La tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo tra atipicità delle azioni e principio dispositivo
La Pubblica Amministrazione ha una personalità giuridica complessa, in quanto non possiede soltanto una capacità di diritto privato, ma anche una capacità di diritto pubblico, che viene regolata dal diritto amministrativo ed è sottoposta al principio di legalità. Nella sua capacità di diritto pubblico, la Pubblica Amministrazione pone in essere atti pubblici, di natura autoritativa, rispetto ai quali il privato è portatore di un interesse legittimo.
Di interesse legittimo si occupano espressamente gli articoli 24 – 103 – 113 Cost., che , pur riconoscendogli pari dignità e tutela, non ne forniscono, tuttavia, una definizione. La stessa, infatti, si deve alla dottrina che si è posta sin da subito il problema di individuarne la portata, allo scopo di riconoscergli una piena tutela giurisdizionale ed una autonomia rispetto ai diritti soggettivi.
A partire dal 1865, con la promulgazione della legge di abolizione del contenzioso amministrativo ( legge 20 marzo 1865, n. 2248), il legislatore si pose, per la prima volta, il problema di individuare una forma di tutela nei confronti del privato dinnanzi al potere autoritativo della Pubblica Amministrazione. Si riconobbe allora una tutela giurisdizionale per i diritti soggettivi vantati dal privato nei confronti della Pubblica Amministrazione e una tutela meramente amministrativa per le posizioni diverse dai diritti soggettivi che, in seguito, verranno meglio classificati.
L’incompleta attuazione delle legge del 1865 rese, tuttavia, estremamente precaria la protezione riconosciuta agli amministrati, titolari dei c.d.“non diritti”. Per questa ragione, il legislatore decise di istituire, con la legge del 31 marzo 1889, n. 5992, la Quarta sezione del Consiglio di Stato. Cioè un’autorità giurisdizionale competente a decidere dei ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso provvedimenti o atti della Pubblica Amministrazione. L’introduzione di questa legge ebbe un rilievo significativo, poiché, con essa si delineò il passaggio da una situazione di “non diritto” munita di precaria tutela, ad una giuridica di “interesse”, dotata, al contrario di una tutela apprezzabile.
Si pose a questo punto il problema di individuare la corretta qualificazione di detta peculiare posizione soggettiva. Come già rilevato, la dottrina assunse sotto questo profilo un ruolo fondamentale elaborando diverse teorie. Una prima tesi configurava l’interesse legittimo come interesse occasionalmente protetto. In questo senso, esso non veniva tutelato in quanto tale, ma solo in quanto funzionale a perseguire un interesse pubblico. Al contrario, una seconda teoria c.d. processualistica identificava l’interesse legittimo con l’interesse a ricorrere in giudizio, al fine di ottenere l’annullamento di un atto amministrativo illegittimo.
Non di meno, le critiche che ne seguirono ne sancirono l’insuccesso. Successivamente, venne elaborata un’ulteriore teoria che, collegando l’interesse legittimo ad un bene della vita, lo qualificò come una situazione giuridica direttamente protetta dall’ordinamento giuridico, che si sostanzia in una molteplicità di poteri attivabili dai titolari di una posizione differenziata, allo scopo di condizionare l’esercizio del potere pubblico, per conseguire o tutelare un bene della vita potenzialmente leso da un provvedimento amministrativo.
Tale tesi è stata fatta propria anche dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite con la nota sentenza del 1999, n. 500, che ha aperto la strada alla risarcibilità dell’interesse legittimo che, pertanto, si configura come una pretesa sostanziale ad un bene della vita.
Il riconoscimento della natura sostanziale dell’interesse legittimo ha determinato importanti conseguenze sul piano processuale, delineando un profondo mutamento strutturale del processo amministrativo. Quest’ultimo, da giudizio sull’atto, è divenuto sempre più un giudizio sul rapporto, finalizzato ad assicurare piena tutela alla pretesa fatta valere. Questa trasformazione è oggi tangibile nel Codice del processo amministrativo, approvato con d.lgs 104/2010, che sancisce il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, il cui corollario è costituito dal principio della pluralità delle azioni esperibili dal privato e riconosciute dal codice del processo amministrativo. Accanto alla tradizionale tutela caducatoria, è stata, infatti, ammessa la possibilità di esperire azioni tese ad ottenere pronunce dichiarative, costitutive e di condanna risarcitoria e reintegratoria ex. art. 30 c.p.a. Inoltre, il legislatore ha ammesso anche l’azione di condanna volta ad ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto, sulla base del combinato disposto dall’art. 30, comma 1, c.p.a e dell’art. 34, comma 1, lett. C) c.p.a. ( Cons. Stato, n. 2139/2010).
Coerentemente con l’ampliamento delle forme di tutela dell’interesse legittimo, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 2011 ha riconosciuto l’autonomia della domanda risarcitoria rispetto all’azione impugnatoria. La questione della c.d. pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all’azione di danno è stata , infatti, oggetto di un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Dinnanzi ad un orientamento della giurisprudenza di legittimità, risalente al 2006, che riconosceva l’autonomia delle due azioni, l’Adunanza Plenaria del 2007, al contrario, confermava il principio della pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto alla tutela risarcitoria. Il contrasto è stato risolto richiamando la disciplina dettata dal Codice del Processo Amministrativo, il quale, sulla base del combinato disposto dell’art. 30 e dell’art 7,comma 4, ha affermato l’autonomia processuale della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio.
Va, peraltro, osservato che il codice, nonostante neghi la sussistenza della richiamata pregiudizialità, dà rilievo all’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, presumibilmente, sarebbero stati evitati attraverso l’utilizzazione degli strumenti di tutela previsti. Su questa conclusione si è modellata la giurisprudenza amministrativa in esame, la quale ha sottolineato la rilevanza causale dell’omessa impugnazione tempestiva che determini la consolidazione dell’atto e dei suoi effetti dannosi.
Ulteriore conseguenza della concezione sostanziale dell’interesse legittimo è il principio dell’atipicità delle forme di tutela inteso non solo come azionabilità di rimedi atipici, ma anche come esperibilità di azioni tipiche con contenuto atipico. Anche questo principio si riallaccia chiaramente, all’effettività della tutela di cui all’art. 1 c.p.a. e al contempo alla previsione di cui all’art. 24 della Costituzione.
L’atipicità delle azioni esperibili a tutela dell’interesse legittimo, come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza amministrativa. A tal proposito, si richiama la sentenza n. 15 /2011 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in tema di Scia (segnalazione certificata inizio attività). La questione riguardava la possibilità o meno del terzo di agire in giudizio nel particolare momento in cui ancora non era possibile individuare nè un provvedimento amministrativo tacito, né un silenzio rifiuto ( nella specie si fa riferimento al periodo che intercorre tra il momento il cui la dichiarazione di inizio attività produce effetti legittimanti, alla scadenza del termine per l’esercizio del potere inibitorio). Prendendo spunto da questa questione, il Consiglio di Stato ha sancito il principio secondo cui l’assenza di una previsione legislativa espressa non impedisce l’esperibilità di un’azione di accertamento, quando quest’ultima costituisce l’unico rimedio idoneo a garantire una protezione adeguata all’interesse legittimo. Questa azione di accertamento atipica risulta dunque praticabile, purchè sussista un interesse concreto ed attuale ex. art. 100 c.p.c. , sulla base del disposto costituzionale.
Sulla stessa linea, si pone il parere del Consiglio di Stato n. 1517/2018 che, in base al principio della pluralità delle tutele esperibili, ammette l’azione di condanna pubblicistica ( c.d. azione di esatto adempimento) anche in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato di cui il d.p.r. n. 1199/71.
Tra i principi chiave del processo amministrativo, inteso come esempio di giurisdizione soggettiva legata ad una pretesa sostanziale vantata dal privato, si inserisce il principio dispositivo.
Si tratta di un principio che, unitamente a quello più generale della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, assume un rilievo primario nel processo amministrativo e nel procedimento civilistico, tanto da assumere rango di clausola generale, in grado di orientare l’operato dei giudici amministrativi, come enunciato dal Consiglio di stato n. 3809/2017. Tuttavia, questo principio che in ambito processual-civilistico viene espressamente richiamato all’articolo 99 e 112 c.p.c. , non viene riprodotto all’interno del codice del processo amministrativo, sebbene sia comunque ritenuto operante in virtù dell’art. 39, comma I, c.p.a., in quanto espressione di una clausola generale priva di una regolamentazione esaustiva in ambito amministrativo.
In base al principio dispositivo, il giudice amministrativo è vincolato alla domanda del cittadino che presenta ricorso. Per questa ragione, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4 /2015 ha statuito che il giudice amministrativo non può limitarsi a condannare l’amministrazione al risarcimento dei danni derivanti da provvedimenti illegittimi, senza procedere al loro annullamento, qualora quest’ultimo sia stato oggetto di domanda dell’istante, rispetto alla quale persiste il suo interesse. D’altra parte, è bene evidenziare che la pratica in base alla quale il giudice deve attribuire alla parte vittoriosa solo ciò che quest’ultima ha chiesto era stata ampliamente ribadita dalla giurisprudenza amministrativa già nel 2011 e nel 2012.
Il principio dispositivo, che costituisce un limite all’operato del giudice amministrativo, non è però incondizionato.
Un rilievo particolare viene rivestito infatti dalla graduazione dei motivi, ovvero l’ordine dei vizi, motivi e domande, che viene dato dalla parte che presenta ricorso. Attraverso di essa, la parte vincola il giudice ad esaminare prioritariamente i vizi e/o le domande che per essa rivestono un’importanza primaria, limitando la valutazione dei vizi e/o domande subordinate al solo caso di mancato accoglimento di quelli/e prioritari/e. Il giudice deve quindi sottostare alla tassonomia dell’esame dei vizi e delle domande, anche nell’ipotesi in cui la sua osservanza porti ad un risultato non in linea con la piena tutela dell’interesse pubblico. È ciò che avviene ad esempio nel procedimento civile e amministrativo connotati dal principio della parità delle parti e da quello dispositivo. Diversamente avviene invece, nel caso di procedimenti caratterizzati da un primato assoluto dell’interesse pubblico, dove la graduazione dei motivi non risulta vincolante per il giudice. In questa ipotesi rientrano, ad esempio, i giudizi di costituzionalità, dove spetta alla Corte Costituzionale stabilire quale valutazione risulti meritevole di precedenza e quale no. Non solo. Un ulteriore limite al potere della parte di graduare i motivi del ricorso è rinvenibile con riferimento al vizio di incompetenza. La questione nasce dalla considerazione che, prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, l’art. 26, comma II, l. t.a.r. stabiliva, secondo l’orientamento allora prevalente , che il vizio di incompetenza doveva essere sempre scrutinato per primo, in quanto una pronuncia sul merito si sarebbe tradotta in un giudizio meramente ipotetico che avrebbe anticipato la decisione dell’autorità effettivamente competente. Nonostante tale disposizione non sia stata riproposta con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, buona parte della giurisprudenza ritiene che sia comunque applicabile la regola tradizionale. Tale ultimo assunto è stato fatto proprio dal supremo consesso amministrativo il quale, dopo aver confermato la regola per cui il giudice è vincolato all’ordine dei vizi- motivi ( o domande) delineati dalla parte, ha individuato un’eccezione a questo obbligo quando il vizio fatto valere si traduce nel mancato esercizio del potere attribuito dalla legge all’autorità competente, ex art. 34, comma II, c.p.a.
La questione della graduazione dei motivi è strettamente connessa ad un’altra problematica: quella dell’assorbimento dei motivi. Tale prassi, consistente nel potere del giudice di emettere una decisione prima di aver analizzato tutte le doglianze prospettate, è stata sottoposta ad importanti critiche, le quali , unitamente all’esigenza di una maggiore tutela dell’interesse pubblico, hanno indotto il Consiglio di Stato a ritenere la tecnica dell’assorbimento vietata. Tale divieto incontra tuttavia delle eccezioni, che consistono nell’assorbimento legale, nell’assorbimento logico necessario e nell’assorbimento per ragioni di economia processuale.
In definitiva, risulta evidente che, ad oggi, l’interesse legittimo, considerato nella sua natura sostanziale quale interesse ad un bene della vita, viene sottoposto ad una tutela giurisdizionale piena ed effettiva, attraverso la possibilità di esperire una molteplicità di azioni. Inoltre, in conformità al più volte citato articolo 24 della Costituzione, è stata riconosciuta, in quanto necessaria ,la atipicità delle azioni amministrative.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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