La tutela della salute del detenuto in regime detentivo speciale ai tempi del Coronavirus
Sommario: Premessa – 1. La giurisprudenza nazionale in materia di art. 41-bis – 2. Il diritto ad un ambiente salubre ed il diritto ai trattamenti sanitari necessari – 3. Tutela della salute e concetto di “prevenzione” – 4. Bilanciamento del diritto alla salute con le esigenze di pubblica sicurezza al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo: un approccio casistico
Premessa
Nell’ordinamento italiano, un’annosa quanto mai del tutto composta questione attiene alla compatibilità dei diritti fondamentali di quei detenuti che, in quanto ritenuti particolarmente pericolosi, sono sottratti al regime carcerario ordinario e vengono sottoposti – in virtù del sistema del doppio binario detentivo esistente nel nostro Paese – al regime speciale di cui all’art. 41-bis ord. pen., assai più gravoso dal punto di vista delle limitazioni della libertà personale e, per tale motivo, più esposto a dubbi in ordine alla sua compatibilità con i diritti fondamentali, il cui fondamento è rinvenibile non solo nella Costituzione ma anche in numerose fonti sovranazionali, in particolare nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il problema della compatibilità del regime detentivo speciale con il sistema multilivello di tutela dei diritti fondamentali sembra destinato a sollevare nuovi spunti di riflessione proprio in questi giorni in cui l’Italia, al pari del resto del mondo, si trova a dover fronteggiare l’emergenza sanitaria provocata dal Coronavirus, la cui elevatissima capacità di trasmissione, associata alla nota condizione di sovraffollamento in cui versano le carceri italiane, fa temere per la salute dei detenuti, specie per quelli più anziani o con gravi patologie pregresse.
Orbene, la questione che i magistrati si trovano ruota intorno ad una domanda fondamentale: può l’emergenza sanitaria in atto giustificare l’applicazione di misure alternative alla detenzione nei confronti di soggetti assoggettati al carcere duro?
La questione trae spunto da una circolare del Dap, emanata il 21 marzo 2020 – ovvero quattro giorni dopo l’approvazione del decreto “Cura Italia” con cui il governo affrontava il problema del sovraffollamento – prevedendo gli arresti domiciliari per i detenuti che abbiano una condanna “non superiore a 18 mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena”, e trasmessa per conto del Direttore generale, il dott. Giulio Romano, a tutti gli istituti penitenziari italiani.
Detta circolare, con oggetto generico “Segnalazione all’autorità giudiziaria”, invita a comunicare “con solerzia alla Autorità giudiziaria, per le eventuali determinazioni di competenza”, il nominativo di quei detenuti che abbiano più di 70 anni e siano affetti da determinate patologie.
Ora, è evidente come il decreto “Cura Italia” preveda la possibilità di scontare la pena agli arresti domiciliari solo per quei soggetti, la cui pena sia già in esecuzione, i quali abbiano commesso reati considerati dall’ordinamento di minore gravità, cosa che non è a dirsi per tutti quei soggetti che abbiano commesso reati gravi (come, ad esempio, quelli richiamati dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, maltrattamenti in famiglia o stalking).
Poiché, se il legislatore avesse voluto derogare al regime detentivo speciale, lo avrebbe detto espressamente, in linea teorica dovrebbe ritenersi pienamente operante il regime “ordinario”, con la conseguenza che i detenuti del 41-bis non potrebbero chiedere di scontare la pena rimanente ai domiciliari.
Tuttavia, il documento del Dap non fa alcun richiamo al decreto “Cura Italia” e non fa distinzione tra detenuti in regime ordinario e detenuti in regime speciale. Ed è proprio da questa mancata distinzione che nascono le maggiori difficoltà per i magistrati i quali si troveranno – come di fatto è già avvenuto in qualche caso – a dover bilanciare le esigenze di sicurezza con la tutela del diritto alla salute dei soggetti sottoposti al regime carcerario del 41- bis (non può dimenticarsi come, allo stato attuale, vi sia una “popolazione” di 74 boss assoggettati al regime del carcere duro, a cui si aggiungono le diverse centinaia di detenuti in Alta sicurezza che potenzialmente rientrerebbero nella casistica dei soggetti a rischio).
1. La giurisprudenza nazionale in materia di art. 41-bis
Come detto, il problema del bilanciamento tra le esigenze di tutela dei diritti dei detenuti e le finalità proprie della custodia in carcere diventa particolarmente delicato quando si tratti di soggetti detenuti in regime di 41-bis ove, più che altrove, si assiste ad una notevole compressione dei diritti fondamentali dell’uomo. Suddetta compressione, per quanto riguarda il trattamento penitenziario del detenuto, si può apprezzare in una triplice dimensione: la lesione della dignità personale, la lesione del diritto alla salute, e la compatibilità del “carcere duro” con la tutela dei diritti inviolabili dell’essere umano.
Per quanto riguarda il profilo della tutela del diritto alla salute è quello di operare un giusto bilanciamento tra il diritto alla salute, costituzionalmente garantito, del detenuto e le esigenze di ordine e pubblica sicurezza che pure sono di importanza primaria per garantire la tenuta dell’ordinamento penitenziario. Alla luce dell’articolo 32 della Costituzione, la salute costituisce uno dei beni primari dell’uomo, ed è condizione imprescindibile affinché ogni individuo possa esprimersi liberamente e compiutamente; essa viene riconosciuta come diritto fondamentale della persona e preminente interesse della collettività, e diventa condizione strumentale per il raggiungimento di una migliore qualità della vita[1]. In quanto diritto fondamentale, riconosciuto ad ogni essere umano in quanto tale, il diritto alla salute compete a tutti e, pertanto, anche ai detenuti. Ciò è stato peraltro affermato a chiare lettere dalla Corte costituzionale con sentenza n. 414/1990, nella quale si legge che “il diritto alla salute, così come garantito dalla Costituzione italiana, è anche il diritto alla salute della persona detenuta”.
2. Il diritto ad un ambiente salubre ed il diritto ai trattamenti sanitari necessari
Secondo una recente lettura, il diritto alla salute del detenuto ricomprende anche il diritto ad un ambiente salubre, ovvero il diritto a vivere in un ambiente “degno” per un essere umano. In tal senso, assumono notevole importanza le disposizioni dettate dall’ordinamento penitenziario in relazione ai locali di soggiorno e pernottamento, alle loro condizioni igieniche, di areazione e di illuminazione, all’uso dei servizi igienici, all’alimentazione e alla permanenza all’aria aperta per un determinato tempo ogni giorno. Un profilo centrale del diritto alla salute, come tutelato dall’art. 32 della Costituzione, attiene al diritto a ricevere trattamenti sanitari necessari alla tutela della salute. Sul punto, la legge del 1975 sull’ordinamento penitenziario ha dettato poche disposizioni, stabilendo i principi generali riguardanti tutti gli interventi di carattere medico e paramedico che sono finalizzati a garantire, da un lato, la conservazione delle buone condizioni di salute dei detenuti, e, dall’altro lato, ad assicurare le cure opportune in caso di infermità o di altre esigenze sanitarie. Allo scopo di introdurre una normativa più dettagliata, il legislatore ha emanato il d.lgs. 230/1999, che ha riorganizzato la medicina penitenziaria nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, sancendo il riconoscimento della piena parità di trattamento, in tema di assistenza sanitaria, degli individui liberi e dei detenuti e internati, la necessità di una piena e leale collaborazione interistituzionale, e la garanzia, compatibilmente con le misure di sicurezza, di condizioni ambientali e di vita rispondenti ai criteri di rispetto della dignità della persona. Nonostante gli interventi legislativi citati, il problema della tutela del diritto alla salute dei detenuti con il regime detentivo ha destato, e continua a destare, notevoli problemi di compatibilità, impegnando non solo i giudici nazionali ma, come si vedrà, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha utilizzato il parametro dell’art. 3 della CEDU per condannare l’Italia della mancata tutela della salute di taluni detenuti.
3. Tutela della salute e concetto di “prevenzione”
Il problema della tutela della salute dei detenuti non si pone esclusivamente rispetto alla cura delle malattie di cui essi eventualmente soffrano, rilevando altresì in termini di prevenzione di quelle malattie che gli stessi potrebbero contrarre a causa delle inadeguate condizioni igieniche e dell’insalubrità dell’ambiente in cui sono costretti a vivere; in ordine a tali circostanze, di volta in volta, sono chiamati a pronunciarsi i giudici investiti dei contrasti emersi, nelle concrete fattispecie detentive, tra diritto alla salute del detenuto e misure privative della libertà personale verificando se, in concreto, l’istituto penitenziario si sia concretamente attivato per garantire adeguate condizioni di salute – sia in termini di cura delle malattie sia in termini di salubrità dell’ambiente carcerario – al soggetto recluso. In tali casi, al giudice del caso concreto viene richiesto di bilanciare la protezione del diritto alla salute del detenuto con le finalità di ordine e sicurezza imposte dall’ordinamento penitenziario.
L’esistenza, all’interno dell’ordinamento italiano, di un regime detentivo rigido qual è quello del 41-bis, suscettibile di produrre una forte compressione dei diritti fondamentali, ha generato numerose pronunce della Corte costituzionale, la quale, nel ritenere il 41-bis costituzionalmente legittimo, ha preliminarmente riconosciuto che “la lettera della disposizione normativa, col riferimento a generici motivi ed esigenze di ordine e sicurezza pubblica, pare consentire, in relazione al solo titolo del reato, l’applicazione di un regime derogatorio indeterminato e dunque non vincolato a specifici contenuti né a specifiche finalità congruamente perseguibili nei limiti delle competenze attribuite all’amministrazione carceraria” (Corte cost., sentenza n. 376/1997). A partire dalla sentenza n. 349/1993, la Corte costituzionale ha specificato la necessità di una puntuale motivazione dei provvedimenti ministeriali, in modo da consentire al detenuto un’adeguata tutela giurisdizionale, individuando due limiti che il provvedimento non deve valicare: il limite esterno, alla luce del quale non è possibile adottare misure restrittive della libertà personale del detenuto (ossia attinenti a qualità e quantità della pena ed alla misura della sua residua libertà personale), ma solo misure rientranti nell’ambito di competenza dell’amministrazione penitenziaria, attinenti alle concrete modalità di attuazione del regime carcerario, rispettose dei diritti del detenuto; il limite interno invece attiene all’esigenza “intrinseca” del 41-bis, che impone la limitazione delle restrizioni a quelle riconducibili alla concreta esigenza di tutela dell’ordine e della sicurezza, e che siano congrue allo scopo. In assenza di tale congruità, si è in presenza di deroghe al regime carcerario del tutto ingiustificate, e finalizzate soltanto ad avere portata puramente afflittiva.
Resta fermo il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e quello di vanificare del tutto la finalità rieducativa della pena. La Corte costituzionale, in più occasioni, ha fatto discendere dal vincolo costituzionale la lettura più restrittiva possibile dell’art. 41-bis, rinvenendo in quest’ultimo le finalità di prevenire e impedire i collegamenti tra detenuti appartenenti a organizzazioni criminali, nonché fra questi e gli associati ancora in libertà, escludendo che esista una categoria di detenuti soggetti ad un regime detentivo meno permissivo sulla sola base del titolo di reato, e ponendo invece l’attenzione su “singoli detenuti, condannati o imputati per delitti di criminalità organizzata, che l’amministrazione ritenga, motivatamente e sotto il controllo dei Tribunali di Sorveglianza, in grado di partecipare, attraverso i loro collegamenti interni ed esterni, alle organizzazioni criminali e alle loro attività” (Corte cost., sent. n. 376/1997). La proroga del regime detentivo speciale, come ribadito dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 417/2004, dovrà riposare su una “autonoma, congrua motivazione in ordine alla permanenza attuale dei pericoli per l’ordine e la sicurezza che le misure medesime mirano a prevenire”, non potendosi ammettere “semplici proroghe immotivate del regime differenziato, né motivazioni apparenti o stereotipe”.
Il diritto alla salute rientra certamente tra i diritti per i quali è maggiore la difficoltà di bilanciamento con le esigenze di ordine e sicurezza tutelate dal regime detentivo speciale. Sul diritto alla salute, unanimemente ritenuto incomprimibile, la Corte Costituzionale si è espressa con ordinanza n. 390 del 10 – 23 luglio 2002, la quale, pur risolvendosi in una pronuncia di manifesta infondatezza della questione sottopostale, ha delimitato (rectius: mantenuto) le competenze del giudice della cognizione rispetto a quelle della magistratura di sorveglianza[2]. In particolare, nella citata ordinanza, la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi su una questione avente ad oggetto la compatibilità del diritto alla salute di un detenuto imputato con il regime detentivo speciale. Nel caso di specie, la Corte d’assise di Santa Maria Capua Vetere ha sollevato una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il comma 2-bis dell’art. 41-bis, nella parte in cui non attribuisce all’autorità giudiziaria procedente il potere di sindacare il contenuto del decreto ministeriale di sottoposizione al regime detentivo speciale, nei limiti in cui tale verifica si renda assolutamente necessaria nell’ottica di tutela del diritto alla salute del detenuto. Secondo il giudice remittente, la disposizione in parola si poneva in aperto contrasto con talune norme costituzionali: con l’articolo 32, che preclude al giudice procedente qualsiasi intervento modificativo a fini terapeutici del provvedimento ministeriale di sospensione, e con gli articoli 3 e 101, in quanto il medesimo giudice risulta “irragionevolmente destinatario di determinazioni insindacabili dell’autorità amministrativa che incidono sui diritti del soggetto imputato”. Nel caso di specie, il giudice a quo era chiamato a decidere su una richiesta di revoca o sostituzione, per motivi di salute, della custodia cautelare in carcere di un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale, ed affetto da un disturbo psichico che si assumeva essere incompatibile con il carcere duro, soprattutto perché gli consentiva assai limitate possibilità di colloqui con i familiari. L’Amministrazione penitenziaria, invitata dalla Corte d’assise ad incrementare – a fini terapeutici – il numero degli incontri mensili del detenuto coi propri familiari, aveva così disposto l’ammissione temporanea dell’imputato a due colloqui mensili. Successivamente, rilevato come l’incremento degli incontri non avesse aggravato il quadro patologico, la Corte d’assise chiese all’Amministrazione di ammettere, in via definitiva, il detenuto a quattro colloqui mensili, ottenendo tuttavia risposta negativa. Nel prendere in esame la nuova richiesta di revoca, il giudice rimettente rilevava che, in base alla formulazione del comma 2-bis dell’art.41-bis, il controllo giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento ministeriale è demandato, in via esclusiva, al tribunale di sorveglianza, mentre al giudice procedente, seppur competente a valutare l’adeguatezza della misura cautelare in atto, non è consentito sindacare il contenuto delle prescrizioni ministeriali, neppure al fine di tutelare il diritto alla salute del detenuto. Con ordinanza n. 390/2002, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del comma 2-bis dell’art. 41-bis con gli articoli 3, 32 e 101 della Costituzione, rilevando come, se si attribuisse anche al giudice procedente la possibilità di sindacare il contenuto del decreto ministeriale di sospensione delle ordinarie regole di trattamento penitenziario, ne deriverebbe una sovrapposizione delle competenze del giudice di cognizione e del tribunale di sorveglianza , potenzialmente suscettibile di dar luogo a contrasti di pronunce tra i due giudici. Ad oggi, in virtù della citata pronuncia della Corte costituzionale, permane una tutela della salute dell’imputato ristretto in 41-bis “sdoppiata”, affidata in questa fase a diversi organi: il giudice che procede, individuato dall’art. 279 c.p.p.; il magistrato di sorveglianza in sede di reclamo, ex art. 35-bis e 69, co. 6, lett. b) ord. pen. Ciascuno dei soggetti summenzionati è dotato di strumenti e poteri differenti: il primo, investito di una eventuale richiesta di revoca della misura, a mente dell’art. 299 c.p.p., pur non potendo verificare la congruità delle prescrizioni del decreto ministeriale, dovrà revocare tout court la misura carceraria, se in concreto incompatibile con la malattia; in capo al magistrato di sorveglianza, in prima battuta, rimane invece il potere di modificare le determinazioni dell’autorità amministrativa lesive della salute del detenuto. Il contenuto del sistema è, dunque, una tutela suscettibile di prestarsi ad alcune distorsioni: l’esito potenzialmente più favorevole alle istanze dell’imputato detenuto può essere ottenuto presentando la richiesta di revoca o sostituzione della misura, in quanto all’eventuale accoglimento del reclamo conseguirebbe invece la sola disapplicazione della restrizione pregiudizievole per la salute, e quindi della causa di incompatibilità con la cautela in carcere in regime di 41-bis. A tale perplessità si aggiunge una differenziazione dei meccanismi di controllo la cui ratio, invero, sfugge, a meno di non volerla individuare nella maggiore specializzazione della magistratura di sorveglianza[3], così sacrificando, tuttavia, una più efficace ed incisiva tutela del diritto alla salute.
In tempi più recenti, la Corte costituzionale ha tentato di individuare i parametri concretamente utilizzabili per effettuare il controllo di legittimità delle misure limitative della libertà personale ed i diritti fondamentali del detenuto, in primis il diritto alla salute. In particolare, con sentenza n. 143/2013, la Corte costituzionale ha chiarito che il controllo sull’operato dell’Amministrazione penitenziaria è soggetto ad un principio di stretta proporzionalità tra la compressione del diritto fondamentale della persona detenuta e la corrispondente salvaguardia delle esigenze preventive al cui soddisfacimento il regime detentivo speciale è preposto, atteso che “nelle operazioni di bilanciamento, non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango”[4]). Il secondo parametro idoneo a verificare la legittimità dell’operato dell’Amministrazione ruota intorno al concetto, elaborato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, del “minimo sacrificio necessario”, alla luce del quale le restrizioni devono essere somministrate nella misura strettamente necessaria ad assolvere le esigenze preventive. La Corte costituzionale richiama infine, quale principio utilizzabile, quello della concreta offensività, il quale attiene alla circostanza che le misure limitative delle facoltà soggettive dei detenuti hanno motivo di sussistere solo se, e nella misura in cui, sussistano effettivamente quelle esigenze di natura preventiva alle quali il legislatore ha normativamente collegato l’applicazione di quelle determinate modalità esecutive. Laddove fosse possibile l’utilizzo di meno rigorose modalità esecutive, in linea con le esigenze preventive, queste andrebbero certamente preferite, onde scongiurare la compressione dei diritti dei detenuti ben oltre quanto risulti strettamente necessario a raggiungere i benefici che si vogliono ottenere.
Di recente, con sentenza n. 186/2018, la Corte costituzionale ha rinvenuto il divieto di cuocere cibi una violazione del diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Costituzione, in quanto suddetto divieto non consentirebbe al detenuto di seguire la dieta più appropriata per le proprie condizioni di salute psico-fisica. In tale ipotesi, la Corte costituzionale ha fondato la dichiarazione di illegittimità costituzionale sulla rilevata incongruità (ovvero sul limite “interno” di cui si è parlato poc’anzi) della restrizione rispetto alle finalità di prevenzione del regime differenziato, così derogando ingiustificatamente l’ordinario regime carcerario e, pertanto, configurando una misura meramente afflittiva. Per tal via, la Corte costituzionale ha dichiarato il divieto di cuocere cibi, quando ciò sia necessario in ragione delle condizioni di salute del detenuto, illegittimo per violazione degli articoli 3 e 27 della Costituzione. La sentenza in parola è stata animata dalla preoccupazione, per la verità presente in svariate pronunce, della Corte costituzionale di evitare che il detenuto acquisisca potere e prestigio criminale all’interno del carcere. Ciò, in concreto, potrebbe avvenire in svariati modi tra i quali, rientra, secondo la Consulta, anche la disponibilità di generi alimentari di particolare pregio. In maniera condivisibile, la Corte costituzionale ha rilevato che l’acquisizione di potere legata al possesso di generi alimentari di pregio non passa necessariamente dalla possibilità di cuocerli, ben potendo derivare dalla disponibilità di generi alimentari da consumare crudi. In secondo luogo, la Corte ha rilevato che l’obiettivo di evitare l’acquisizione di posizioni di potere può essere realizzato mediante l’applicazione delle regole penitenziarie ordinarie, che limitano la ricezione, l’acquisto ed il possesso di generi alimentari da parte dei detenuti. Da ultimo, la Corte costituzionale ha ritenuto che il divieto di cuocere cibi non fosse nemmeno giustificato alla luce di particolari esigenze di ordine e sicurezza posto che, per un verso, suddetto divieto vorrebbe evitare contatti tra il detenuto e le imprese presso cui acquista i generi alimentari e, al contempo, sottrarre al detenuto la possibilità di entrare in possesso di utensili potenzialmente pericolosi; per altro verso, tuttavia, anche i detenuti del 41-bis possono sia effettuare acquisti limitati al c.d. sopravvitto, ben potendo dunque entrare in contatto con le imprese fornitrici, sia disporre di un fornello personale per riscaldare liquidi e cibi già cotti. Alla luce di queste osservazioni, appare del tutto condivisibile l’operato della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il divieto di cuocere cibi di cui all’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), ord.pen. per contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. A ben riflettere, un atteggiamento più rigido della Corte costituzionale non avrebbe apportato alcun beneficio all’ordinamento italiano e quasi certamente, come avvenuto in altri casi, avrebbe consegnato l’Italia ad una sicura condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo cui il detenuto si fosse eventualmente rivolto per ottenere la tutela che gli era stata negata all’interno del proprio Paese. L’atteggiamento della Corte costituzionale, spesso chiamata a valutare la legittimità delle misure adottate nei confronti dei detenuti in regime speciale, si distingue per equilibrio e proporzionalità, in quanto pone in primo piano la necessità di una valutazione individualizzata degli effetti del regime, in ossequio al principio di trattamento individualizzante che informa l’ordinamento penitenziario italiano.
4. Bilanciamento del diritto alla salute con le esigenze di pubblica sicurezza al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo: un approccio casistico
Il regime del 41-bis ord.pen. ha posto, fin dalle sue primissime applicazioni, problemi di compatibilità con i diritti dei detenuti che, in quanto ritenuti particolarmente pericolosi, venivano sottratti al regime carcerario ordinario per essere sottoposti a quello speciale, assai più gravoso dal punto di vista delle limitazioni della libertà personale e, per questo, più esposto a dubbi in ordine alla sua compatibilità con i diritti umani.
Non a caso, moltissime delle pronunce della Corte EDU hanno avuto ad oggetto lamentate violazioni dei diritti umani da parte di detenuti sottoposti al regime del 41-bis.
Analizzando le pronunce della Corte EDU in materia, si evince chiaramente come l’approccio dei giudici di Strasburgo sia strettamente casistico, ossia volto ad accertare in concreto, volta per volta, la compatibilità del trattamento penitenziario del singolo detenuto in regime di 41-bis con i diritti fondamentali e – in particolare – con il diritto alla salute.
Proprio per quanto riguarda il diritto alla salute, sin dalle primissime pronunce, i giudici della Corte di Strasburgo hanno astrattamente ritenuto il regime detentivo speciale compatibile con i diritti umani, salvo poi specificare che suddetta compatibilità vada necessariamente accertata nel singolo caso concreto guardando, da un lato, alle concrete ed attuali condizioni di salute del detenuto e, dall’altro, alle reali possibilità che ha l’istituto penitenziario coinvolto di farvi fronte in maniera adeguata, senza rinunciare alle proprie esigenze di ordine e sicurezza pubblica e tuttavia senza dar luogo ad un trattamento penitenziario del tutto confliggente ed inadeguato rispetto allo stato di salute del detenuto.
Da ciò deriva inevitabilmente che, in ragione delle personali condizioni di salute di ciascuno, per un certo detenuto il regime detentivo speciale potrà risultare compatibile con il diritto alla salute, mentre per un altro soggetto, detenuto nel medesimo istituto, la sottoposizione al regime del 41-bis potrà essere ritenuto incompatibile con le sue particolari condizioni fisiche.
La circostanza da ultimo richiamata se, da un lato, attribuisce alle autorità competenti quel margine di discrezionalità imprescindibile per apprezzare le particolari sfumature di ciascun caso concreto, onde meglio adattare gli istituti previsti nel nostro ordinamento alle reali esigenze ed alle speciali condizioni del singolo detenuto, dall’altro lato essa, proprio perché rimessa a valutazioni e scelte umane e, in quanto tali, per antonomasia fallibili, può porre problemi di compatibilità, ancor prima che con le norme contenute nella CEDU, con il principio di uguaglianza sancito all’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui due soggetti, sottoposti al medesimo regime detentivo speciale, possibilmente con condizioni di salute quasi identiche, si trovassero a subire due scelte opposte da parte delle autorità competenti le quali, in un caso, potrebbero ritenere compatibile il mantenimento del detenuto nel circuito del regime detentivo speciale e, in un altro caso, ritenere l’esatto contrario.
Tralasciando la questione appena menzionata – la quale richiederebbe un’autonoma trattazione allo scopo di chiedersi quali modifiche legislative potrebbero apportarsi alla materia del regime detentivo speciale onde renderlo meno vulnerabile, essendo esposto a critiche ed a sospetti di illegittimità e, pertanto, attaccabile da parte dei detenuti ad esso assoggettati – merita di essere ribadito, all’esito delle riflessioni svolte nel presente elaborato, il delicatissimo ruolo e la fiducia che il legislatore ha riposto, nella creazione legislativa del regime del 41-bis, nella Magistratura di sorveglianza, da un lato, e nella persona del Ministro della Giustizia, dall’altro.
Tali soggetti svolgono un ruolo essenziale in tema di trattamento penitenziario dei detenuti e, pertanto, nelle loro mani è rimessa la tenuta del regime detentivo speciale il quale, troppo spesso, è reso vulnerabile proprio da chi dovrebbe salvaguardarlo attraverso scelte ponderate, che rappresentino il necessario compromesso tra primarie esigenze di sicurezza ed altrettanto primarie esigenze di tutela dei diritti dell’uomo.
Un calibrato bilanciamento tra i diversi valori in gioco, oltre a consentire una migliore gestione degli istituti penitenziari, rappresenta l’unica strada percorribile per evitare ulteriori sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte EDU, com’è avvenuto, da ultimo, nel caso Provenzano.
Proprio il caso Provenzano è la dimostrazione più concreta di come la prospettiva di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, di cui la Corte EDU si è fatta portavoce negli ultimi decenni, nella direzione di una progressiva affermazione della superiorità dei diritti e delle libertà della persona, impone alla Magistratura di Sorveglianza di rivedere le proprie posizioni, spesso troppo intransigenti rispetto alle istanze dei detenuti, e di lavorare affinché il proprio operato sia ineccepibile.
A nessun operatore del diritto può sfuggire come, nell’analisi di ogni istituto giuridico, sia imprescindibile una riflessione che parta da due assunti fondamentali: quello per cui viviamo in uno Stato di diritto in cui all’apice della gerarchia delle fonti si trova la Costituzione, e quello in base al quale, allo stato attuale, nessuno Stato può più ritenersi libero, entro i propri confini nazionali, di agire liberamente, essendo ormai inesorabilmente sottoposto al sindacato di numerose istanze sovranazionali, pronte a garantire al cittadino la tutela che il proprio Paese non gli garantisce.
Da questa doverosa premessa deriva che qualsiasi valutazione in termini di legittimità o di opportunità di una norma o di un istituto giuridico deve necessariamente cedere il passo ad una valutazione di conformità, da un lato, con i principi costituzionali e, dall’altro, con le fonti sovranazionali.
Il legislatore non può ignorare questi vincoli, neanche in nome della lotta alla criminalità organizzata, dovendo sempre tendere ad una pena umana affidandosi, a tal fine, all’operato della Magistratura di Sorveglianza che gioca un ruolo strategico nella ricerca di un virtuoso dialogo tra regime detentivo e diritti umani.
Occorre, dunque, coniugare trattamento dei detenuti con le esigenze di sicurezza interna ed esterna al carcere, nell’ottica della realizzazione di un sistema pienamente in linea con il dettato costituzionale e, in particolare, con l’articolo 27 della Costituzione, ai sensi del quale “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
[1] Fiorio C., Libertà personale e diritto alla salute, Cedam, 2002, p. 37.
[2] L. Cesaris, Tutela della salute ed esigenze cautelari per gli imputati detenuti in regime ex art. 41-bis comma 2 ord. pen.: un equilibrio difficile, forse impossibile, in Cass. Pen., 2003, p. 2279; 16V. Grevi, Gravi condizioni di salute dell’imputato e custodia cautelare in carcere, in Dir. pen. proc., 1995, pp. 159 ss.; per una più ampia trattazione, 17M. Caredda, La salute e il carcere. Alcune riflessioni sulle risposte ai bisogni di salute della popolazione detenuta, in http://www.costituzionalismo.it/articoli/519/
[3] M.G. Coppetta, La tutela del diritto alla salute dei detenuti in regime di sospensione delle regole trattamentali, in Giur. Cost., 2002, p. 3328
[4] G. Sciacca, Il bilanciamento degli interessi come tecnica di controllo costituzionale, in Giur. cost., 1998, pp. 3953 ss.
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Roberta Aleo
Nasce a Palermo nel 1991. Dopo la maturità classica si laurea nel 2017 in Giurisprudenza presentando una tesi sperimentale dal titolo "Le strutture investigative di contrasto alla criminalità organizzata".
Nel 2019 consegue il diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni legali presentando una tesi dal titolo "Rapporti tra carcere duro ed esigenze di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti".
Tirocinante presso il Tribunale e la Procura della Repubblica ed abilitata all'esercizio della professione forense, collabora alla stesura di testi ed articoli giuridici con riviste scientifiche e studi legali.
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