale, morboso furore, forza irresistibile interna ed esterna, alcune delle quali avevano trovato ingresso, come abbiamo visto, in alcuni codici penali.
L’assunto scientifico a fondamento del nuovo articolo è che l’uomo, che non sia afflitto da infermità fisica o psichica, è in grado di dominare le mozioni e le passioni ed è pienamente responsabile delle azioni commesse in preda a queste.
Intesa l’emozione come <<espressione somatica di un sentimento avente caratteristiche di transitorietà, di immediatezza e di spiccata intensità>> (Fornari 1989) e la passione come <<sentimento protratto ed intenso, per cui la partecipazione emotiva all’avvenimento è preponderante e domina su ogni capacità di ragionamento>> (Fornari 1989), entrambe <<sono condizioni psicologiche e non psicopatologiche dell’essere umano>>, pertanto ininfluenti sulla capacità di intendere e di volere, a meno che non siano sintomatiche di patologie ovvero rientrino nell’immaturità di cui all’articolo 98 del Codice penale.
Nonostante la chiarezza della norma non mancarono, anche dopo oltre vent’anni dalla promulgazione del Codice Rocco, arresti giurisprudenziali che attribuirono rilevanza agli stati emotivi e passionali sulla scorta di vaghe formule pseudoscientifiche, talvolta identificandoli con un <<vero e proprio squilibrio psichico>> idoneo a menomare la capacità di intendere e di volere (Cass. 10.12 1951) tal altra con <<taluni traumi morali>> incidenti sulla capacità di volere del reo (Cass. 12.11.1953) oppure ricorrendo alla nozione problematica di <<stato crepuscolare orientato>> idoneo a menomare la coscienza del reo (Cass. Pen., Sez. I, 06.06.1972, Davani in RIDPP, 1975, pag. 1336).
D’altro canto anche in dottrina alcuni autori[5] affermavano che l’emozione può raggiungere tale intensità da produrre <<uno squilibrio psichico>> in grado di inficiare la capacità di intendere e di volere; altri[6], invece, aggirando il problema dell’imputabilità, identificavano stati affettivi intensi e forza irresistibile e invocavano un’estensione analogica dell’esimente della forza maggiore di cui all’articolo 45 del Codice penale.
In verità le oscillazioni dottrinarie e giurisprudenziali traevano origine dalle incertezze della psichiatria forense che, ancora oggi, non è sempre in grado di indicare criteri sicuri per stabilire quando uno stato affettivo assuma contorni patologici tali da rientrare nel concetto di infermità di cui all’articolo 88, sia pure nella forma del disturbo transitorio.
Il Codice penale, pur negando alle emozioni e alle passioni ogni rilevanza sull’imputabilità del reo tuttavia le prende in considerazione in taluni casi: ad esempio quando prevede l’attenuante di ave agito in stato di ira determinato dal fatto ingiusto altrui (provocazione art. 62 n. 1 C.p.), l’attenuante di aver agito sotto la suggestione di una folla in tumulto (art. 62 n. 3 C.p.) ovvero quando, nella commisurazione della pena, attribuisce rilievo ai motivi a delinquere e al carattere del reo (art. 133 C.p.).
Se, per dettato normativo, gli stati emotivi e passionali non incidono nella valutazione dell’imputabilità, tuttavia dottrina e giurisprudenza sono concordi nell’affermarne la rilevanza nella <<commisurazione discrezionale della pena>>[7], anche al fine, per esempio, della concessione delle attenuanti generiche.
Dunque gli stati emotivi e passionali non possono sfuggire alla valutazione del giudice in quanto elementi della vicenda criminosa in grado di offrire allo stesso una più ampia comprensione del fatto reato e in grado di influire sulla misura della responsabilità penale.
Sono ormai numerosissime le sentenze della Corte di Cassazione che aderiscono a tale orientamento (tra le tante: Cass. Pen., 15.11.1982; Cass. Pen., 05.05.2011; Cass. Pen., Sez. I, 05.04.2013, n. 7272; Cass. Pen., Sez. I, 29.01.2018, n. 4149).
Possiamo dunque affermare che la sentenza della Corte di Assise di Appello di Bologna, dalla quale siamo partiti, non fa altro che inserirsi in questa ormai consolidata linea di pensiero.
2. Passione amorosa, gelosia e diritto penale. Il rapporto tra la passione amorosa, in particolare nella forma più nota della gelosia, il diritto e il processo penale ha radici lontane.
Prima ancora che Shakespeare mostrasse al mondo gli effetti deliranti della gelosia di Otello i criminalisti della fine del Cinquecento e inizio Seicento paragonavano la gelosia alla follia ovvero all’ubriachezza. Menochius, nel De arbitrariis iudicum questionibus (1569) scriveva: <<amore captus furioso similis est>> e Farinacius, nel De poenis temperandis (1605) ribadiva che <<causa mitigandi poenam et improviso impetu>>.
La psichiatria dell’Ottocento aveva costruito sulla passione amorosa il paradigma delle psicosi passionali e del delitto passionale offrendo agli avvocati del tempo materiale prezioso per declamare arringhe di rara eloquenza.
Agli inizi del Novecento la scienza psichiatrica reclamava maggiore attenzione da parte del diritto alla passione amorosa, essendo questa la passione <<più violenta e travolgente, come quella che deriva dall’istinto fondamentale della specie>>[8]. Il problema del delitto passionale come problema della civiltà e della specie era particolarmente sentito, tanto che Enrico Ferri intitolò la sua prolusione al corso di diritto e procedura penale all’Università di Roma: Il delitto passionale nella civiltà contemporanea[9] .
Vigente il Codice Zanardelli, proprio l’assenza di una norma sugli stati emotivi e passionali, generava non pochi problemi scientifici e giuridici. Nella aule giudiziarie era costante il tentativo di identificare la gelosia con quella “forza irresistibile” che alcuni codici preunitari avevano previsto come causa di non imputabilità.
Il problema fu avvertito anche dalla dogmatica giuridica tanto che, nel 1907, il giurista Bernardino Alimena scrisse, sulle colonne della rivista Legge, un celebre articolo dal titolo significativo: La gelosia e l’imputabilità[10].
Nonostante le polemiche e le diatribe che contrapponevano giuristi e criminologi la giurisprudenza, anche sotto la vigenza del Codice Zanardelli, ritenne costantemente di non attribuire alcuna rilevanza alla passione amorosa né alla gelosia sotto il profilo della imputabilità o della semi imputabilità[11].
Attualmente la psichiatria forense considera la gelosia una passione, pertanto irrilevante ai fini della imputabilità, tranne ovviamente quando sia sintomatica di deliri o altre infermità, come ad esempio il delirio di gelosia negli intossicati cronici da alcol (Ferrio 1970; Fornari 1989).
La giurisprudenza, invece, prende in considerazione la gelosia in relazione all’aggravante del motivo futile di cui all’articolo 61 n. 1 del Codice penale.
Stabilito che il motivo è futile allorquando la <<determinazione a delinquere sia stata causata da uno stimolo lieve, banale e sproporzionato rispetto alla gravità del fatto, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione delittuosa>>, non sempre la Suprema Corte ha ritenuto futile il motivo determinato dalla gelosia.
Sin dalla sentenza Portelli del 1969 si è affermato un orientamento giurisprudenziale secondo il quale la gelosia, nello svolgersi delle relazioni umane, non può essere portatore di stimoli lievi, futili e banali e pertanto non integra l’aggravante in questione (Cass. Pen., Sez. I, 01.12.1969 n. 1574).
L’arresto veniva confermato nel 1997 (Cass. Pen., Sez. I, 22.09.1997, n. 9590) e si è attualmente consolidato in numerose e recenti sentenze fino all’affermazione del principio giuridico per cui non può considerarsi motivo abietto o futile << la sola manifestazione, per quanto parossistica e ingiustificabile, di gelosia>> quando sia riconducibile <<a un sia pur abnorme desiderio di vita in comune>> e non sia invece <<espressione di spirito punitivo nei confronti della vittima considerata come propria appartenenza>> ( Cass. Pen., Sez. V,22.09.2006, n. 35368; recentemente Cass. Pen., Sez. I, 13363/2018; Cass. Pen., Sez. I, 49129/2018; Cass. Pen., Sez. I, 32621/2018).
Questo breve excursus non è un fuor d’opera. La sentenza della Corte di Assise di Appello di Bologna affronta il tema dell’aggravante del motivo futile in rapporto alla gelosia, e, attraverso una ineccepibile ricostruzione del fatto, perviene alla conclusione che sussiste l’aggravante in parola in quanto l’atto omicidiario <<fu proprio l’espressione di un intento punitivo verso la vittima>> che, ad avviso dell’omicida, <<si mostrava poco sensibile verso le sue fragilità>>.
Anche sul punto pertanto la sentenza in commento è specificamente motivata e conforme all’orientamento giurisprudenziale ormai maggioritario.
3. Conclusioni. Giunti al termine di questo excursus è venuto il momento di trarre le conclusioni.
Chiarito che la sentenza della Corte di Assise di Appello di Bologna non ha detto nulla di nuovo né di rivoluzionario in ordine al problema degli stati emotivi e passionali, e, verificata la sua ineccepibile motivazione sulla concessione delle attenuanti generiche e la sussistenza dell’aggravante del motivo futile, bisogna fare qualche ulteriore riflessione.
La domanda che sembra oggi più impellente è come si debba comportare il giudice davanti all’indubitabile proliferare di reati efferati motivati dai più vari stati emozionali (ira, invidia, gelosia, vendetta ecc.); delitti che originano da disagi psicologici, i quali, pur non intaccando la capacità di intendere e di volere, condizionano e orientano la condotta del reo.
In un momento storico in cui è dato registrare un ormai frequente e diffuso discontrollo emotivo e un’evidente incapacità di dominare le proprie pulsioni occorre forse un approccio diverso dalla decantata “tolleranza zero” e dal punire indiscriminatamente.
Come deve porsi il giudice davanti a queste nuove malattie dell’anima, talvolta sfuggenti a ogni classificazione nosografica, che invadono anche il processo penale coinvolgendo tutti gli operatori della giustizia?
In attesa che arrivino meditate soluzioni normative le risposte non possono che ancorarsi al singolo caso concreto.
A parte le difficoltà delle valutazioni peritali, riteniamo che innanzitutto il giudice dovrebbe ovviamente rifuggire da formule vaghe e pseudoscientifiche onde evitare errori già commessi in passato.
In secondo luogo dovrebbe esaminare il caso concreto con particolare attenzione alla storia e alla personalità del reo, alla personalità della vittima e ai rapporti tra essi intercorrenti.
Solo attraverso un’attenta disamina del caso, scevra da pregiudizi e prese di posizione ideologiche, che trovi puntuale riscontro in una motivazione che dia conto di tutti gli elementi emersi nel processo, è possibile pervenire a una decisione che possa definirsi serena, imparziale e per questo anche giusta.
Vizzini, V.: La nostra fatica. L’art. 90 del codice penale e le sue arbitrarie applicazioni, in Rassegna giuridica nissena, 1935.
Bucolo, C.: Stati emotivi e passionali, in La Giustizia penale, vol. 62,col. 427, 1957.
Manzini, V.: (1961) Trattato di Diritto penale italiano, Torino.
Patrizi, M . L.: La criminalità della specie, Riv. Di psicologia,XXIV,1928.
Partizi, M. L.: L’accertamento e la misura fisiologica dell’emozione e della passione, in Giust. Pen., I, 1932.
Alimena B.: La gelosia e l’imputabilità In Legge,XLVII, 47, 1907
Musumeci, E.: (2015), Emozioni, crimine, giustizia. Un’indagine storico –giuridica tra Otto e Novecento,Francoangeli.
Ferrio, C.: (1970), Trattato di psichiatria clinica e forense, Torino.
Fornari, U.: (1989), Trattato di psichiatria forense, Torino.
Gianniti, F.: (1984), Prospettive criminologiche e processo penale, Milano.
Tanzi, E.: (1904), Trattato delle malattie mentali, Milano.
Ferracuti F., Giarrizzo, C.: Stati emotivi e passionali, in Enciclopedia del Diritto, 1990, XLIII.
Fierro Cenderelli, F.: Sulla rilevanza degli stati emotivi e passionali nell’ambito del giudizio di colpevolezza e di imputabilità, in Rivista italiana di diritto e procedura penale,1975.
Coda, S.: Stati emotivi e passionali: un contributo clinico, in Rivista italiana di medicina legale, 2000.
[1] Il Codice penale sardo del 1859, all’art. 94 prevedeva tutte quattro le cause di non imputabilità. Analogamente gli artt. 62 e 63 dei Codice penale per i Ducati di Parma e Piacenza. Il Codice penale per il Regno Lombardo – veneto, del 1803, al part. 2 lett. b richiamava la forza irresistibile. Il Codice penale per il Regno delle Due Sicilie, 1819, agli artt. 61 e 62 prevedeva la demenza, il furore e la forza irresistibile come cause di non imputabilità.
[2] V. Vizzini: La nostra fatica. L’art. 90 del codice penale e le sue arbitrarie applicazioni, in Rassegna giuridica nissena, 1935, pag. 17.
[3] C. Bucolo: Stati emotivi e passionali, in La Giustizia penale, 1957, vol. 62,col. 427.
[4] Relazione sul progetto di Codice penale,I,p. 143.
[5] Madia: Stati emotivi e passionali con riferimento all’art. 90,in Riv. Dir. Pen.,1957,p.157.
[6][6] Ruggiero: La rilevanza giuridico – penale degli stati emotivi e passionali, 1958, Napoli, pag. 116.
[7] Manzini V.: Trattato di Diritto penale italiano,1961, Torino.
[8] Patrizi: La criminalità della specie, Riv. Di psicologia,XXIV,1928, p. 13.
[9] In E. Ferri, Difese penali, vol. III, Torino, 1925.
[10] In Legge,XLVII, 47, 1907.
[11] Si veda Cassazione Unica, 28.10.1901, Sossio: <<l’art. 46 (Codice Zanardelli) non si applica a chi operò lasciandosi trasportare dall’impeto delle passioni (nel caso si trattava di smania gelosa)>>. Conf. Cass. 22.10.1903,Vada; 30.06.1904, Annunziata; Cass. 16.01.1907, Filocamo: <<l’idea fissa dipendente da gelosia riguarda uno stato passionale escluso dagli articoli 46 e 47>>.
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