La tutela dell’ambiente tra diritto ed economia
La materia ambientale sta assumendo un’importanza sempre crescente nell’ambito, sia del diritto che dell’economia, al punto da costituire oggetto di significative modificazioni legislative e pronunce giurisprudenziali, a diversi livelli.
Se, come noto, ambiente e mercato trovano, spesso, a fatica, una qualche forma di equilibrio, si riscontrano, tuttavia, nella realtà attuale, interessanti punti di incontro che coinvolgono molti degli ambiti dei quali si compone la tematica della tutela ambientale. La stessa è notoriamente materia trasversale e complessa che tocca il diritto come il mondo economico ed è proprio tale commistione a risultare centrale nell’analisi in oggetto[1].
Ad oggi, infatti, la tutela dell’ambiente non è rimessa più soltanto ai tradizionali strumenti pubblicistici di comando e controllo, quali normative tecniche, autorizzazioni, atti di programmazione, sanzioni amministrative (etc. …), ma anche a strumenti di mercato elaborati all’uopo.
La ragione che sottende tale evoluzione risiede nel fatto che i primi, eccessivamente rigidi e standardizzati, sono risultati poco adattabili alle diverse realtà di fatto, pertanto, inefficaci, da soli, nel prevenire e contrastare forme di aggressione all’ambiente ed alla salute umana. Analogalmente, la dottrina ha anche messo in luce l’insufficienza, ai medesimi fini, della sola tutela privatistica dei diritti e della responsabilità civile. Ne consegue che la tutela ambientale risulta ormai garantita dall’utilizzo integrato di strumenti pubblicistici, economici e di mercato, oltre che privatistici.
L’esigenza di dare impulso agli strumenti di mercato è stata primariamente intercettata a livello internazionale e comunitario, al punto che nel 2007 veniva emanato il cosiddetto Libro Verde della Commissione Europea “sugli strumenti di mercato utilizzati a fini di politica ambientale e ad altri fini connessi”; da qui, la messa a punto di strumenti che, in alternativa o congiuntamente a quelli autoritativi, vengono utilizzati da chi promuove politiche in tal senso. A tale proposito, autorevoli commentatori sostengono che “strumenti autoritativi e strumenti economici vanno amalgamati e servono congiuntamente, poiché i difetti degli uni sono mitigati dai pregi degli altri” e “la complessità evolutiva del sistema ambientale rende velleitaria ogni presunzione di comando e di controllo, all’insegna della rigidità e dell’accentramento”[2]. Pertanto, a voler tentare una sintesi, non esiste ad oggi uno strumento privilegiato che da solo possa garantire in modo esaustivo la tutela dell’ambiente, trattandosi di materia con una spiccata incidenza in diversi settori.
Se il mercato entra nell’alveo della tutela ambientale, gli esempi di strumenti di tal genere sono diversi e numerosi: marchi di qualità ecologica, certificazioni di qualità ambientale[3], incentivi alla produzione di prodotti ecocompatibili, mercati artificiali di permessi e certificati negoziabili, appalti verdi; ma anche sussidi per costruzione e/o ammodernamento di impianti depurativi e disinquinanti, tassazione in caso di emissioni inquinanti, acque reflue, prodotti pericolosi e inquinanti etc… . Fattispecie che dimostrano come le imprese siano sempre più tenute a produrre, tutelando nel contempo l’ambiente, oltre a farsi carico delle proprie esternalità negative[4].
Evidente la differenza tra i vari strumenti economici di tutela ambientale, in quanto se alcuni prescindono dall’adozione di misure autoritative da parte delle autorità pubbliche -che si fanno al più promotrici di tali strumenti– altri richiedono, invece, l’intervento diretto dello Stato per essere attuate. Inoltre, tra gli interventi regolatori dello Stato, se alcuni hanno una funzione meramente correttiva del mercato, altri creano ab origine mercati artificiali.
Una fattispecie nella quale il potere pubblico assume funzioni regolative-correttive del mercato è data dagli appalti verdi (GPP Green Public Procurement); in tal caso, il fattore ambientale entra nella contrattazione pubblica, determinando la pubblica amministrazione verso politiche e soluzioni di acquisto di beni e servizi ecocompatibili. A riguardo, il novellato Codice dei Contratti Pubblici all’art. 34 stabilisce che “1. Le stazioni appaltanti contribuiscono al conseguimento degli obiettivi ambientali previsti dal Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione attraverso l’inserimento, nella documentazione progettuale e di gara, almeno delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi adottati con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (…) 2. I criteri ambientali minimi definiti dal decreto di cui al comma 1, in particolare i criteri premianti, sono tenuti in considerazione anche ai fini della stesura dei documenti di gara per l’applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi dell’articolo 95, comma 6. (…) 3. L’obbligo di cui ai commi 1 e 2 si applica per gli affidamenti di qualunque importo, relativamente alle categorie di forniture e di affidamenti di servizi e lavori oggetto dei criteri ambientali minimi adottati nell’ambito del citato Piano d’azione.” [5]
In ogni modo, nonostante il Codice degli Appalti abbia reso obbligatorio e non più opzionale, in capo alla pubblica amministrazione, il rispetto dei Criteri Ambientali Minimi (Cam) nelle procedure contrattuali, l’utilizzo di tale strumento risulta, nella pratica, ancora fallace, limitando di fatto lo sviluppo di un’economia circolare[6]. Le nuove frontiere del diritto ambientale si attestano, infatti, sulla capacità di autorigenerazione dell’economia, ovvero sul riciclo dei materiali in cicli produttivi successivi, con una conseguente limitazione di sprechi ed esaurimento di risorse naturali. Sulla stessa linea si pone quanto previsto dall’art. 69 Codice dei Contratti Pubblici in materia di etichettature. Infatti, le amministrazioni aggiudicatrici che intendono acquistare lavori, forniture o servizi con specifiche caratteristiche ambientali o di diverso genere possono imporre nei criteri di aggiudicazione o nell’esecuzione dell’appalto, una specifica etichettatura, a prova del fatto che gli stessi corrispondono alle caratteristiche richieste, quando sono soddisfatte tutta una serie di condizioni, tra cui oggettività e trasparenza delle etichettature stesse.
Diverso risulta, invece, il sistema dei mercati artificiali a fini di tutela ambientale, creato per controllare le emissioni di sostanze inquinanti da parte degli stati firmatari del protocollo di Kyoto, seguito poi dall’Accordo di Parigi del 2015 col quale 195 paesi, tra cui l’Italia, hanno definito, con applicazione a partire dal 2020, ulteriori obiettivi di riduzione del riscaldamento globale[7]. Sul tema, recente è la chiusura della COP24, conferenza mondiale sul clima tenutasi a Katowice in Polonia, nella quale sono state definite linee guida per dare concreta attuazione all’Accordo di Parigi. In primo luogo, è stata abolita la distinzione tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, stabilendo o ribadendo responsabilità differenziate per i diversi paesi, ma pur sempre esistenti ed effettive; inoltre, sono state stabilite, per i diversi paesi, le modalità con le quali dovranno fornire informazioni circa i rispettivi contributi per ridurre le emissioni inquinanti, rendendo in tal modo più stringenti gli impegni assunti.
In un simile contesto, si inserisce il sistema dei mercati artificiali a fini di tutela ambientale, il cui funzionamento prevede, in primis, una soglia complessiva non oltrepassabile di emissioni inquinanti da parte degli operatori economici, la creazione di permessi e certificati di inquinamento (entro la soglia stabilita), l’assegnazione alle imprese degli stessi e la loro negoziabilità. Un esempio è dato dal mercato delle quote di emissione dei gas serra, che mira a contenere, entro limiti prestabiliti, le emissioni di gas inquinanti, così come quello dei certificati verdi e bianchi, dove questi rappresentano, rispettivamente, la quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili e i titoli di efficienza energetica (TEE). Lo scopo è evidentemente quello di incentivare la domanda di energia proveniente da fonti rinnovabili ed il risparmio energetico[8].
Se il trend attuale vede la materia ambientale al centro di accordi e trattati internazionali, interventi legislativi ed arresti giurisprudenziali a livello comunitario e nazionale, oltre che di dibattiti in dottrina, un breve excursus ci rammenta come, a livello europeo, la stessa non fosse originariamente contemplata nel Trattato di Roma[9].
Infatti, è solo con l’Atto Unico Europeo del 1986 che la materia ambientale acquisisce un riconoscimento a livello di Trattato e di seguito, sempre in maggior misura, col Trattato di Maastricht del 1992[10]. In egual modo, a livello interno, il riconoscimento dell’ambiente come bene interesse di rango costituzionale è stato lento e graduale; infatti, anteriormente alla riforma del Titolo V Cost. –che all’art. 117 ha previsto la potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell’ ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, mentre la valorizzazione dei beni culturali e ambientali come materia di legislazione concorrente- sussisteva una vera e propria vacatio programmatica, non contenendo la Costituzione alcuna norma espressamente enunciativa del bene-interesse ambiente. Ambiente ed istanze ad esso connesse rappresentano problematiche relativamente recenti, quantomeno percepite come cogenti solo negli ultimi decenni; si comprende, infatti, come nel periodo di entrata in vigore della Carta Costituzionale, il problema ambientale in Italia fosse percepito ad un livello meramente embrionale, risultando impellenti istanze, in primis, di ordine sociale ed economico.
Anche a livello giurisprudenziale, se inizialmente l’ambiente veniva posto in una dimensione assimilabile al diritto dominicale di proprietà o derivante direttamente dal diritto alla salute tutelato ex art. 32 Cost., dalla tutela del paesaggio e patrimonio ex art. 9 Cost. o ancora dalla tutela del suolo ex art. 44 Cost., grazie ad una lettura evolutiva dei precetti costituzionali la giurisprudenza contabile è giunta persino ad identificarlo come insieme di beni e utilità economiche a disposizione della società che lo Stato deve proteggere e tutelare, configurando, così, il danno ambientale come danno patrimoniale-erariale. Ciò fintanto che la giurisprudenza della Corte Costituzionale non è pervenuta ad attribuire dignità propria al bene ambiente, oggetto di posizioni giuridiche soggettive autonome, riconoscendolo quale interesse pubblico di valore costituzionale, primario ed assoluto. (Corte Cost. nn. 151 e 210 del 1986). Ambiente come bene giuridico immateriale, unitario e composito, al punto che ogni sua componente può costituire oggetto di una distinta tutela, senza che ciò escluda la protezione unitaria nel suo complesso [11] . Ne deriva un preciso dovere dei singoli, della collettività e delle istituzioni di tutelarlo e proteggerlo in quanto “l’obbligo di conservazione dell’ambiente è coessenziale a ogni tipo di diritto”[12]. La collocazione costituzionale della protezione del bene ambiente, i suoi caratteri di unitarietà, trasversalità, autonomia ed essenzialità di tutela sono stati ampiamente richiamati e ribaditi dalla Consulta nella recente sentenza Corte Cost. n. 7/2019.
A ben vedere, il mercato entra nell’orbita della tutela ambientale anche mediante i rifiuti, sostanze ed elementi che all’interno di un ciclo di trasformazione-recupero divengono materia utile per produzioni di diverso genere. Il rifiuto rivitalizzato rientra, così, nel circuito economico in una veste rinnovata. In tal modo “rifiuti” e “mercato” non risultano più antagonisti dell’ambiente, ma si collegano allo stesso, secondo una logica circolare ed assimilabile –seppure in senso lato- ad un rapporto deterministico di causa-effetto. In materia, è la Direttiva n. 2008/98/CE (di seguito “Direttiva”) ad occuparsi della regolamentazione dei rifiuti nell’UE, pur essendo stata modificata –insieme ad altre minori più specifiche- dalle quattro direttive UE del “pacchetto economia circolare” entrate in vigore nel luglio 2018, che l’Italia e gli altri stati membri dovranno recepire entro il 2020[13]. Le previsioni riguardano nuove soglie di riciclo entro i prossimi 5-10-20 anni per tutta una serie di rifiuti. A livello interno, le norme di riferimento sono, invece, contenute nel Codice dell’Ambiente di recente novellato, che subirà ulteriori modifiche proprio a seguito delle direttive predette. In ogni modo, stando alla disciplina vigente, due sono gli obiettivi perseguiti dalla legge: la riduzione della produzione di rifiuti e contestualmente il recupero dell’aspetto vitale, per divenire materia prima o secondaria che entra o rientra nel ciclo produttivo; il tutto in un’ottica volta a ridurre sprechi, economizzare nei processi produttivi, tutelare la salute umana e l’ambiente, quali istanze intercettate dal legislatore a diversi livelli.
L’art. 183 c. 1 lett. a) Cod. Ambiente circoscrive la nozione di rifiuto entro maglie sufficientemente stringenti, al fine di non creare dubbi circa l’applicazione della relativa disciplina, definendo “rifiuto” “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”[14]. Tale nozione[15], ampia e indefinita, è stata, nel tempo, oggetto di dibattiti in dottrina e in giurisprudenza che l’hanno più volte identificata con l’intenzione di destinare una sostanza o un oggetto verso la declassificazione e l’abbandono, non con la res nullius in se[16]. E’ stata così evidenziata la non piena corrispondenza tra nozione comune e nozione giuridica di rifiuto; distinguo importante, poiché solo ciò che è rifiuto in senso tecnico-giuridico risulta assoggettato alla relativa disciplina[17].
Sul tema, la stessa Suprema Corte ha ritenuto inaccettabile ogni valutazione soggettiva dei materiali da classificare o meno come rifiuti, posto che è rifiuto non ciò che non risulta più utile al detentore in base ad una sua personale valutazione, ma ciò che oggettivamente è tale sulla base della condotta del detentore o di obblighi in capo allo stesso di disfarsi di determinati materiali (Cass. Pen. 2017 n. 19206).
Inoltre, come messo in luce da alcuni commentatori[18], se in passato la tendenza era di includere nella nozione di rifiuto qualsiasi fattispecie, dandone una lettura espansiva, oggi a prevalere è il trend opposto, ovvero restringere la categoria e differenziare, creando categorie limitrofe, quali sottoprodotti e end of waste (cessazione della qualifica di rifiuto). Il recupero e la riutilizzazione dei materiali di scarto rappresentano, infatti, una nuova importante frontiera del diritto ambientale, con ricadute profonde nel mondo economico-produttivo, al punto che obiettivo della Direttiva è creare una “società europea del riciclaggio con un alto livello di efficienza delle risorse”. Ad una lettura più approfondita, l’art. 183 Cod. Ambiente fornisce, inoltre, una serie di definizioni utili per inquadrare tecnicamente la tematica dei rifiuti. Riutilizzo, trattamento, recupero, riciclaggio sono tra le principali operazioni finalizzate a realizzare il predetto obiettivo della Direttiva.
In tale direzione si pone a pieno titolo la categoria dei sottoprodotti, qualificata dall’art. 184-bis Cod. Ambiente come sostanza-oggetto che, originando secondariamente dal processo produttivo, non costituisce l’oggetto primario della produzione e può essere riutilizzato, così come è, anche da terzi, nello stesso o in un diverso processo produttivo[19]. Sul tema, un’interessante pronuncia della Suprema Corte (Cass. Pen. 2018/39400) affronta la tematica della ripartizione dell’onere della prova in ordine alla qualificazione del materiale oggetto di controversia, quale rifiuto o sottoprodotto. A tale riguardo la Corte di Cassazione ha stabilito che grava sull’interessato l’onere di provare che siano soddisfatti tutti i requisiti previsti dall’art. 184-bis per qualificare una sostanza o un materiale come sottoprodotto “trattandosi di una condizione per l’applicabilità di un regime derogatorio a quello ordinario dei rifiuti”.
Infatti, “la presunzione legale iuris tantum della qualifica di rifiuto non è vinta da chi eccepisce la natura di sottoprodotto della sostanza derivante dalle predette attività”. Pertanto, è opinione unanime in giurisprudenza che la destinazione di un materiale nella categoria dei sottoprodotti debba provarsi con certezza, effettività e concretezza, non potendo ritenersi sufficiente una mera ipotesi o eventualità aleatoria di riutilizzo.
Ma il legislatore si è spinto anche oltre, creando la limitrofa nozione di cessazione della qualifica di rifiuto o end of waste, laddove l’art. 184-ter Cod. Ambiente stabilisce che un rifiuto cessa di essere tale nel caso sia stato sottoposto a operazione di recupero, incluso riciclaggio e preparazione per il riutilizzo; inoltre devono sussistere una serie di condizioni, ad esempio che la sostanza o l’oggetto sia comunemente utilizzato per scopi specifici; che esista un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto; che soddisfi i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetti la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; che il suo utilizzo non produca impatti complessivi negativi su ambiente o salute umana.
Si coglie agevolmente l’importanza di tale categoria osservandone il processo, che, mediante trattamenti, trasforma un rifiuto in qualcosa di riutilizzabile a livello produttivo con un proprio valore di mercato. Esempi significativi sono la carta riciclata[20], i combustibili fossili secondari, il vetro riciclato (etc…), tutti materiali di largo utilizzo nella società, che riducono sensibilmente l’impatto ambientale.
Tuttavia, proprio la cessazione della qualifica di rifiuto è stata di recente oggetto di un importante quanto dibattuto arresto giurisprudenziale che ha ristretto in modo consistente le maglie di detta categoria, di fatto quasi eliminandola. Infatti, con sentenza Cons. Stato 1229/2018, il Supremo Consesso Amministrativo ha posto un notevole freno al riciclo dei rifiuti e assimilabili, statuendo che -alla luce dei dettami della Direttiva 2008/98- la determinazione della cessazione della qualifica di rifiuto, in un’ottica di uniformità e coerenza di disciplina, spetta solo allo Stato, secondo una valutazione da effettuarsi “caso per caso” essendo, poi, quest’ultimo, preposto, a sua volta, ad interloquire con la Commissione UE. Le Regioni, pertanto, non hanno alcun potere valutativo a riguardo, in quanto “se si consentisse ad ogni singola Regione di definire, in assenza di normative UE, cosa è da intendersi o meno come rifiuto, ne risulterebbe vulnerata la ripartizione costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni.” La pronuncia lascia perplessa buona parte della dottrina, secondo la quale la stessa decreterebbe un ritorno al passato, ovvero la fine dell’end of waste, con evidenti ricadute su quel processo volto alla piena attuazione e diffusione della cultura del riciclaggio e alla realizzazione dell’auspicata economia circolare[21]. Sul punto, si attendono, tuttavia, interventi normativi che possano ovviare all’impasse generata dalla suddetta sentenza.
La cosiddetta società europea del riciclaggio e del recupero passa, tuttavia, anche per una minore produzione di rifiuti e per un’accurata gestione degli stessi. Fondamentale risulta, pertanto, la definizione, classificazione e gerarchizzazione dei rifiuti, poiché ogni tipologia richiede un trattamento a sé stante in virtù del successivo riutilizzo o smaltimento e del potenziale inquinante e di pericolosità proprio di ognuno. Un esempio è dato dai rifiuti pericolosi. Se la prevenzione è l’obiettivo da perseguire, tuttavia, laddove vi sia produzione di rifiuti, gli step da percorrere sono tutte le attività propedeutiche al riutilizzo, il riutilizzo stesso, il riciclaggio, e, in ultima istanza, lo smaltimento, considerata come extrema ratio, in quanto attività dal notevole potenziale inquinante che rappresenta la via diametralmente opposta al riciclaggio e recupero dei materiali.
Al fine di realizzare tutto ciò, il legislatore ha previsto anche il sistema della raccolta differenziata[22] con diversi obiettivi da raggiungere entro periodi di riferimento prestabiliti, ma soprattutto, a monte, la globale diminuzione dei rifiuti prodotti, attraverso un’attenzione alla quantità dei materiali prodotti ed immessi nel mercato e la non sovrabbondanza nella produzione, nei consumi e quindi negli scarti, diminuendo, così, lo sfruttamento di risorse naturali, fondamentali per un sano mantenimento dell’ecosistema[23].
L’ambiente, quale bene complesso e polifunzionale, portatore di una propria unitarietà e specificità richiede, per la propria salvaguardia, il mantenimento di certi equilibri interni[24]. In tutto ciò, la materia di rifiuti costituisce un settore di importanza crescente, che gioca un ruolo imponente nella salvaguardia ambientale, oltre a rivoluzionare l’economia e lo sviluppo in generale.
Anzi possiamo dire che proprio nella materia dei rifiuti convergono tutti i principi confluiti nel Codice dell’Ambiente ed elaborati principalmente a livello internazionale e comunitario, quali sviluppo sostenibile, prevenzione e precauzione, correzione e “chi inquina paga”.
Le nuove frontiere del diritto ambientale mirano a garantire uno sviluppo sostenibile per soddisfare i bisogni delle generazioni presenti e di quelle future, che non devono vedersi depauperate di risorse fondamentali per le proprie necessità e di un ambiente salubre. Ne deriva, a contrario, che chi inquina paga, ovvero singoli e imprese che producono rifiuti devono proporzionalmente alla quantità e tipologia degli stessi, corrispondere una tariffa commisurata. Non tutti i rifiuti sono uguali, essendovene di più o meno pericolosi, più o meno facilmente smaltibili, riciclabili o meno, ed è evidente che debba pagare di più chi immette nel mercato prodotti poco durevoli o dannosi, destinati prima a divenire rifiuti, rispetto a chi produca prodotti durevoli e riciclabili, tali da rientrare nel ciclo economico-produttivo.
Da ultimo, è in ossequio al principio di precauzione che gli interventi legislativi e non in materia ambientale non dovrebbero mai attendere la prova dell’esistenza di un nesso causale tra determinate condotte ed altrettanti eventi negativi, in quanto il più delle volte probatio diabolica o comunque dai tempi talmente dilatati tali da compromettere ulteriormente ed irrimediabilmente l’ambiente. Pertanto, esemplificando, i danni causati da un trattamento errato dei rifiuti non devono essere dimostrati capillarmente, in quanto la prova del nesso causale tra evento e danno porta con sé un alto rischio di compromettere oltremisura l’ambiente e la salute umana, in spregio a tutto quanto finora sostenuto.
Per concludere, ambiente non più soltanto quale oggetto di dichiarazioni, convenzioni, accordi o leggi, per anni rimaste inattuate, ma settore strategico e fondamentale la cui protezione non è solo divieti e limitazioni, ma anche creazione di nuove opportunità di sviluppo. Infatti, come affermato dal Tar Lazio con sentenza 2017 n. 9442 “Il perseguimento del profitto imprenditoriale, che è il motore dell’economia, non deve mai essere disgiunto né andare a discapito dell’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini”… tale interesse, in ossequio al principio di precauzione, va infatti protetto non solo perché tocca diritti costituzionalmente garantiti ma anche perché rappresenta, se adeguatamente tutelato, anch’esso volano dell’economia, quantomeno di pari rango, nella misura in cui previene, evitandole, le pesanti ricadute in termini di costi a carico della collettività per bonifiche e cure sanitarie (spesso inefficaci) conseguenti a inquinamenti ambientali e danni alla salute“.
[1] La complessità e trasversalità della tematica ambientale risulta, oltremodo, evidente nell’iter parlamentare di formazione delle leggi che più o meno direttamente la riguardino. Infatti, la presenza di diverse e spesso contrapposte istanze conduce del tutto logicamente alla formazione di emendamenti, che rendono spesso di difficile interpretazione il testo definitivo approvato. Una disamina approfondita sull’emendamento è da attribuirsi a G. PICCIRILLI, L’emendamento nel processo di decisione parlamentare, Cedam, Padova, 2008, pag. 113 ss. il quale, oltre ad interrogarsi sulla natura del termine emendamento, indaga sui possibili “appigli” costituzionali del potere emendativo. In Costituzione nessuna norma attribuisce esplicitamente tale potere, tuttavia, l’Autore ravvisa nell’art. 70 Cost. un ragionevole fondamento del potere di emendamento. Infatti, “Questa norma, anche nel suo contenuto all’apparenza estremamente scarno…, radica in nuce il principio di parità formale tra le due Camere nell’approvazione dei progetti di legge …” “In sostanza, il concetto di emendamento… non rappresenta altro che l’esplicazione stessa della funzione legislativa, intesa come sostanziale possibilità per l’organo parlamentare di determinare (almeno potenzialmente) il contenuto della decisione. Nel contesto bicamerale italiano, per altro, tale concetto è insito in quello di navette, ossia nel principio del bicameralismo perfetto nella funzione legislativa. … E’ da notare infatti come la citata assenza in Costituzione del riconoscimento di un esplicito potere di modificare il testo in discussione discenda proprio dalla parità formale delle due Camere nel procedimento legislativo. Non a caso, le Costituzioni che prevedono meccanismi diversi per l’approvazione delle leggi… si preoccupano di disciplinare nel dettaglio il percorso per giungere alla decisione, indicando meccanismi di “raffreddamento” nella dialettica tra le articolazioni del potere legislativo e “clausole di chiusura” che permettano il raggiungimento delle decisione anche in casi di disaccordo”.
[2] Cfr. G. ROSSI, Diritto dell’ambiente, G. Giappichelli Editore, Torino, 2015, pag. 188.
[3] Per un’analisi sulle diverse fattispecie di certificazioni ambientali si veda G. ROSSI, op. cit. pag. 200 e ss. che a tale riguardo individua come rilevante la certificazione europea Ecolabel UE, ovvero il marchio UE di qualità ecologica che segnala ai consumatori i prodotti di consumo e i servizi migliori dal punto di vista ambientale, tenuto conto di elementi, quali, consumo di energia, produzione di rifiuti, inquinamento idrico, acustico, del suolo e atmosferico, tutela biodiversità, conservazione del patrimonio naturale. L’etichettatura ecologica Ecolabel UE è, pertanto, garanzia di eccellenza ambientale ed il suo rilascio come la sua gestione sono rimessi agli Stati membri che individuano l’istituto competente; per l’Italia è il Comitato Ecolabel-Ecoaudit, sez. Ecolabel presso l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). In merito si veda il Rapporto ISPRA 243/2016 “Promozione di Ecolabel UE” Delibera del Consiglio Federale – Seduta del 15.03.2016 – Doc. n. 71/CF secondo il quale una inadeguata promozione del Marchio rappresenta il principale ostacolo per la sua efficace affermazione. Si è, così, pervenuti alla decisione di porre in essere una serie di attività al fine di promuovere un punto di incontro tra sviluppo sostenibile e mercato che tenga conto di criteri ambientali. Essenziale a tal fine è portare a conoscenza degli utenti-consumatori il valore aggiunto di un prodotto o servizio a marchio Ecolabel, anche rispetto ad altri tipi di “riconoscimenti”, ben meno credibili. Iniziative, in tal senso, sviluppate o da sviluppare a livello comunitario e nazionale sono, ad esempio, azioni di promozione e diffusione presso soggetti pubblici e privati a livello regionale, informazione nelle scuole o in occasione di eventi, di concerto con le aziende produttrici etc… .
[4] Per un approfondimento sul tema della tutela dell’ambiente attraverso il mercato si veda G. ROSSI, op. cit. , pag. 186 e ss. e M. CLARICH La tutela dell’ambiente attraverso il mercato– Relazione al Convegno dell’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo su “Analisi economica e diritto amministrativo”, Venezia, 29 settembre 2006.
[5] I Cam attualmente in vigore sono divisi per categoria merceologica e vanno dalla ristorazione collettiva e derrate alimentari all’illuminazione pubblica, riscaldamento e pulizia edifici, all’edilizia, verde pubblico, arredi, gestione rifiuti urbani etc… .
[6] A tale riguardo, Legambiente, in un recente studio sugli appalti verdi, ha ravvisato un’applicazione piuttosto limitata dei criteri ambientali minimi; infatti, accanto a Regioni e Comuni virtuosi che applicano i Cam regolarmente, ve ne sono altri nei quali gli stessi non trovano mai applicazione.
[7] Nello specifico, gli obiettivi previsti dall’Accordo sono il mantenimento della temperatura media globale al di sotto dei 2°C, piani nazionali per la riduzione delle emissioni inquinanti con la comunicazione ogni cinque anni dei rispettivi obiettivi raggiunti, solidarietà dell’UE e degli altri paesi sviluppati ai paesi in via di sviluppo mediante finanziamenti tesi a ridurre le emissioni inquinanti e a garantire a questi ultimi un minore impatto dei cambiamenti climatici.
[8] Sul tema dei mercati artificiali a fini di tutela ambientale si veda G. ROSSI, op. cit. pag. 186 e ss. e M. CLARICH, op. cit. .
[9] Per un excursus sulle fonti internazionali, comunitarie e nazionali del diritto ambientale si veda G. ROSSI, Diritto dell’ambiente, G. Giappichelli Editore, Torino, 2015, pag. 30 e ss. che mette in luce l’elevata produzione normativa europea in materia ambientale ed il preponderante ruolo creativo della Corte di Giustizia che, con le sue pronunce, ha interpretato norme, elaborato principi, gettando, così, le basi per l’affermazione del diritto ambientale, quale esigenza imperativa all’interno della Comunità Europea. Esemplificando, l’Autore cita varie direttive emanate già attorno agli anni settanta-ottanta, ovvero la Direttiva n. 70/157 sull’inquinamento acustico, n. 70/220 sulle emissioni inquinanti dei veicoli a motore, n. 75/442 sullo smaltimento dei rifiuti, n. 75/439 sull’eliminazione degli oli usati. Proprio tale ultima direttiva ha permesso alla Corte di Giustizia di affermare che la tutela ambientale è uno dei fini essenziali della Comunità (Sent. 7 febbraio 1985, causa 240/83); in egual modo, con Sent. 20 settembre 1988 causa n. 302/86 sempre la Corte di Giustizia ha specificato che la tutela ambientale è un’esigenza imperativa e primaria all’interno della Comunità Europea e in entrambe le pronunce che tale esigenza fondamentale può legittimare restrizioni ai principi del libero commercio e della concorrenza.
[10] Cfr. G. ROSSI, op. cit., pag. 38 e ss. mette in luce come l’Atto Unico Europeo abbia dato riconoscimento a livello di Trattato alla tutela dell’ambiente; pertanto, tra le finalità della Comunità viene contemplata la protezione e il miglioramento dell’ambiente, della tutela della salute umana e un razionale sfruttamento delle risorse naturali, nonché l’elaborazione di principi in materia ambientale; con il Trattato di Maastricht viene invece espressamente sancita la promozione di una crescita sostenibile, non inflazionistica e rispettosa dell’ambiente come uno dei fini della Comunità Europea, così come l’elaborazione di ulteriori principi ambientali. A seguire, un accenno anche ai successivi Trattati di Amsterdam e Lisbona ed in particolare alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sottoscritta a Nizza nel 2000 che ha dato ulteriore rilievo al bene ambiente all’interno dell’UE.
[11] Si vedano Sent. Corte Cost. 210 del 1987 e Corte Cost. 641 del 1987.
[12] G. ROSSI, op. cit. pag. 109.
[13] Trattasi di quattro direttive in vigore dal 4 luglio 2018 che modificano ben sei direttive su rifiuti, discariche, imballaggi, veicoli fuori uso e pile, rifiuti elettrici ed elettronici.
[14] La previgente definizione di rifiuto riproduce quella della Direttiva 2006/2 CE.
[15] Come affermato da M. BUCELLO, L. PISCITELLI, S. VIOLA, Vas, Via, Aia, rifiuti, emissioni in atmosfera. Le modifiche apportate al Codice dell’Ambiente dai decreti legislativi 128/2010 e 205/2010., Giuffrè Editore, Milano, 2012, pag. 801 e ss. il legislatore, eliminando il rinvio all’allegato A, di fatto ha riprodotto in modo fedele la definizione di rifiuto contenuta nella Direttiva 2008/98, la quale fa riferimento esclusivo al requisito soggettivo del “disfarsi”, ritenendo non vincolante l’inclusione di sostanze od oggetti all’interno dell’elenco di cui all’allegato A.
[16] M. BUCELLO, L. PISCITELLI, S. VIOLA., op. cit., pag. 802 evidenzia l’indeterminatezza del concetto di “disfarsi”, oltre al fatto che il giudice nazionale in più pronunce lo ha identificato non con la cosa abbandonata o derelicta, ma con l’ animus derelictionis.
[17] Come ben evidenziato da M. SANTOLOCI, V. VATTANI, Rifiuti solidi e liquidi: trasporto, stoccaggio, depositi & dintorni… percorso tra nuove regole e prassi di fatto alla luce del testo unico ambientale, Diritto all’ambiente Editore, Terni, 2007, pag. 17 e ss. è soltanto il rifiuto in senso giuridico a richiedere l’applicazione di tutti i principi, norme, procedure specifiche, sanzioni all’uopo previste; ne consegue che ogni altro materiale o sostanza, pur inteso comunemente come rifiuto, ma non tale a livello tecnico-giuridico, è escluso dall’applicazione della relativa normativa. Allo stesso modo, il disfarsi comune e quello inteso dal decreto non necessariamente coincidono in quanto quest’ultimo è un disfarsi in senso stretto, ovvero precisa e ferma volontà di abbandonare un bene.
[18] Cfr. G. ROSSI, op. cit., pag. 312 e ss. che mette in luce come il legislatore nel restringere la categoria dei rifiuti creando contestualmente categorie limitrofe, come quelle dei sottoprodotti e della cessazione della qualifica di rifiuto, abbia dato vita ad una disciplina sufficientemente equilibrata e bilanciata.
[19] Come precisa V. PAONE, La tutela dell’ambiente e l’inquinamento da rifiuti dal D.p.r. 915/1982 al D.lgs. 4/2008, Giuffrè Editore, Milano, 2008, pag. 237 e ss., rifiuto e sottoprodotto sono nozioni alternative e per aversi quest’ultimo occorre che il riutilizzo sia certo e senza modificazioni–trasformazioni preliminari chimiche o merceologiche della sostanza. Per un’analisi sulle nozioni di rifiuto e sottoprodotto, sulla nozione di rifiuto nella giurisprudenza e per un quadro sulla realtà ambientale della Regione Umbria si veda anche M. ANGELINI, M. L. CAMPIANI, Tutela penale dell’ambiente e i reati in materia urbanistica, Jovene, Napoli, 2014, pag. 38 e ss. . Sul tema si veda altresì G. ROSSI, op. cit., pag. 313 e ss. .
[20] Emblematico il binomio carta riciclata-ambiente, contribuendo la stessa alla riduzione dell’abbattimento di zone verdi vitali per l’equilibrio dell’ecosistema e per il mantenimento della salute umana. Deforestazioni e disboscamenti non solo come minaccia per l’ambiente e la salute, ma anche come attività nella quale si insinuano illegalità e malaffare, fenomeno che pur riguardando prevalentemente legnami derivanti da foreste tropicali, interessa, tuttavia, anche paesi europei come l’Italia, che non essendo grande produttore di legname, lo importa in prevalenza dall’estero con un elevato rischio di immettere nella filiera produttiva legno e prodotti derivati di origine illegale. Il danno ambientale che ne deriva è globale e diffuso ed è per questo che l’UE ha cercato di arginare tale fenomeno contrastando il mercato di prodotti ad esso correlati. Nello specifico sono stati emessi due specifici regolamenti (nn. 2173/2005 e 995/2010), rispettivamente FLEGT (Forest Law Enforcement, governance and trade) ed EUTR (European Union Timber Regulation), tale ultimo obbligatorio dal 3 marzo 2013. Il regolamento EUTR riguarda tutti gli operatori e commercianti che trattano il legno e prodotti derivati provenienti da paesi UE ed extra-UE, con esclusione di prodotti riciclati, carta stampata, ecc… prescrivendo agli operatori del settore una serie di obblighi: in primis divieto di immissione nel mercato UE di legname illegale e prodotti da esso derivati; obbligo per gli operatori che immettono per la prima volta nel mercato UE tali merci di osservare la diligenza necessaria, adottando misure per la verifica della legalità delle stesse; commercianti obbligati alla tenuta di un registro con il nome dei fornitori e dei clienti per garantire la tracciabilità della filiera. Cfr. A. MARIANO, Filiera legno e rischio illegalità in Silvae Rivista Tecnico-Scientifica del Corpo Forestale dello Stato che compie un’analisi relativa all’insinuazione dell’illegalità nella filiera del legno e prodotti derivati.
[21] Secondo alcuni commentatori, la sentenza, nell’escludere le autorità competenti dallo stabilire, caso per caso, i criteri specifici per individuare un rifiuto che cessa di essere tale, ha di fatto prodotto interruzione delle istruttorie autorizzative in corso e incertezza in capo agli operatori già autorizzati circa la liceità delle attività che svolgono, fatta salva la buona fede.
[22] L’art. 183 lett. p) Cod. Ambiente definisce raccolta differenziata “la raccolta in cui un flusso di rifiuti è tenuto separato in base al tipo ed alla natura dei rifiuti al fine di facilitarne il trattamento specifico”.
[23] ROSSI. G., op. cit., pag. 317, a proposito di prevenzione, cita lo slogan “il miglior rifiuto è quello non prodotto” a dimostrazione del fatto che prevenire, in questo settore, significa anche e soprattutto non produrre, non immettere nel mercato, quindi produrre meno rifiuti possibili fino al punto di vietare in toto la produzione di certi materiali o l’uso di certi prodotti, come l’amianto, le shopper in plastica etc…
[24] Sul concetto di ambiente e sul suo progressivo inquadramento si veda G. ROSSI, op. cit., pag. 11 e ss. e R. GAROFOLI, Compendio di diritto amministrativo, Nel diritto Editore, Roma, 2012, pag. 347 e ss.
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Chiara Gambelunghe
-Dottoressa in giurisprudenza con voto 107/110 conseguita presso Università degli Studi di Perugia in data 27/02/2006.
-Pubblicazione tesi di laurea in diritto civile "La Responsabilità del professionista sportivo" su Rivista di Diritto ed Economia dello Sport (RDES)
-Perfezionata in diritto dell'energia presso Luiss Guido Carli in Roma (a.a. 2009/2010)
-Frequenza corso post laurea di alta formazione giuridica per approfondimento diritto amministrativo, civile, penale. (Corso Galli in Roma a.a. 2007/2008)
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