La testimonianza: una prova insidiosa

La testimonianza: una prova insidiosa

Originariamente la testimonianza era ritenuta la prova principale alla base della decisione finale sulla colpevolezza dell’imputato. Con il trascorrere del tempo la prova principale è diventata la perizia. Per quanto possa apparire strano i testimoni oculari non sono sempre affidabili: “I testimoni oculari spesso si sbagliano. Questo fatto è stato studiato sperimentalmente, con i risultati più sorprendenti[1].

Nella classificazione tra prove dirette e prove indirette, generalmente la testimonianza viene fatta rientrare tra le prove dirette. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Il testimone vede con i propri occhi, quindi direttamente, i fatti. Nel momento in cui viene esaminato in dibattimento, tuttavia, ciò che egli ha visto con i propri occhi viene fatto oggetto di un racconto. La prova dei fatti passa attraverso le parole del testimone, motivo per cui, forse, sarebbe meglio parlare della testimonianza come di una prova indiretta.

La nostra mente non è un “recipiente” che passivamente acquisisce informazioni provenienti dall’esterno, ma piuttosto un “faro” che filtra e seleziona la conoscenza. L’interpretazione soggettiva entra in campo in ben due momenti. Fin dal momento in cui si verifica il fatto, ed il testimone vi assiste, quest’ultimo lo percepisce, e quindi lo interpreta, secondo i propri schemi mentali. Del resto, già Nietzsche aveva osservato che non esistono fatti, bensì solo interpretazioni (dei fatti). Non dobbiamo tralasciare che ai fini della percezione del fatto svolge un ruolo decisivo la personalità del testimone: il suo temperamento, le sue caratteristiche psicologiche, le sue esperienze passate. Tutto ciò influisce sulla percezione del fatto. L’interpretazione soggettiva entra in gioco anche nel momento in cui il testimone descrive il fatto in dibattimento. “È molto probabile che i testimoni più ansiosi di descrivere un evento come è realmente accaduto, facciano un gran numero di errori, specialmente se si tratta di descrivere cose eccitanti accadute rapidamente; e se un evento suggerisce qualche interpretazione allettante, allora, il più delle volte, si lascia che quest’interpretazione distorca ciò che si è effettivamente visto[2]. Ricordiamo, a questo proposito, il famoso esperimento di E.G. Boring relativo all’immagine riprodotta qui di fianco. Osservandola, alcune persone vi scorgono il volto di una donna anziana, ed altre il volto ed il collo di una donna giovane. Eppure l’immagine è la stessa….

Ogni testimone deve sempre fare ampio uso nel suo resoconto, della sua conoscenza di persone, posti, cose, usi linguistici, convenzioni sociali e così via[3]. I fatti sono un modello di oggettività, e quindi si tende a pensare che uno stesso fatto possa essere descritto in un solo modo. In realtà ciascuno di noi, nel raccontare i fatti, utilizza propri schemi mentali, basandosi sui propri “preconcetti” (nel senso letterale del termine). Tutto ciò maschera la realtà, incide sul modo di percepirla e le descrizioni che dovrebbero essere le più oggettive diventano al contrario molto soggettive. Uno stesso fatto può essere descritto in modo diverso a seconda del testimone. Il Codice di procedura penale stabilisce che il testimone non può “esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti[4]. Il testimone non esprimerà apprezzamenti personali esplicitamente, durante il racconto. Ma ciò che ha visto lo avrà necessariamente interpretato, prima di raccontarlo in dibattimento, e l’interpretazione è qualcosa di inevitabilmente soggettivo e personale.

Il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova[5]. L’oggetto della prova sono quindi i fatti accaduti nella realtà, fatti che però vengono acquisiti in dibattimento tramite il racconto del testimone. La deposizione del teste sarà sicuramente soggettiva, e questa soggettività ricadrà anche sulla descrizione dei fatti, i quali perderanno la loro oggettività, riscontrabile invece nel momento in cui si sono verificati.

Le dichiarazioni di un testimone, purché credibili e riferite a fatti specifici, non necessitano di riscontri[6]. Un principio costante nella giurisprudenza è quello secondo cui non è necessario che la testimonianza sia sostenuta da elementi di riscontro. Il giudice deve limitarsi a verificare l’attendibilità intrinseca della testimonianza, partendo però dal presupposto che fino a prova contraria il teste riferisce fatti obiettivamente veri o da lui ragionevolmente ritenuti tali. “Fino a prova contraria” non significa che “la deposizione testimoniale non possa essere disattesa se non quando risulti positivamente dimostrato il mendacio, o il vizio di percezione o di ricordo del teste, ma solo che devono esistere elementi positivi atti a rendere obiettivamente plausibile l’una o l’altra di dette ipotesi[7].

Dare eccessiva importanza alla testimonianza nei processi penali può essere pericoloso, perché non è detto che il testimone dica la verità, o che il testimone che dice la verità venga creduto o che il testimone convincente dica sempre la verità. Consapevole di ciò il legislatore ha disciplinato più istituti giuridici a tutela della verità dei fatti.

Il legislatore ha previsto anzitutto il reato di falsa testimonianza: “chiunque, deponendo come testimone innanzi all’autorità giudiziaria o alla corte penale internazionale, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è interrogato, è punito con la reclusione da due a sei anni[8]. Il reato di falsa testimonianza rientra tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia e tutela il corretto funzionamento dell’attività giudiziaria, in particolare assicurando che la prova testimoniale sia veritiera e completa, in modo tale che il giudice possa basarsi su essa per formare il proprio convincimento. L’esistenza di questo reato presuppone la possibilità che il testimone possa mentire. Ma se è possibile che il testimone menta, è giusto attribuire alla testimonianza così tanto rilievo, soprattutto ai fini di una decisione di condanna, che dovrebbe osservare lo standard dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”?

L’art. 500 del Codice di procedura penale[9] disciplina l’istituto delle contestazioni nell’esame testimoniale: “[…] le parti, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. Tale facoltà può esser esercitata solo se sui fatti o sulle circostanze da contestare il testimone abbia già deposto. Le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste[10]. Se in dibattimento il testimone rende dichiarazioni contrastanti con quelle rese durante le indagini preliminari in qualità di mera persona informata sui fatti, la parte può contestargli quanto dichiarato in precedenza al fine di valutare la sua attendibilità. Se esiste un istituto finalizzato a stabilire la credibilità del testimone significa che si presuppone la possibilità che il teste non dica la verità, e quindi a maggior ragione bisogna valutare con molta attenzione la prova testimoniale.

Ecco perché i testimoni oculari “sono importanti quasi esclusivamente nelle corti di giustizia dove possono essere interrogati in contraddittorio[11]. Secondo i canoni del modello accusatorio, a cui si ispira il nostro sistema, il contraddittorio costituisce il miglior metodo utilizzabile per raggiungere l’obiettivo di ogni processo penale: il miglior accertamento possibile dei fatti. Niente meglio del contraddittorio, che si esplica nella tecnica dibattimentale dell’esameincrociato (cross examination), è in grado di saggiare la credibilità dei testimoni. La parte che ha citato in giudizio il teste inizia l’esame testimoniale rivolgendo le proprie domande al testimone. Dopodiché la controparte, nell’esercizio del proprio diritto alla controprova, può condurre un controesame. Il controesame può avere più scopi: demolire la credibilità del testimone dimostrando che egli è inattendibile; dimostrare che, pur essendo attendibile, il teste si sta sbagliando o sta mentendo; ridurre l’apporto della testimonianza facendo capire al giudice che il teste non ha detto una cosa sbagliata, ma una cosa non essenziale per il thema decidendum. E l’esame non finisce qui, poiché la parte ha citato in giudizio il teste, e che ha già compiuto un primo esame, ha la possibilità di svolgere un riesame, per smentire i risultati del controesame. Come si può intuire, la cross examination è la tecnica più efficace al fine di verificare l’attendibilità di un testimone, il quale viene sottoposto a più esami condotti da parti che perseguono obiettivi opposti (l’accusa mirerà a dimostrare la colpevolezza dell’imputato, la difesa cercherà invece di dimostrarne l’innocenza).

Le parti sono le protagoniste nel contraddittorio dibattimentale. Tuttavia, la decisione finale circa l’attendibilità o meno del testimone sta alla discrezionalità del giudice, che deve valutare concretamente ogni singolo caso. “La valutazione sull’attendibilità del teste afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, etc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità. Il che significa che la valutazione va fatta, caso per caso, in concreto[12]. Il giudice potrà pronunciarsi sull’attendibilità o meno del testimone solo dopo aver accuratamente vagliato sia il contenuto della deposizione sia la personalità del teste. E non è raro che i giudizi di credibilità si basino sul comportamento – anche non verbale – tenuto dal teste durante la sua deposizione. Molti esperimenti mostrano come la sicurezza mostrata dal testimone durante la deposizione, o le sue manifestazioni emotive, siano spesso decisive per considerarlo attendibile o no (per questo gli avvocati tendono a preparare i propri testimoni prima che vengano esaminati in dibattimento). Non sarebbe possibile cogliere questi elementi senza la piena esplicazione del contraddittorio, principio non a caso elevato dall’art. 111, comma 4 della nostra Costituzione[13] al rango di principio fondamentale per la formazione di una prova così insidiosa come quella dichiarativa.

 

 

 

 


[1] K. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino, 2009, p. 47
[2] Ibidem
[3] Ibidem
[4] Art. 194, comma 3 Codice di procedura penale
[5] Art. 194, comma 1 Codice di procedura penale
[6] Cass., Sez. I, 30 luglio 2018, sentenza n. 36437
[7] Cass., Sez. VI, 23 giugno 2014, n. 27185
[8] Art. 372 Codice penale
[9] Art. 500 Codice di procedura penale, come riformulato dalla cd. legge sul giusto processo (legge n. 63/2001)
[10] Il comma 2 dell’art. 500 del Codice di procedura penale “Le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste” è stato ritenuto costituzionalmente legittimo dalla Corte costituzionale, con ordinanza n. 36/2002
[11] K. Popper, Congetture e confutazioni, cit., p. 47
[12] Cass., Sez. III, 30 marzo 2010, n. 7763
[13] Art. 111, comma 4 Costituzione: “Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova

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