La tutela della vittima del reato: l’accertamento della condizione di particolare vulnerabilità

La tutela della vittima del reato: l’accertamento della condizione di particolare vulnerabilità

Il legislatore comunitario, soprattutto negli ultimi anni, ha prestato grande attenzione alle vittime di reato, al fine di sviluppare un efficace sistema di tutela e protezione.

Al riguardo, fondamentale è stata la Direttiva 2012/29/UE del 25.10.2012, che ha introdotto nuove norme in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

Tale normativa è suddivisa in quattro categorie principali dedicate, rispettivamente, al diritto della vittima all’informazione (artt. 3-7), al diritto di accedere ai servizi di assistenza (artt. 8-9), al diritto di partecipare al procedimento penale (artt. 10-17) ed, infine, al diritto di ricevere protezione (artt. 18-23).

La Direttiva è stata recepita nell’ordinamento italiano con il Decreto Legge 15 dicembre 2015 n. 212 (entrato in vigore il 20 gennaio 2016), provvedimento che ha modificato otto articoli del codice di procedura penale (artt. 90, 134, 190 bis, 351, 362, 392, 398 e 498 c.p.p.), introdotto quattro nuovi articoli (artt. 90 bis, 90 ter, 90 quater e 143 bis c.p.p.) e due norme di attuazione (artt. 107 ter e 108 ter disp. att.).

Tra le novità maggiormente significative va annoverata sicuramente l’introduzione dell’art. 90 quater c.p.p., che disciplina la “condizione di particolare vulnerabilità”.

La norma fornisce una sorta di criterio generale per stabilire la sussistenza di tale condizione in capo alla persona offesa.

Innanzitutto, essa va desunta dall’età, dall’eventuale stato di infermità o deficienza psichica della vittima nonché dalla presenza di una situazione di dipendenza psicologica, economica o affettiva dall’autore del reato.

Fondamentale è, inoltre, la valutazione circa la tipologia, le modalità e le circostanze del reato; sotto detto profilo, è necessario verificare se l’illecito è stato commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata, di terrorismo o di tratta degli esseri umani ovvero se si caratterizza per finalità di discriminazione.

Il riconoscimento di tale condizione attribuisce alla persona offesa maggiori tutele in sede processuale.

In particolare, la nuova formulazione dell’art. 134 c.p.p. consente, anche al di fuori delle ipotesi di assoluta indispensabilità, la riproduzione delle dichiarazioni della persona offesa che versa in condizione di particolare vulnerabilità.

La modifica dell’art. 190 bis c.p.p. ha esteso all’ipotesi prevista dall’art. 90 quater c.p.p. la regola della irripetibilità delle dichiarazioni rese in sede di incidente probatorio o di esame dibattimentale, ad esclusione dei casi in cui la nuova audizione abbia ad oggetto fatti o circostanze diverse ovvero se il giudice lo ritiene necessario in base a specifiche esigenze.

Per quanto riguarda la fase delle indagini preliminari, il legislatore ha previsto la possibilità per la Polizia Giudiziaria e per il Pubblico Ministero di avvalersi di un consulente esperto in psicologia o psichiatria qualora debbano essere sentite persone che versano in condizione di particolare vulnerabilità (artt. 351, comma 1 ter e 362, comma 1 bis c.p.p.); è stata altresì introdotta la possibilità di assumere la testimonianza della vittima tramite incidente probatorio (art. 392, comma 1 bis c.p.p.).

Infine, l’introduzione del comma 5 quater dell’art. 398 c.p.p. ha attribuito al giudice il potere di disporre che l’audizione avvenga con modalità protette.

La norma in esame, laddove applicata correttamente, permette di realizzare due esigenze fondamentali del processo penale.

Da un lato, consente di assicurare alle vittime particolarmente vulnerabili una maggiore tutela non solo nei confronti dell’autore del reato, ma anche delle dinamiche processuali; bisogna ricordare, infatti, che tra gli scopi della Direttiva del 2012 vi è quello di evitare la c.d. vittimizzazione secondaria, ovvero le conseguenze pregiudizievoli derivanti dal contatto tra la persona offesa e il sistema giudiziario.

Dall’altro lato, la nuova disciplina contribuisce a garantire la genuinità della prova assunta nel corso del procedimento, tutelando l’interesse tanto della vittima quanto dell’imputato, al fine di dare piena attuazione al principio del giusto processo sancito dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU.

Tuttavia, non può negarsi che la norma ex art. 90 quater c.p.p., seppur retta da un intento ammirevole, presta il fianco a diverse critiche.

Quanto all’ambito di applicazione del nuovo sistema di protezione, la Direttiva, all’art. 2, comma 1, faceva riferimento alla vittima del reato, intesa sia come “persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato” sia come “familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona”.

È evidente che tale nozione comprende non solo la figura della persona offesa, ossia il titolare del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, ma anche quella del danneggiato, ossia colui che, in conseguenza dell’illecito, subisce un danno, posizioni che non sempre convergono in capo al medesimo soggetto.

Tuttavia, le modifiche apportate dal legislatore italiano hanno riguardato esclusivamente il Titolo VI del codice di rito relativo alla persona offesa, escludendo così per il danneggiato (ma anche per le persone informate sui fatti e per i testimoni) la possibilità di accedere alla speciale tutela accordata dagli artt. 90 bis e ss. c.p.p.

Anche in merito alla valutazione della sussistenza della condizione di particolare vulnerabilità la nuova norma non è esente da rimproveri.

Il legislatore comunitario aveva fornito una definizione di vulnerabilità volutamente slegata da presupposti specifici, al fine di consentire una valutazione basata esclusivamente sulle circostanze del caso concreto; in particolare, l’art. 22, comma 1 della Direttiva n. 29/2012 così recitava: “Gli Stati membri provvedono affinché le vittime siano tempestivamente oggetto di una valutazione individuale, conformemente alle procedure nazionali, per individuare le specifiche esigenze di protezione e determinare se e in quale misura trarrebbero beneficio da misure speciali nel corso del procedimento penale, come previsto a norma degli articoli 23 e 24, essendo particolarmente esposte al rischio di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni”; solo i successivi commi 2 e 3 indicavano, quali elementi da tenere in considerazione ai fini della concessione delle misure di protezione, “le caratteristiche personali della vittima, il tipo o la natura del reato e le circostanze del reato”, con l’ulteriore indicazione di prestare particolare attenzione alle “vittime che hanno subito un notevole danno a motivo della gravità del reato, alle vittime di reati motivati da pregiudizio o discriminazione che potrebbero essere correlati in particolare alle loro caratteristiche personali, alle vittime che si trovano particolarmente esposte per la loro relazione e dipendenza nei confronti dell’autore del reato. In tal senso, sono oggetto di debita considerazione le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata, della tratta di esseri umani, della violenza di genere, della violenza nelle relazioni strette, della violenza o dello sfruttamento sessuale o dei reati basati sull’odio e le vittime con disabilità”.

L’art. 90-quater c.p.p., invece, discostandosi in parte da tali indicazioni, ha previsto criteri piuttosto rigidi, legati, sotto il profilo oggettivo, alla tipologia e alle modalità del reato e, sotto quello soggettivo, alle caratteristiche personali della vittima, requisiti la cui mancanza è ostativa alla concessione del beneficio.

Il rischio, dunque, è quello di precludere la protezione a vittime che, pur trovandosi in condizione di vulnerabilità, non rientrano nel catalogo di cui all’art. 90 quater c.p.p.

Un altro aspetto da non sottovalutare riguarda i soggetti cui è demandata la valutazione.

La Camera dei Deputati, in attuazione di quanto previsto dalla Direttiva, aveva invitato il Governo italiano a istituire un vero e proprio procedimento che prevedesse la partecipazione attiva dei servizi sociali e di esperti in psicologia.

La formulazione della norma, invece, sembra attribuire tale compito esclusivamente all’Autorità Giudiziaria, la quale però non sempre possiede le competenze necessarie per effettuare correttamente tale accertamento.

In conclusione, nonostante le critiche di cui si è detto in precedenza, l’introduzione nell’ordinamento italiano della categoria della “condizione di particolare vulnerabilità” deve sicuramente essere valutata in termini positivi: si tratta, infatti, di un importante strumento nelle mani dell’Autorità Giudiziaria per assicurare una tutela efficace alle vittime di reato, sempre che nel corso del tempo non si giunga ad un uso generalizzato della norma che sminuirebbe la ratio ispiratrice dell’intera disciplina.


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