La tutela del Made in Italy, in particolare delle farine: quando il “duetto dei grilli” diventa un canto drammatico
Abstract: La presente disamina si occupa di osservare la normativa sul “Made in Italy”, in particolare sui prodotti agroalimentari, come le farine, con particolare attenzione all’introduzione della farina di grillo da parte dell’UE.
Abstract: This review deals with observing the legislation on “Made in Italy”, in particular on agri-food products, such as flour, with particular attention to the introduction of cricket flour by the EU.
Sommario: 1. La tutela del “Made in Italy” – 2. L’uso improprio del marchio “Made in Italy” nel settore agroalimentare – 3. Come si è espressa la giurisprudenza – 4. Conclusioni
Summary: 1. The protection of “Made in Italy” – 2. The improper use of the “Made in Italy” brand in the agri-food sector – 3. How the jurisprudence has expressed itself – 4. Conclusions
1. La tutela del “Made in Italy”
Sul piano internazionale, l’Italia aderisce all’Accordo di Madrid del 1981. Quest’ultimo sancisce l’obbligo di “indicazione precisa ed in caratteri evidenti del paese o del luogo di fabbricazione o di produzione”.
Nel recepire questo accordo internazionale nell’ordinamento italiano, il D.P.R. n. 656/1958 si è limitato ad introdurre il fermo amministrativo a cura degli uffici doganali delle merci per le quali vi sia il fondato sospetto che rechino una falsa o fallace indicazione di provenienza.
In sostanza, mentre la normativa internazionale sembra imporre l’obbligo di fornire al consumatore l’indicazione dell’origine del prodotto, le norme di recepimento interne si limitano a vietare inganni mediante indicazioni false o fallaci sulla provenienza.
Per determinare il Paese di origine di un prodotto, occorre riferirsi alla normativa europea in materia di origine non preferenziale del prodotto.
Per determinare l’origine doganale non preferenziale di un prodotto possono applicarsi i due seguenti criteri, contenuti all’art. 60 del Codice Doganale dell’Unione: 1) il criterio delle merci interamente ottenute; 2) il criterio dell’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale.
In buona sostanza, tali criteri evidenziano che per le merci alla cui produzione abbiano collaborato due o più Paesi, occorre applicare il criterio stabilito dal secondo comma dell’art. 60 CDU: “Le merci alla cui produzione contribuiscono due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione“.
Il D.L. n. 35/05, convertito nella Legge n. 80/05 ha rafforzato la tutela giuridica del marchio “Made in Italy”.
Il pregio maggiore di questa normativa consiste nell’aver esteso le sanzioni contenute nella Legge Finanziaria del 2004, che si limitava alle “false e fallaci indicazioni di provenienza“, anche alle indicazioni di origine.
2. L’uso improprio del marchio “Made in Italy” nel settore agroalimentare
L’uso improprio del marchio “Made in Italy” è sanzionato penalmente dall’art. 517 c.p., il quale stabilisce: “Chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a ventimila euro“.
Ciò detto, l’utilizzo delle etichette diventa di estrema importanza quando abbiamo a che fare con prodotti alimentari, come per tutti le farine.
Il 26 gennaio è entrato in vigore il regolamento dell’Ue che autorizza la commercializzazione delle larve di Alphitobius diaperinus (verme della farina minore) congelate, in pasta, essiccate e in polvere. La risposta si trova nel regolamento di esecuzione Ue 23/5 2023 della Commissione europea. È infatti questo il testo di legge che ha autorizzato l’immissione sul mercato della polvere parzialmente sgrassata di grillo domestico, quale nuovo alimento.
Tale notizia ha suscitato non poco scalpore soprattutto da parte delle associazioni animaliste e da parte delle associazioni che tutelano i consumatori.
Il DM 26.7.17 ha introdotto l’obbligo di indicare in etichetta la provenienza del grano e il Paese di origine della relativa semola, sulle etichette della pasta prodotta e venduta in Italia, attraverso le diciture: ‘a) «Paese di coltivazione del grano»: nome del Paese nel quale è stato coltivato il grano duro; b) «Paese di molitura»: nome del Paese nel quale è stata ottenuta la semola di grano duro’ (articolo 2 del decreto).
Basta però miscelare grani da vari Paesi per riferire il grano a una ‘origine Pianeta Terra’ («UE», «non UE», «UE e non UE»). Ecco che il miscelare altre farine, specialmente di insetti, non può fare altro che non tutelare i grani e le nostre farine italiane di origine vegetale.
Le norme tecniche nazionali su produzione e vendita delle merci devono venire sempre notificate alla Commissione europea prima della loro messa a punto definitiva, sulla base della direttiva 2015/1535/UE (Technical Regulations Information System), ovvero del regolamento UE 1169/11 (Food Information Regulation), quando esse ambiscano a introdurre requisiti di etichettatura.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sentenza 1 dicembre 2020, ha chiarito che gli Stati membri possono adottare ‘disposizioni che prevedono ulteriori indicazioni obbligatorie d’origine o di provenienza. Sempre che queste ultime rispettino le condizioni elencate nel regolamento n. 1169/2011’. Vale a dire che gli obblighi devono venire giustificati da uno o più motivi (protezione della salute pubblica, protezione dei consumatori, prevenzione delle frodi, protezione dei diritti di proprietà industriale, delle indicazioni di provenienza e delle denominazioni d’origine controllata, repressione della concorrenza sleale), gli Stati membri devono dimostrare l’esistenza di un nesso tra talune qualità degli alimenti di cui trattasi e la loro origine o provenienza. Nonché il valore significativo attribuito dalla maggior parte dei consumatori alla disponibilità di tali informazioni.
3. Come si è espressa la giurisprudenza
Con la Sentenza n. 25030 del 26.4.2017 la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del sequestro effettuato in data 14.10.2015 presso il Porto di Genova, avente ad oggetto circa un milione di chili di spaghetti prodotti in Turchia per un pastificio italiano, e convalidato dal Giudice per le indagini preliminari di Genova con ordinanza del 16.10.2015. Il GIP di Genova aveva ravvisato nella fattispecie il fumus dei reati di cui agli articoli 514 (“frodi contro le industrie nazionali”) e 517 (“vendita di prodotti industriali con segni mendaci”) del Codice Penale, nonché dell’art. 4 comma 49 della Legge 350/2003 (“Finanziaria 2004”), che punisce “l’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza”, stabilendo inoltre che costituisce “falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine; costituisce “fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli”.
Più di recente, il TAR Lazio, con sentenza 25 gennaio 2023, asserisce la legittimità del decreto interministeriale che ha introdotto in Italia l’indicazione obbligatoria dell’origine del grano in etichetta della pasta.
La criptica pronuncia dei giudici amministrativi di Roma sembra tuttavia ignorare la disapplicazione sostanziale del diritto UE da parte dei governi che si sono succeduti.
Il decreto sull’etichettatura di origine del grano nella pasta, secondo quanto riferisce il TAR Lazio, sarebbe stato notificato alla Commissione europea dal governo italiano l’8 settembre 2017, “ovvero con largo anticipo rispetto alla data fissata per l’entrata in vigore del decreto medesimo (febbraio 2018), senza che sia stato mosso alcun rilievo nel merito di segno negativo.“
I quattro decreti ministeriali recanti prescrizione obbligatoria d’origine della materia prima su latticini, pasta di frumento, riso e conserve di pomodoro erano stati presentati come ‘sperimentali’, con efficacia temporale limitata all’1 giugno 2018.
Gli allora primo ministro e ministro per lo Sviluppo Economico, Paolo Gentiloni e Carlo Calenda, con decreto 9 maggio 2018, ricorsero a uno stratagemma incostituzionale – modifica delle preleggi con un decreto ministeriale– per resuscitare i decreti stessi.
Le successive proroghe dei citati decreti, inapplicabili ab origine per vizi di notifica e disapplicazione degli standstill period (con eccezione di quello sulla provenienza del latte) sono di conseguenza illegittime e prive di efficacia.
4. Conclusioni
Alla luce di quanto osservato, occorre rilevare che la lotta alla contraffazione dei prodotti è stata introdotta anche dalla legge 2009 n.99, in cui è stata formalizzata il nuovo reato di contraffazione di indicazione geografica o denominazione di origine dei prodotti del settore agroalimentare. L’intento è stato quello di evitare i casi di violazione industriale che colpiscono gli alimenti.
E così, ad esempio, con riferimento ai prodotti agricoli, la giurisprudenza penale italiana ha affermato che con riguardo alla nozione di “origine” debba intendersi riconducibile alla provenienza geografica e non soltanto imprenditoriale, dunque indipendentemente dalla localizzazione delle fasi di lavorazione.
Il fatto di aver introdotto farine di origine animale, non può fare altro, che non tutelare i prodotti effettivamente DOP e IGP e creare scompiglio nell’acquisto dei prodotti da parte dei consumatori. Il consumatore deve quindi prestare attenzione alle etichette ed ai prodotti che acquista.
A sostegno di quanto appurato, il comma 49 e seguenti dell’art. 4 della Legge 350/2003, fanno espressa menzione su cosa debba intendersi per origine dei prodotti alimentari, ossia il luogo di coltivazione e di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale.
Utilizzare grilli, per poi trasformarli in farina, costituirebbe di per sé anche una violazione del codice penale in materia di uccisione di animali (art.544 bis), uccisi con crudeltà, rilevabile anche quando l’uccisione dell’animale è consentita dalla legge (si pensi a un capretto per poter essere cucinato e mangiato), ma avviene con modalità tali da determinare sofferenze inutili all’animale (si pensi a una mucca spellata viva); la stessa crudeltà utilizzata nei confronti dei grilli, atta a determinare inutili sofferenze, mettendo a rischio l’ecosistema e favorendo invece la grande distribuzione. Tutto ciò detto non può che far lasciare al lettore numerosi spiragli di riflessione.
Sitografia
Decreto su origine del grano in etichetta della pasta, il TAR Lazio e le regole UE – Gift (greatitalianfoodtrade.it)
Made in Italy: la normativa del marchio d’origine più famoso al mondo – IPRights
La tutela del Made in Italy agroalimentare – Avvocato Gentilini
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
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Pietro D'Urso
Giurista, Mediatore civile e commerciale iscritto al ministero della Giustizia, praticante presso ordine avvocati di Firenze