La trasmissione del cognome materno nell’ordinamento giuridico italiano: una fattispecie di discriminazione di genere

La trasmissione del cognome materno nell’ordinamento giuridico italiano: una fattispecie di discriminazione di genere

Sommario: 1. Premessa – 2. La Corte Edu sulla gender equality: choice of family name and transmission of parents’ surnames to their children. Cusan and Fazzo v. Italy, 7 gennaio 2014 – 3. Il periodo successivo alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: L’inerzia del legislatore, la sentenza della Corte Costituzionale n.286 del 21 dicembre 2016 e la circolare ministeriale del 19 gennaio 2017, n.1 – 4. Conclusioni.

 

 

1. Premessa

Uno degli aspetti del macrotema avente ad oggetto la discriminazione di genere uomo-donna è identificabile – nell’ordinamento giuridico italiano – anche relativamente alla disparità che si delinea in capo alla madre al momento della trasmissione del cognome ai figli. Infatti attraverso un automatico meccanismo normativo di attribuzione del cognome da parte del pater ai figli, alla madre è preclusa la possibilità che gli stessi possano ereditare il suo nome di famiglia in maniera esclusiva anche nel caso di accordo di entrambi i genitori.

Partendo da questo dato fattuale – e quindi considerando la problematica in esame come una delle tante realtà fenomeniche in cui si concreta questo tipo di discriminazione ovvero in un rapporto di species a genus – la disciplina del diritto al nome (rectius: la disciplina che ha ad oggetto il tratto che regola la trasmissione del cognome ai figli) risulta allo stato discriminatoria in quanto nel nostro ordinamento vige  una “regola” non scritta – la cd. regola del patronimico – desumibile in modo implicito dal quadro normativo attuale, secondo cui vi sarebbe l’automatica trasmissione del cognome del padre ai figli non configurandosi spazio per un eventuale accordo di segno diverso tra i genitori  anche qualora gli stessi dimostrassero una volontà differente ovvero la volontà di attribuire ai figli il cognome esclusivo della madre e realizzando cosi (nemmeno troppo velatamente) un favor nei confronti di una (ormai) vetusta forma di patriarcato. A tal proposito infatti si espresse così la Corte Costituzionale già con la sentenza n. 61/ 2006 asserendo che questa regola “costituisce un retaggio di una concezione patriarcale della famiglia”.

Invero la tematica in oggetto ha radici profonde [1] considerando il fatto che la vexata quaestio sulla trasmissione del cognome ai figli venne già sottoposta per la prima volta alla Corte Costituzionale nel 1988. L’excursus giurisprudenziale sul tema è davvero copioso ma purtroppo – nonostante ciò – allo stato è da rilevare ancora che malgrado i moniti della Corte di Cassazione, della Corte Costituzionale (non in ultimo pronunciatasi nel 2016 con la sentenza n. 286) e del giudice sovranazionale (Corte Edu con la sentenza del 7 gennaio 2014 – Cusan e Fazzo c. Italia), l’assegnazione automatica del cognome paterno ai figli costituisce ancora una ingiustificata ed incoerente disparità di trattamento tra i genitori in quanto il legislatore italiano non ha ancora  provveduto a ridisegnare il quadro normativo in modo conforme ai principi costituzionali dell’ordinamento interno e dell’ordinamento sovranazionale. E’ da rilevare infatti che altri ordinamenti stranieri tutelano anche sotto questo aspetto l’uguaglianza genitoriale dando la possibilità di attribuire ai figli – se lo di desidera – il cognome della madre, del padre ovvero di entrambi non realizzando in questo modo nessun tipo di discriminazione in quanto non esistente nessun aprioristico favor da parte dello stesso ordinamento nei confronti del padre o della madre.

2. La Corte Edu sulla gender equality: choice of family name and transmission of parents’ surnames to their children. Cusan and Fazzo v. Italy, 7 gennaio 2014

La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla parità di genere [2] è veramente sterminata ma emerge molto chiaramente come, tra le molteplici fattispecie prese in esame, venga studiata e analizzata anche quella relativa alla impossibilità di trasmissione del proprio nome di famiglia ai figli per motivi legati al sesso di appartenenza. Proprio per questo la Corte introduce nell’alveo della gender equality anche the choice of family name and transmission of parents’ surnames to their children. Il caso più recente giudicato dai giudici di Strasburgo sul punto (e che purtroppo vede coinvolto l’ordinamento italiano) è quello relativo alla vicenda dei coniugi Alessandra Cusan e Luigi Fazzo che non trovando giustizia nel sistema nazionale e avendo esperito senza successo tutti i mezzi di ricorso interni decidono di rivolgersi per l’appunto alla Corte edu. I giudici di Strasburgo nell’accogliere il ricorso ritengono che lo stesso debba essere analizzato avendo riguardo la violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione edu in combinato disposto con l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione stessa in quanto l’articolo 14 – considerato norma integrativa rispetto alle altre disposizioni della Convenzione e dei suoi Protocolli e privo di una sua effettiva autonomia – non è suscettibile di essere applicato isolatamente.  In relazione all’art. 8 CEDU la Corte ribadisce che la lettera della norma non richiama espressamente il diritto al nome ma che allo stesso tempo non si dubita – come emerge chiaramente dall’analisi dei precedenti orientamenti giurisprudenziali dei giudici di Strasburgo sul tema – che questo debba essere ricondotto nell’alveo della disciplina id est richiamata in quanto il diritto al nome costituisce il segno identificativo e distintivo irrinunciabile della propria identità personale [3] e come tale, non in ultimo, espressione anche dell’appartenenza ad un determinato nucleo familiare. Viene in rilievo inoltre – a giudizio della Corte edu – che l’appartenenza ad un gruppo familiare, veicolata dal cognome di uno dei due genitori (o entrambi), può essere assolta in modo assolutamente equivalente avendo riguardo a tutte le figure genitoriali e che l’identificazione del figlio con il suo nucleo di appartenenza non sarebbe niente affatto compromessa qualora lo stesso ereditasse il cognome della madre in luogo di quello paterno. L’orientamento dei giudici sovranazionali è inoltre retto da ulteriori strumenti convenzionali di diritto internazionale aventi ad oggetto il divieto di discriminazione e la parità dei sessi. Il riferimento normativo più significativo è senza dubbio costituito dalla Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata dall’Assemblea delle Nazioni unite e ratificata in Italia con la legge del 14 marzo del 1985, n. 132 ovvero la CEDAW (Convention on the elimination of all forms of discrimination against women), in particolare l’articolo 16, co1, lettera g che recita: “Gli Stati Parti prendono ogni misura appropriata per eliminare la discriminazione contro le donne in tutte le questioni relative al matrimonio e ai rapporti familiari e in particolare assicurano, sulla base della parità dell’uomo e della donna gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compreso il diritto alla scelta del cognome, di una professione e di un impiego”. Inoltre a supporto della tesi della Corte edu vengono richiamati anche altri strumenti di diritto internazionale, genericamente qualificati come “soft law” perchè non formalmente vincolanti, adottati dal Consiglio d’Europa sul tema della possibilità di trasmissione del cognome della madre ai figli. Tra i più rilevanti: la risoluzione del Comitato dei ministri n.37 del 27 settembre 1978, la Raccomandazione dell’Assemblea Parlamentare n.1271 del 28 aprile 1995 e la raccomandazione della Commissione Permanente n.1362 del 18 marzo 1998.

La Corte edu pertanto – ritenendo esistente una violazione in capo allo stato italiano, determinato dal non rispetto delle clausole nn. 8 e 14  della Convenzione – invitava l’ordinamento interno all’adozione delle misure e delle riforme necessarie per l’adeguamento dello stesso all’orientamento dei giudici sovranazionali in base all’art. 46 della Convenzione edu, con la richiesta di colmare il vuoto legislativo esistente e quindi riconoscendo espressamente la facoltà ad entrambi i genitori indistintamente di trasmettere il proprio cognome ai figli nati sia all’interno che al di fuori del matrimonio.

3. Il periodo successivo alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: L’inerzia del legislatore, la sentenza della Corte Costituzionale n.286 del 21 dicembre 2016 e la circolare ministeriale del 19 gennaio 2017, n.1

In premessa si vuole sottolineare come ancora oggi, nonostante la condanna in capo allo stato italiano da parte della Corte edu per violazione degli art. 8 e 14 della Convenzione avvenuta ormai nel 2014, il legislatore nazionale non abbia provveduto a colmare il vulnus normativo modificando la disciplina relativa alla questione del cognome dei figli in termini di parità genitoriale circa la trasmissione del cognome di famiglia e quindi allinearla alla decisione dei giudici sovranazionali. Invero in questi anni sono state avanzate delle proposte ma risolte poi in un nulla di fatto. Attualmente esiste un nuovo disegno di legge [4] (DDL S.1025 – Senato della Repubblica, XVIII legislatura) d’iniziativa dei senatori Alessandra Maiorino ed Emanuele Dessì e comunicato alla Presidenza il 28 gennaio 2019,  ma allo stato non sarebbe ancora iniziato l’esame.

Al contrario invece nel 2016 la Corte Costituzionale con la sentenza n.286 del 21 dicembre 2016 è intervenuta nuovamente sulla questione dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’automatica attribuzione del patronimico nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere anche il cognome materno ab origine ai figli. Viene pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile; 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno; dichiara in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno; ancora, dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione.

All’alba della sentenza costituzionale n.286/2016 – non seguendo ancora alcun intervento da parte del legislatore volto ad assicurare la parità dei genitori nella scelta del cognome – è intervenuta la circolare del Ministero dell’interno n.1 del 19 gennaio 2017 in cui si scrive: “Con la richiamata pronuncia e dal giorno successivo alla sua pubblicazione, viene definitivamente rimossa dall’ordinamento la preclusione, implicita nel sistema di norme delibate dalla Corte Costituzionale, della possibilità di attribuire, al momento della nascita, di comune accordo, anche il cognome materno. L’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale è immediata per cui, in attuazione della pronuncia, sostanzialmente innovativa della disciplina della materia di che trattasi, l’ufficiale dello stato civile dovrà accogliere la richiesta dei genitori che, di comune accordo, intendano attribuire il doppio cognome, paterno e materno, al momento della nascita o al momento dell’adozione. Si pregano le SS.LL. di portare a conoscenza dei Sigg. Sindaci quanto sopra rappresentato, sollecitando le opportune direttive agli uffici di stato civile per la puntuale applicazione dei principi di diritto affermati nella richiamata sentenza della Corte Costituzionale”.

4. Conclusioni

In attesa di un tempestivo intervento del legislatore volto a garantire l’eguaglianza delle donne anche sotto il profilo della trasmissione del nome di famiglia e soprattutto volto a disciplinare definitivamente la materia in oggetto non ancora chiara in tutti i suoi profili, è possibile tracciare un quadro generale sul punto risultante dalla lettera dell’ultima pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza n.286/2016) e dalla Circolare del Ministro dell’interno (n.1/2017). La Consulta nella sentenza scrive: “La perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi, realizzata attraverso la mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome, contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi, ed in particolare, della norma sulla prevalenza del cognome paterno. Tale diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica. Con la presente decisione, questa Corte è, peraltro, chiamata a risolvere la questione formulata dal rimettente e riferita alla norma sull’attribuzione del cognome paterno nella sola parte in cui, anche in presenza di una diversa e comune volontà dei coniugi, i figli acquistano automaticamente il cognome del padre. L’accertamento della illegittimità è, pertanto, limitato alla sola parte di essa in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno. [..] Va, infine, rilevato che, in assenza dell’accordo dei genitori, residua la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno, in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”.

Tutto ciò premesso sembrerebbe emergere che: sarebbe possibile solo la contestuale trasmissione del cognome di entrambi i genitori ai figli e non anche solo la trasmissione del cognome della madre e questo sempre che – al momento della nascita o dell’adozione – sussista un accordo pacifico tra i genitori in tal senso; l’accordo consensuale deve risultare già al momento della registrazione, non potendo subentrare in un momento successivo; in assenza dell’accordo dei genitori residua la regola non scritta del patronimico ovvero l’automatica trasmissione del cognome paterno; la disciplina ora evidenziata è applicabile solo alle nascite avvenute successivamente alla pubblicazione della sentenza;  circa l’estensione soggettiva della disciplina, questa sarebbe applicabile anche ai figli nati dalle coppie non legate dal vincolo matrimoniale e alle nascite avvenute all’estero se i genitori sono entrambi italiani.

 


[1] Le prime pronunce della Corte Costituzionale sul tema risalgono già al 1988, precisamente con le ordinanze nn. 176 del 28 gennaio 1988 e 586 dell’11 maggio 1988. In particolare nella prima ordinanza citata la Corte Costituzionale scriveva: “che invece sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concili i due principi sanciti dall’art. 29 Cost., anzichè avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro; e che, peraltro, siffatta innovazione normativa, per la quale é stato presentato già nelle passate legislature e riproposto in quella in corso un disegno di legge di iniziativa parlamentare, e una questione di politica e di tecnica legislativa di competenza esclusiva del conditor iuris;” Con l’ordinanza del 17 luglio 2004, n.13298 la Corte di Cassazione ritenendo la questione rilevante e non manifestamente infondata dispose la sospensione del giudizio con trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale che quindi ebbe a pronunciarsi nuovamente sulla questio dopo diciotto anni. In particolare nell’ordinanza citata la Suprema Corte dichiarava: “La questione è certamente rilevante nel presente giudizio, atteso che l’applicazione  della norma di cui si sospetta l’incostituzionalità comporterebbe inevitabilmente la negazione della pretesa fatta valere dagli attori, diretta ad ottenere il riconoscimento del proprio diritto ad attribuire alla figlia, per loro concorde volontà il cognome materno. E tuttavia ritiene che […] il mutarsi di una diversa sensibilità nella collettività e di diversi valori di riferimento, connessi alle profonde trasformazioni sociali frattanto intervenute, nonché gli impegni imposti da convenzioni internazionali e le sollecitazioni provenienti dalle istituzioni comunitarie, richiedono una rinnovata valutazione della conformità della norma denunciata agli articoli 2, 3 e 29 comma 2, Costituzione”. Con la sentenza n.61 anno 2006 la Corte Costituzionale avallando l’orientamento del Collegio rimettente asseriva: “A distanza di diciotto anni dalle decisioni in precedenza richiamate, non può non rimarcarsi che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna. Né può obliterarsi il vincolo – al quale i maggiori Stati europei si sono già adeguati – posto dalle fonti convenzionali, e, in particolare, dall’art. 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 14 marzo 1985, n. 132, che impegna gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in particolare, ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome…». In proposito, vanno, parimenti, richiamate le raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998, e, ancor prima, la risoluzione n. 37 del 1978, relative alla piena realizzazione della uguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei figli, nonché una serie di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che vanno nella direzione della eliminazione di ogni discriminazione basata sul sesso nella scelta del cognome (16 febbraio 2005, affaire Unal Teseli c. Turquie; 24 ottobre 1994, affaire Stjerna c. Finlande; 24 gennaio 1994, affaire Burghartz c. Suisse). […] Tuttavia, l’intervento che si invoca con la ordinanza di rimessione richiede una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte”.
[2] La pagina web della Corte edu – https://echr.coe.int/Pages/home.aspx?p=press/factsheets&c= – mette a disposizione dei factsheets ordinati per tematiche affrontate e giudicate o ancora pendenti dai giudici di Strasburgo. Nell’alveo della macroarea “Prohibition of discrimination” viene per l’appunto analizzata la tematica della parità di genere (gender equality, aggiornato a gennaio 2019) e al suo interno viene in considerazione anche la discriminazione che si può delineare in capo ad uno dei due genitori relativamente alla impossibilità di trasmettere in modo esclusivo il proprio matronimico ovvero patronimico. La Corte – per ogni tematica esposta – realizza anche un compendio delle sue principali pronunce sull’argomento considerato. Si riportano in breve le pronunce che la Corte ritiene essenziali (ma ovviamente non esaustive) riguardo alla tematica più generale del diritto al nome (La casistica della Corte di Strasburgo è davvero ricca sul punto in quanto il diritto al nome – invocato dai ricorrenti – si è posto spesso in contrasto con la regolamentazione statale interna. I motivi di contrasto sono davvero eterogenei a partire dal semplice diniego di registrazione di prenomi non usuali che l’ordinamento interno considerato pertanto non riconosce fino ad arrivare alla irrealizzabilità di registrare il cognome dei figli in maniera discordante rispetto a quello previsto dalla normativa interna dello Stato membro): Burghartz v. Switzerlan, 22 febbraio 1994; Losonci Rose and Rose v. Italy, 9 novembre 2010; Unal Tekeli v. Turkey, 16 novembre 2004; Tuncer Gunes v. Turkey, 3 settembre 2013; e naturalmente Cusan and Fazzo c. Italia, 7 gennaio 2014.
[3] A questo proposito si segnala sul punto anche la sentenza della Corte costituzionale del 3 febbraio 1994, n. 13 e in particolare: “Ciò posto, e’ certamente vero che tra i diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana l’art. 2 della Costituzione riconosce e garantisce anche il diritto all’identità personale. […] Tra i tanti profili, il primo e più immediato elemento che caratterizza l’identità personale e’ evidentemente il nome – singolarmente enunciato come bene oggetto di autonomo diritto nel successivo art. 22 della Costituzione – che assume la caratteristica del segno distintivo ed identificativo della persona nella sua vita di relazione”
[4] Si riporta in nota il testo del DDL S.1025 – Senato della Repubblica, XVIII legislatura : Art. 1. (Attribuzione del proprio cognome da parte dei coniugi) L’articolo 143-bis del codice civile è sostituito dal seguente: « Art. 143-bis. – (Cognome dei coniugi) – Ciascun coniuge conserva il proprio cognome e ha il diritto di trasmetterlo al proprio figlio ». 2. L’articolo 156-bis del codice civile è abrogato. 3. All’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, i commi secondo, terzo, quarto e quinto sono abrogati. Art. 2. (Introduzione dell’articolo 143-bis.1 del codice civile) 1. Dopo l’articolo 143-bis del codice ci­vile è inserito il seguente: « Art. 143-bis.1. – (Cognome dei figli di genitori coniugati) – Al figlio di genitori coniugati è attribuito il cognome di uno o di entrambi i genitori, affiancati secondo l’ordine scelto da questi ultimi di comune accordo, per un massimo di un cognome per genitore. I genitori devono presentare una dichiarazione congiunta davanti all’ufficiale di stato civile, che comprova l’accordo di cui al comma precedente. In assenza della dichiarazione congiunta dei genitori, l’ufficiale dello stato civile attribuisce al figlio i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico. Ai figli successivi al primo, generati dai medesimi genitori, l’ufficiale dello stato civile attribuisce d’ufficio lo stesso cognome del primo figlio, anche se nato prima del matrimonio ma riconosciuto contemporaneamente da entrambi. Si applicano le norme di cui all’articolo 250, in quanto compatibili. Il figlio cui sia attribuito il cognome di entrambi i genitori può trasmettere al proprio figlio soltanto uno di essi ». Art. 3. (Modifica dell’articolo 262 del codice civile) 1. L’articolo 262 del codice civile è sosti­tuito dal seguente: « Art. 262. – (Cognome del figlio nato fuori dal matrimonio) – Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, si applica quanto previsto dall’articolo 143-bis.1. Il figlio che ha compiuto quattordici anni può chiedere che il cognome del genitore che lo abbia riconosciuto per secondo, o per il quale si sia concluso il procedimento di accertamento, sia aggiunto anteponendolo o posponendolo a quello del genitore che lo ha riconosciuto per primo ». Art. 4. (Modifica dell’articolo 299 del codice civile) 1. L’articolo 299 del codice civile è sosti­tuito dal seguente: « Art. 299. – (Cognome dell’adottato) – L’adottato assume il cognome dell’adottante e lo antepone al proprio. Nel caso di adottato con due cognomi, a norma dell’articolo 143-bis.1, egli indica quale dei due cognomi intende mantenere. Se l’adozione è compiuta da coniugi, si applica quanto previsto dall’articolo 143- bis.1 ». Art. 5. (Modifiche alle norme regolamentari in materia di stato civile) 1. Con regolamento da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell’interno, sono apportate al regolamento di cui al de­creto del Presidente della Repubblica 3 no­vembre 2000, n. 396, in materia di ordina­ mento dello stato civile, le modifiche neces­sarie per adeguare la relativa disciplina alle disposizioni introdotte dalla presente legge. Art. 6. (Disposizioni finali) 1. Le disposizioni della presente legge in materia di attribuzione del cognome ai figli si applicano anche ai figli degli italiani nati all’estero, iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), ai sensi della legge 27 ottobre 1988, n. 470. Art. 7. (Clausola di invarianza finanziaria) 1. Dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pub­blica. Art. 8. (Entrata in vigore) 1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubbli­cazione nella Gazzetta Ufficiale.

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Dorina de Simone

Dorina de Simone ha conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Napoli Federico II con tesi di laurea in Diritto Internazionale. Successivamente ha conseguito con profitto il diploma di Master Post Laurea di II livello in Diritto Amministrativo (nel 2019) e in Tutela del rapporto di lavoro (nel 2020).

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