La tutela indennitaria per infortunio e malattia professionale
Sommario: 1. Sul diritto all’assistenza sociale – 2. Sulla tutela assicurativa ordinaria – 3. Sulle prestazioni previdenziali – 4. Sull’indennizzabilità del danno biologico alla luce del d. Lgs. 38/2000
1. Sul diritto all’assistenza sociale
La radice costituzionale del diritto alla assistenza risiede nel comma 2 dell’art. 38 cost. che stabilisce il diritto dei lavoratori «ad essere preveduti ed assicurati mezzi, adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».
Com’è noto, ancorché in assenza di indirizzi statuari, il sistema previdenziale italiano si è configurato nella forma dell’assicurazione obbligatoria dei datori di lavoro a tutela della salute del lavoratore.
È evidente, dal dettato costituzionale, che l’operatività del diritto sia condizionata al verificarsi di un evento, cosiddetto produttivo della prestazione previdenziale, tra cui, inter alios, l’infortunio sul lavoro e la malattia professionale.
Orbene appare necessario, essendo tali eventi oggetto di prestazioni previdenziali diversificate, risolvere il problema definitorio individuando un discrimen che consenta all’operatore giuridico di stabilire se un determinato fatto dannoso per la salute del lavoratore costituisce infortunio sul lavoro o malattia professionale.
Il problema è imperniato, in effetti, sull’epistemologia della manifestazione fenomenologica di un evento che costituisce depauperamento della salute di un uomo; sull’evidenza, in altri termini, che ambedue gli eventi integrano la verificazione di una malattia.
Ne consegue che, correttamente inteso, la soluzione del problema definitorio ruota intorno alla necessità di individuare quei criteri epistemologici che implichino la collocazione dell’evento-malattia nell’ambito dell’una o dell’altra categoria di eventi produttivi della prestazione previdenziale.
Di infortunio sul lavoro, in letteratura, se ne discute quale evento dannoso, segnatamente inabilità, temporanea o permanente, con prognosi superiore a tre giorni, ovvero la morte, conseguente ad una causa violenta in occasione di lavoro.[1]
Dall’assunto è desumibile che tale nozione si fondi su due presupposti, dalla cui combinazione, per altro, si promanano le caratteristiche sintomatiche dell’evento-infortunio.
Da un lato la “causa violenta”, caratterizzata dall’efficacia lesiva, dalla rapidità dell’azione, ed esteriorità del rapporto eziologico;[2] dall’altro “l’occasione di lavoro”, intesa in senso ampio, quale situazione caratterizzata dalla percepibilità del rischio lavorativo, in funzione di criterio spazio-temporale ai fini della perimetrazione dell’ambito applicativo della tutela assicurativa.
Orbene, l’infortunio sul lavoro deve, alla stregua dei suddetti presupposti, caratterizzarsi necessariamente per la brevità del tempo che incorre tra l’interazione della causa violenta e la manifestazione morbosa.
Se così non fosse, se la percepibilità fenomenica dell’infortunio potesse sopraggiungere a distanza, esemplificativamente, di anni, risulterebbe illogica la scelta collegare la prestazione previdenziale ad un presupposto spazio-temporale, “l’occasione di lavoro”, risultando, in ultima analisi, premessa la necessità di raggiungere la prova duplice della collocazione del trauma in un esatto arco temporale, e della collocazione del malcapitato sul luogo, o comunque nello svolgimento di attività, di lavoro, eccessivamente oneroso ricostruire il rapporto causale alla stregua dei principi di cui agli art. 40-41 c.p .
Ed invece, siccome l’infortunio si connota per l’insorgere di una malattia a percepibilità fenomenica istantanea, o quasi, allora è necessario possibile accertare, quale presupposto per la sua indennizzabilità, che sia conseguente ad un trauma occorso sul luogo, o in occasione, di lavoro. Viceversa di malattia professionale si discute nei casi del verificarsi di un processo morboso per “causa diluita”.
Quindi non un trauma violento, immediatamente percettibile, bensì un processo morboso a lenta manifestazione, riconducibile, a mezzo di nesso eziologico, al rischio professionale
A differenza della precedente nozione, quella di malattia professionale ruota attorno al concetto di rapporto causale, di cui il lavoro deve costituire l’antecedente.
Quindi non un mero requisito spazio-temporale, bensì un elemento della fattispecie: la malattia professionale si caratterizza per il rapporto causale tra il rischio professionale ed il processo morboso manifestatasi.
Tale rapporto eziologico è impresso nell’adozione del criterio tabellare, caratterizzato dalla presunzione iuris tantum, in espressione dell’id quod plerumque accidit che determina, inter alia, l’immissione del ragionamento nomologico-deduttivo nella dialettica della tutela degli interessi fondamentali del lavoratore.
Se ne deduce, in sostanza, che l’indennizabilità della malattia professionale, almeno finché la Consulta non aprisse la strada al «criterio misto»[3] segnalando l’opportunità di una soluzione legislativa comprendente sia le tabelle, sia la possibilità per ogni lavoratore di provare l’eziologia professionale di una malattia non inclusa nelle stesse, fosse veicolata nelle more l’accertamento della concretizzazione della regola generale, quella impressa nella tabella, appunto, nel caso concreto.
Il concetto di rischio professionale, il quale indica quelle situazioni di pericolosità percettibile per la salute e l’integrità del lavoratore determinate dall’ambiente, dal contesto e dalle mansioni lavorative, è, per altro, da considerare il perno centrale dell’impianto previdenziale costituendo il presupposto e parametro di concessioni dei benefici indennitari, oltre che assicurativi.
Intanto, è intorno al concetto di rischio professionale che si concretizza il principale strumento di sostentamento dei lavoratori che abbiano subito le vicissitudini del rischio professionale, essendo i premi assicurativi commisurati alla pericolosità dell’attività lavorativa.
In tal senso, per altro, si discute di «efficacia preventiva» dell’obbligo assicurativo: la corrispettività del premio al tasso di pericolosità dell’attività introduce la prevenzione nel gioco economico dell’abbattimento del rischio, con la conseguenza che la maggiore efficacia delle misure di prevenzione riduce il valore del premio assicurativo.
A corroborare siffatta conclusione v’è anche la previsione di misure che prevedono la riduzione del premio a favore delle imprese che abbiano adottato determinate ed affidabili iniziative dirette alla riduzione del rischio professionale, cd. misure premiali.[4]
In secondo luogo, è il concetto di rischio professionale che fa da pendant all’attribuzione al lavoratore dell’indennità di rischio ed altri benefici indennitari, come la maggiorazione del periodo di congedo ordinario.
2. Sulla tutela assicurativa ordinaria
Il Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, emanato con d.P.R. del 30 giugno 1965, recante il n. 1124, è composto da tre titoli che disciplinano il regime assicurativo degli infortuni e malattie professionali nell’industria: segnatamente al Titolo I, il regime assicurativo per le attività agricole, al Titolo II, e il regime assicurativo speciale per gli imbarcati in navi straniere di cui al Titolo III.
L’art. 4 del T. U. qui in analisi contiene la ricognizione dei soggetti assicurabili.
Anzitutto si considerino lavoratori coperti da tutela ordinaria coloro che prestano mano d’opera professionale retribuita, anche in modo avventizio e coloro che sovrintendono sotto retribuzione il lavoro di altri, purché siano esposti al rischio ambientale.[5]
Va segnalata al riguardo la sentenza della Corte Costituzionale del 21 febbraio 1990, n. 98 che determina un estensione dell’ambito di applicazione della tutela ordinaria anche a lavoratori esposti al rischio professionale in conseguenza dell’attività di terzi.
Al vaglio di legittimità costituzionale rispetto ai parametri di cui agli artt. 3 comma 1 e 38 comma 2 cost. è la norma contenuta nel combinato disposto di cui agli artt. 3 e 9 del T. U. delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, la quale limitava, secondo l’interpretazione data dall’allora diritto vivente, la copertura assicurativa ai lavoratori dipendenti dal titolare del processo produttivo nel quale si inseriscono le lavorazioni protette, escludendone quelli non dipendenti dal detto titolare, anche se tenuti verso altri a prestare la propria opera in correlazione alle dette lavorazioni e nel luogo in cui esse si svolgono.[6]
Nel caso di specie il Pretore di Torino, giudice a quo, si trovava investito di una controversia in materia previdenziale nel procedimento civile vertente tra Palin Aldo e l’I.N.A.I.L., avente ad oggetto la revoca della costituzione di rendita per malattia professionale, di cui l’attore chiedeva di dichiararsene l’illegittimità, disposta dall’Istituto in quanto il Palin, benché esposto al rischio, era dipendente non già dell’impresa che svolgeva l’attività protetta e sottoposta ad obbligo assicurativo, ma dell’Amministrazione committente, rivestendo così la qualità di cd. assistente contrario.
Con ordinanza iscritta al n. 396 del registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37/1a, serie speciale dell’anno 1989, il giudice a quo sollevava l’eccezione di costituzionalità in via incidentale, in riferimento al parametro dell’uguaglianza formale e del diritto all’assistenza ed alla previdenza sociale, in considerazione del fatto che secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, il Palin non avrebbe avuto diritto alla rendita non svolgendo né attività manuale ex n. 1 dell’art. 4 d.P.R. n. 1124 del 1965, né di sovraintendenza ex art. 4, n. 2, né poteva considerarsi lavoratore subordinato come prescritto dall’art. 9 del d.P.R. cit.
Il Palin, dunque aveva contratto la malattia professionale, in specie la sordità, come riconosciuto dall’I.N.A.I.L., ma essendo l’obbligo assicurativo condizionato alla diretta dipendenza del lavoratore esposto a rischio morbigeno dall’imprenditore che svolge l’attività protetta, non poteva quindi ritenersi compreso tra i soggetti occupati presso gli esercenti le attività protette a norma dell’art. 9 del T.U. n.1124 del 1965.
Orbene la Corte decide, anche in questo caso in modo da determinare un ulteriore estensione dell’ambito di copertura della tutela ordinaria, in considerazione del fatto che il presupposto su cui poggia la norma impugnata, cioè la necessaria coincidenza, ai fini dell’individuazione dei beneficiari della garanzia, fra assicurante e gestore della lavorazione protetta e, di conseguenza la necessaria dipendenza del beneficiario dal detto gestore, non risponde ad alcuna esigenza del sistema vigente.
Per converso, tale sistema è teso alla protezione la più ampia dal rischio di infortuni o malattie professionali indotto da determinate lavorazioni, implicando, quindi, come unico presupposto di operatività della garanzia, e quindi come unico criterio per l’individuazione dei destinatari della medesima, l’esposizione al rischio in parola, anche in via di mera correlazione ambientale.
Per quanto esposto, con sentenza additiva di accoglimento, la Corte «dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, primo comma, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 nella parte in cui non comprende fra i datori di lavoro soggetti all’assicurazione coloro che occupano persone, fra quelle indicate nell’art 4, in attività previste dall’art. 1 dello stesso d.P.R., anche se esercitate da altri».[7]
La tutela è quindi estesa a quei lavoratori dipendenti sia pubblici che privati che svolgono funzioni di controllo sull’esecuzione di un lavoro in un luogo ove si è esposti al rispettivo rischio ambientale.
Di particolare rilevanza per il thema in discussione è la sentenza delle Sezioni Unite n. 3476/94, in cui la Corte di Cassazione è tornata ad affrontare il tema del cosiddetto rischio ambientale, ribadendo il principio che tutti i lavoratori dipendenti, tenuti per ragioni professionali a frequentare ambienti ove si svolgono le attività pericolose di cui all’articolo 1 del Testo Unico approvato con D.P.R. n. 1124/1965 e successive modificazioni ed integrazioni, sono soggetti all’obbligo assicurativo e fruiscono della conseguente tutela, a prescindere dal contenuto manuale o intellettuale delle mansioni svolte.
La suddetta pronuncia costituisce una conferma del costante indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l’esposizione al rischio professionale rappresenta l’unica condizione della operatività delle garanzie assicurative e, conseguentemente l’unico criterio per l’individuazione dei destinatari delle medesime.
L’argomentazione della Corte muove dal presupposto che a parità di rischio deve corrispondere parità di tutela.
Nel caso di rischio diretto, ossia quello scaturente dal contatto con le fonti di pericolo indicate dall’articolo 1 del cit. T. U., la parità di tutela è stata realizzata grazie alla più recente elaborazione giurisprudenziale che, in coerenza con i moderni sistemi organizzativi e tecnologici del lavoro, ha superato la tradizionale valenza giuslavoristica della nozione di opera manuale contrapposta all’opera intellettuale propria dell’impiegato e del dirigente, identificando il requisito soggettivo della manualità, previsto dall’articolo 4 del Testo Unico, nel diretto contatto dell’operatore con la fonte di rischio.
Ma la nozione di rischio professionale così come delineata dall’articolo 1 del T. U. comprende, oltre al rischio diretto, anche il rischio ambientale, ossia il rischio cui sono esposti i lavoratori «comunque» occupati in ambienti organizzati ove si svolgono attività pericolose indicate dallo stesso articolo 1.
Se ne deduce che l’esposizione a rischio ambientale costituisce, di per se, condizione sufficiente per l’insorgenza della tutela assicurativa, anche per gli impiegati e i dirigenti che svolgono attività esclusivamente intellettuale e non hanno, quindi, alcun rapporto diretto con le fonti di rischio.
La precisa definizione del significato e della portata della nozione di rischio ambientale, desumibile dalla sentenza in esame, non lascia dubbi sul fatto che le garanzie assicurative sono dovute non solo per gli eventi professionali conseguenti al rischio proprio dell’attività svolta dal lavoratore, o di attività ad essa connessa, ma anche per quelli causalmente riconducibili al rischio insito nell’ambiente di lavoro, e cioè al rischio determinato dallo spazio delimitato, dal complesso dei lavoratori in esso operanti e dalla presenza di macchine e di altre fonti di pericolo.
Per le malattie professionali, d’altronde, questo principio è da tempo acquisito e non solleva particolari problematiche, in quanto si tratta comunque di verificare, in concreto, la sussistenza del nesso causale tra il rischio e la malattia denunciata.
Per quanto concerne gli infortuni, invece, la questione si presenta più complessa, stante la necessità di individuare, caso per caso, una linea di demarcazione tra situazioni in cui l’incidente è conseguenza di condizioni ambientali che configurano un rischio soltanto generico, e situazioni in cui, invece, l’incidente è sul piano eziologico riconducibile al rischio lavorativo di carattere ambientale.
Va precisato, comunque, il perimetro del rischio ambientale assicurabile in virtù dell’attuale e largamente prevalente insegnamento giurisprudenziale[8] in base al quale il collegamento meramente marginale, o la pura e semplice coincidenza di tempo e di luogo tra infortunio e prestazione lavorativa, non sono sufficienti a concretizzare l’occasione di lavoro.
Da ciò discende che vanno esclusi dalla tutela quegli infortuni che, pur avvenuti in costanza ed in ambiente di lavoro, si siano verificati in circostanze puramente accidentali, conseguenti cioè ad un rischio generico.
Sono comunque esclusi dalla tutela i sinistri che accadono in situazioni in cui il lavoratore sia venuto a trovarsi per scelta volontaria, diretta a soddisfare impulsi personali che lo inducono ad affrontare rischi, anche sotto il profilo ambientale, diversi da quelli inerenti alla normale attività lavorativa.[9]
Sempre ai fini della presente trattazione interessa ricordare che risultano assicurabili anche i collaboratori familiari e i partecipanti all’impresa familiare; i soci delle società adibiti alle attività rischiose.
Sono anche assicurabili gli artigiani che svolgono attività manuale ed abituale nella loro impresa.
Tra il personale dipendente la norma prevede anche la tutela di apprendisti, gli insegnanti e gli alunni delle scuole o istituti di istruzione di qualsiasi ordine e grado, anche privati, che attendano ad esperienze tecnico-scientifiche od esercitazioni pratiche, o che svolgano esercitazioni di lavoro; gli istruttori e gli allievi dei corsi di qualificazione o riqualificazione professionale o di addestramento professionale anche aziendali, o dei cantieri scuola, comunque istituiti o gestiti, nonché i preparatori, gli inservienti e gli addetti alle esperienze ed esercitazioni tecnico-pratiche o di lavoro.
Quanto ai soggetti su cui grava l’obbligo di stipulare la polizza, si considerano datori di lavoro ai sensi dell’art. 9 Titolo I del T.U. le persone e gli enti privati o pubblici, compresi lo Stato e gli Enti locali, che nell’esercizio delle attività previste dall’art. 1 occupano persone tra quelle indicate nell’art. 4.
In seguito alla cit. sent. n. 98 del 1990 della Corte Costituzionale devono considerarsi soggetti al suddetto obbligo tutti coloro che si avvalgono di soggetti assicurabili adibiti ad attività rischiose anche se svolte da terzi.
Vi sono altri soggetti obbligati all’assicurazione che non sono datori di lavoro in senso tecnico: a) i titolari delle imprese verso i propri collaboratori familiari; b) i soci delle società, anche cooperative, nei confronti dei soci assicurabili; c) i titolari artigiani nei confronti di se stessi; d) le scuole o gli istituti di istruzione di qualsiasi ordine e grado, anche privati, gli enti gestori dei corsi di qualificazione o riqualificazione professionale o di addestramento professionale anche aziendali o di cantieri scuola, nei confronti di insegnanti e alunni o di istruttori e allievi assicurabili.[10]
I datori di lavoro obbligati all’assicurazione ordinaria ai sensi del titolo I T.U. qualora siano anche possessori di apparecchi radiologici o sostanze radioattive che danno luogo alla tutela speciale saranno obbligati a istituire sia la polizza ordinaria di cui al Titolo I del T. U. in esame, ma anche la polizza speciale di cui alla legge del 20 Febbraio 1958 n. 93.[11]
Gli artt. 206 e 207 T. U. in esame disciplinano le attività assicurabili nell’ambito della tutela assicurativa ordinaria per l’agricoltura.
Ad essere assicurate sono le attività di cui all’art. 2135 c.c., segnatamente quella di coltivazione del fondo; di silvicoltura; di allevamento di animali e le cd. attività connesse.
Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni e servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio o del patrimonio rurale e forestale ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge.
Altre attività, esemplificativamente le operazioni di trasformazione, manipolazione e modifica di prodotti effettuata con personale operaio dalle cooperative e dai consorzi di cui alla Legge 240/84 che acquistano, manipolano e commercializzano prodotti forniti in prevalenza dai soci invece, devono comunque essere ricondotte alla tutela ai sensi del titolo I.
Ai sensi dell’art. 205 del T. U. qui in esame, sono soggetti coperti della polizza obbligatoria i lavoratori fissi o avventizi, addetti ad aziende agricole o forestali; i proprietari, mezzadri, affittuari, loro coniuge e figli anche naturali e adottivi, che prestano opera manuale abituale nelle rispettive aziende; i sovrastanti ai lavori di aziende agricole e forestali, che prestano opera retribuita; i soci di società cooperative conduttrici di aziende agricole.
Alcuni soggetti assicurabili trovano tutela, invece, ai sensi del Titolo I; esemplificativamente i collaboratori coordinati e continuativi, anche a progetto e gli operai agricoli a tempo indeterminato e determinato delle cooperative e consorzi di cui alla legge 240/84 che trasformano, manipolano e commercializzano prodotti forniti in prevalenza dai soci.
Quanto ai soggetti obbligati alla stipula della polizza, occorre richiamare la nozione di imprenditore agricolo inteso come soggetto che esercita una delle seguenti attività indicate all’art. 2135 c.c.
Ebbene precisare che si considerano parimenti imprenditori agricoli le cooperative di imprenditori agricoli ed i loro consorzi quando utilizzano, per lo svolgimento delle attività di cui all’art. 2135 c.c., come modificato dal D.Lgs. 228/01, prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico;[12] le cooperative e loro consorzi che forniscono in via principale, anche nell’interesse di terzi, servizi nel settore silvicolturale, ivi comprese le sistemazioni idraulico-forestali;[13] l’imprenditore ittico, ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 4/2012; le società qualora lo statuto preveda quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo dell’attività agricola e ricorrano specifiche condizioni.[14]
3. Sulle prestazioni previdenziali
La polizza assicurativa ordinaria complessivamente considerata, determinando la tutela degli eventi lesivi occorsi ai soggetti di cui all’art. 4 del d.P.R. 1124/65 addetti ad attività di cui all’art. 1 dello stesso d.P.R. comportanti esposizione a rischio di radiazioni ionizzanti, copre sia i casi di infortunio, ivi inclusi i casi di infortuni in itinere ad esclusione degli gli alunni delle scuole pubbliche e private, che sono tutelati solo per gli infortuni che accadono nel corso delle esperienze tecnico-scientifiche, delle esperienze di lavoro e delle esercitazioni pratiche, che di malattia professionale.
Il periodo massimo di indennizzabilità dalla cessazione della lavorazione va da uno a cinque anni, mentre non sussiste con riferimento ai tumori professionali.
In caso di infortunio o malattia professionale sono dovute le seguenti prestazioni economiche: indennità giornaliera per inabilita temporanea assoluta; rendita per inabilita permanente per grado di menomazione superiore all’11%; indennizzo per lesione dell’integrità psicofisica, e per il danno biologico; indennizzo in capitale per grado di menomazione dal 6% al 15%; indennizzo in rendita per grado di menomazione superiore al 15%; integrazione della rendita diretta in caso di cure per il recupero della capacita lavorativa; rendita ai superstiti in caso di morte; prestazioni una tantum ai superstiti; assegno funerario; assegno per assistenza personale continuativa; speciale assegno continuativo mensile; prestazioni sanitarie; prestazioni integrative.
Come è evidente dalle risultanze della trattazione il sistema della sicurezza sociale si fonda sul superamento del principio di diritto comune della responsabilità per colpa tramite l’introduzione del criterio della responsabilità oggettiva, circuita entro determinati limiti, ai fine dell’imputazione al datore di lavoro delle conseguenze dannose causalmente riconducibili, evidentemente in senso naturalistico, al rischio professionale inerente la particolare attività di cui trattasi.
In conseguenza all’adozione del suddetto criterio di imputazione, entro i limiti dell’obbligo assicurativo, il datore di lavoro è chiamato a rispondere non solo dei danni sofferti dal lavoratore che gli possano essere imputati a titolo di responsabilità per colpa, ma pure di quelli che, accaduti nello svolgimento dell’attività lavorativa, siano conseguenza di caso fortuito, di forza maggiore o anche di colpa dello stesso lavoratore, con il solo limite dell’atto puramente arbitrario.
Il sistema che viene a configurarsi si caratterizza per l’adozione di una soluzione eminentemente transattiva da cui consegue l’ampliamento della sfera della responsabilità datoriale.[15]
Da un lato nei casi di infortunio o malattia professionale i datori di lavoro rispondono secondo le forme dell’assicurazione obbligatoria in base ad un nesso di causalità materiale; dall’altro i lavoratori, corrispettivamente a tale forma agevolata di tutela, ricevono un ristoro solo parziale del danno sofferto, dal momento che la tutela previdenziale, oltre a non intervenire per le lesioni lievi, non garantisce la piena equivalenza tra l’entità del danno sofferto e la prestazione economica in concreto erogata.[16]
Nel sistema cosituito dal T.U. l’infortunio è identificato da tre requisiti, la causa violenta, l’occasione di lavoro e la lesione che, in ultima analisi caratterizzano il rapporto di lavoro.
Peraltro l’elemento della lesione costituisce l’elemento che si caratterizzava per assumere connotati più ampi nell’ambito dei rapporti privati rispetto all’ambito del rapporto di assicurazione sociale.
Nei rapporti privati, infatti, il rischio professionale corrisponde al rischio del verificarsi di un evento che lede un ampia gamma di valori della persona, non solo in termini di danno biologico, e/o danno patrimoniale, ma anche di danno morale, esistenziale, quindi di natura non patrimoniale.
Al “concretizzarsi” del rischio il datore di lavoro, se responsabile secondo gli ordinari canoni civilistici, deve provvedere all’integrale risarcimento per le anzidette voci di danno, salvo l’interferenza con l’assicurazione infortuni. Lo si deduce, del resto, dal comma 1 dell’art. 10 T.U. 1124/1958, che testualmente stabilisce che «l’assicurazione a norma del presente decreto esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro».
Lo stesso rischio professionale è quindi oggetto di valutazione della protezione indennitaria che garantisce al lavoratore un indennizzo per danno biologico e danno patrimoniale, in corrispondenza del quale il datore di lavoro è esonerato dalla responsabilità civile per dette voci di danno.
Orbene in caso di infortunio al lavoratore compete, accertata la sussistenza dei requisiti di diritto, l’indennizzo per danno biologico e per danno patrimoniale a carico dell’assicuratore; il risarcimento del danno esistenziale e del danno morale a carico del datore di lavoro, che deve altresì risarcire il danno patrimoniale differenziale rispetto all’indennizzo assicurativo nei casi in cui qualora venga meno l’esonero di cui all’art. 10.
Se ne deduce che nei casi di infortunio sul lavoro la tutela civilistica si pone in contiguità con quella previdenziale, con la conseguenza che nel gioco bidirezionale di uniformazione della tutela dei diritti costituzionali, anche la protezione indennitaria finisce per l’assorbire le risultanze di un fondamentale passaggio lungo il percorso che ha portato al superamento dei confini tradizionali del risarcimento dei danni non patrimoniali ampliandone la sfera dei danni meritevoli, attraverso un’evoluzione che ha portato lo sganciamento dell’art. 2059 c.c. dal necessitato collegamento ad un’ipotesi di reato, riferendola così a qualsiasi ipotesi di danno derivante da una lesione ingiusta di valori inerenti alla persona.
Parallelamente il percorso evolutivo del sistema di prevenzione, con riferimento a valori relativi alla salute psichica e fisica, alla dignità della persona del lavoratore, con impegno per il datore di lavoro, di promuovere tutte le azioni positive possibili e congrue per rimuovere le predette condizioni di rischio.
L’infortunio quindi, ed ovviamente la malattia professionale, come vedremo, qualificano il rischio professionale assunto; epperò mentre questo si caratterizza per il concretizzarsi in un evento lesivo ed ingiusto, ai fini dell’operatività del rimedio risarcitorio, ai fini dell’operatività del rimedio indennitario non rileva l’ingiustizia dell’evento, ma solo la riconduzione di esso al lavoro in termini di occasionalità.
Con riferimento alla malattia professionale s’è avuto modo di precisare che l’elemento caratterizzante è costituito dal rapporto eziologico tra la malattia e la causa di lavoro.
Tale nozione si è compendiata nel sistema tabellare il quale si caratterizza per essere espressione di un giudizio di rilevanza causale ex ante, chiaramente espresso dal legislatore, che si traduce nella presunzione iuris tantum di riconducibilità alla causa di lavoro di determinati processi morbosi ben identificati.
Se ne deduce, per altro linearmente, che nei casi di malattia professionale tabellata l’onus probandi risulta “invertito”, rientrando nella competenza dell’agenzia assicurativa dimostrare che la malattia, ancorché tabellata, sia conseguita a fattori causali alternativi.
Quindi la tabellazione rappresenta l’approdo e la cristallizzazione di giudizi scientifici specifici sull’esistenza del nesso di causalità.
La tabella[17] è prevista dalla legge e viene aggiornata con decreto del Presidente della Repubblica, proprio allo scopo di agevolare il lavoratore esposto a determinati rischi nella dimostrazione del nesso di causalità sul terreno assicurativo.
Talché se il processo morboso manifestatosi è incluso nella tabella, al lavoratore basterà allegare l’insorgenza della malattia e provare di essere stato adetto a mansioni implicanti l’esposizione al rischio, fermo restando che il nesso eziologico si considera presunto nel rispetto del periodo massimo di indennizabilità.
Orbene non trattandosi di presunzione assoluta rimane la possibilità per l’I.N.A.I.L. di provare una diagnosi differente, ossia di fornire la prova contraria idonea a vincere la presunzione legale dimostrando l’intervento causale di fattori patogeni extra-lavorativi, con la precisazione che l’idoneità a superare l’efficacia della prova presuntiva richiede che tale elemento probatorio attinga a fattori causali dodati di efficacia esclusiva.[18]
Per converso nel caso di malattia professionale non tabellata, la prova della causa di lavoro grava sulla parte attrice in applicazione del generale principio della vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c.[19]
Tale prova và valutata in termini di ragionevole certezza, così, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, da essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità.
A tal uopo risultano fondamentali nel quadro probatorio le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, le quali costituiscono la principale fonte di acquisizione di elementi in relazione all’entità dell’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio, per di più se la natura professionale della malattia può essere desunta, con elevato grado di probabilità dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione lavorativa e dall’assenza di altri fattori extralavorativi, alternativi o concorrenti, che possano costituire causa della malattia.[20]
Quanto al nesso causale, evidentemente andrà ricostruito ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p., nei due momenti della conditio sine qua non e della verifica della probabilità logica che, rispetto a quella epidemiologica o statistica, richiede la verifica aggiuntiva dell’attendibilità dell’impiego della legge scientifica al singolo evento, in base al c.d. giudizio controfattuale.
Per altro verso la differenza strutturale tra l’indennizzabilità delle malattie tabellate e quelle non tabellate si riflette, come anticipato, sull’articolazione del processo stesso.
Vertendo in materia di malattie tabellate, fermo restando che al ricorso sia allegato il danno, allegazione che assolve alla prova dell’esistenza della presunzione relativa, e la prova del rapporto lavorativo, si considera in piena operatività la presunzione dell’eziologia professionale del danno allegato.
Se ne deduce che sarà onere della parte resistente, in specie dell’I.N.A.I.L., con inversione dell’onus probandi, provare l’eziopatogenesi non lavorativa del processo morboso manifestatosi.
Tuttavia, come soventemente precisato in dottrina,[21] vigendo in materia di accertamento dell’eziopatogenesi di una malattia professionale il principio di equivalenza o sinergia delle cause di cui all’art. 41 c.p., nel caso in cui sia accertata l’influenza di altri fattori causali concorrenti, ai fini della spiegazione del nesso eziologico è necessario che alcuna di questi assuma il carattere di causa efficiente esclusiva.
A corroborare siffatta affermazione v’è il dato di legge, essendo specificatamente previsto che qualora il grado di riduzione permanente dell’attitudine al lavoro causata da infortunio risulti aggravato da inabilità preesistenti che siano derivanti da fatti estranei al lavoro, il valore dell’indennizzo «deve essere rapportato non all’attitudine al lavoro normale, ma a quella ridotta per effetto delle preesistenti inabilità».[22]
Se ne deduce che eccepito in giudizio uno o più fattori concorrenti all’eziopatogenesi del processo morboso, e disposta ai fini dell’accertamento C.T.U. ai sensi dell’art. 61 c.p.c., essendo onere della parte resistente contraddire la prova presuntiva, in applicazione del principio di equivalenza delle cause, al consulente tecnico deve essere demandata la competenza di accertare non se la malattia è, con assoluta certezza, stata determinata dalla causa lavorativa, sì da orientare il giudice al rigetto o accoglimento della domanda di parte attrice in base al di probabilità logica determinata, bensì di accertare, con assoluta certezza, se il processo morboso è conseguenza di uno o più fattori concausali con efficacia esclusiva.[23]
Per converso, in presenza di una denuncia di malattia non tabellata, occorrerà, come anticipato, che la parte attrice provi l’eziopatogenesi professionale del processo morboso manifestatosi.
Su questo piano risultano determinanti le indicazioni date dalla giurisprudenza di legittimità in merito al quomodo della spiegazione causale, imperniato nella verifica del grado di probabilità, beninteso in applicazione del criterio di prognosi postuma, che l’evento dannoso sia causalmente riconducibile alle mansioni lavorative a cui la parte ricorrente fu adibita.
Quindi in presenza di una malattia non tabellata di cui si richiede l’accertamento dell’eziopatogenesi lavorativa, l’accertamento processuale della spiegazione causale si impernia su un giudizio di apprezzabile probabilità,[24] tenendo conto delle circostante di fatto del caso concreto, esemplificativamente la durata e l’intensità dell’esposizione, l’analisi delle mansioni svolte, delle condizioni di lavoro e delle condizioni ambientali.
Tale criterio prognostico di spiegazione causale non va, quindi, applicato su base astratta, bensì in concreto «tenendo conto dell’incidenza che il rischio oggettivamente insito in tale attività abbia avuto sullo stato psico-fisico dell’assicurato».[25]
In ogni caso, indipendentemente dalla regola di giudizio, nel caso di malattie non tabellate, la parte attrice è onerata di provare il nesso causale secondo gli estremi del giudizio controfattuale.
In tali circostanze risulta determinante il momento della sussunzione sotto una legge scientifica di copertura a cui concorre la prova necessaria della consulenza tecnica, stante che accade, non di raro, nei giudizi di merito che la pronuncia faccia proprie tout court le risultanze emerse della relazione tecnica.[26]
Al riguardo vale la pena precisare che secondo il consolidato orientamento di legittimità, qualora il giudice di merito si sia basato sulle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, facendole proprie, la denunciabilità ex. art. 360 n. 5 del vizio di omessa o insufficiente motivazione della sentenza esige che eventuali errori e lacune della consulenza, che si riverberano sulla sentenza, si sostanzino in carenze o deficienze diagnostiche, o in affermazioni illogiche o scientificamente errate, non già in semplici difformità tra la valutazione del consulente circa l’entità e l’incidenza del dato patologico e il valore diverso allo stesso attribuito dalla parte, le quali si risolvono in una inammissibile critica del convincimento del giudizio.
4. Sull’indennizzabilità del danno biologico alla luce del d. Lgs. 38/2000
Per effetto dell’emanazione del d. Lgs. 2 febbraio del 2000 n. 38, la copertura assicurativa si estende anche all’indennizzabilità del danno biologico conseguente ad infortunio sul lavoro o malattia professionale.
Occorre precisare che, con riferimento alla materia previdenziale, la natura ed il fondamento giuridico del danno biologico è stata fonte di incertezze interpretative.
Infatti tale concetto nasce nell’ambito della tutela ex delictu, in base al combinato disposto degli artt. 2043 e 3059 c.c. e 32 cost., per approdare, successivamente, sulle sponde della responsabilità contrattuale, segnatamente quella del datore di lavoro sul quale grava, in quanto parte del sinallagma contrattuale, l’obbligo di tutelare la salute e l’integrità psico-fisica del lavoratore ai sensi dell’art. 2087 c.c.
Senonché anche tale impostazione, e cioè quella che riconduce la lesione dell’integrità psicofisica in conseguenza all’attività lavorativa al paradigma della responsabilità contrattuale, sembra per converso inadeguata rispetto agli aspetti della responsabilità ex contractu inerenti la determinazione del danno sue componenti di cui all’art. 1223 c.c.
Tali incertezze costituivano, del resto, il fondamento dell’opinione, per certi versi costante sia in dottrina che giurisprudenza, secondo cui il danno biologico non rientrerebbe tra le voci di danno liquidabili dall’I.N.A.I.L.
A corroborare siffatta affermazione vi erano alcune pronunce della Corte Costituzionale, in specie la n. 87/1991, la n. 356/1991, la n. 458/1991, secondo cui il danno biologico non costituisce voce del danno indennizzabile in quanto «ai fini del calcolo [del danno] nessun rilievo assumono gli svantaggi, le privazioni e gli ostacoli che le menomazioni comporta con riferimento agli ambiti ed agli altri modi in cui il soggetto svolge la sua personalità nella propria vita».[27]
Se ne deduce che il lavoratore aveva il diritto ad ottenere dall’I.N.A.I.L. l’indennizzo che copriva la perdita specificamente economica derivante da infortunio o malattia professionale, e solo nell’ambito delle suddette voci di danno l’I.N.A.I.L. acquisiva, ricorrendone i presupposti, il diritto di rivalsa in caso di risarcimento del danno affermato in applicazione dell’art. 2087 c.c.
In tali circostanze poi, ricorrendone i presupposti, il lavoratore avrebbe potuto richiedere la risarcibilità del danno biologico per violazione del generale principio del neminem laedere, determinandosi così il concorso tra azione contrattuale ed extracontrattuale che attribuisce al ricorrente la facoltà di scegliere, tra i due regimi, quello che risulti più conveniente nel caso di specie.
Orbene, in accoglimento delle istanze emergenti dalla giurisprudenza della Consulta, in specie, fermo restando la non indennizzabilità del danno biologico in vigenza della precedente disciplina, si evidenziava che il rischio professionale che coinvolge l’integrità psico-fisica del lavoratore debba di per sé godere di una garanzia diversifica e più intensa che «consenta (…) quell’effettiva, tempestiva, automatica riparazione del danno che la disciplina comune non [era] in grado di apprestare».
In seguito all’emanazione della legge delega n. 144 del 1999, segnatamente in attuazione dell’art. 55, per tramite del d. Lgs n. 38 del 2000 viene introdotto nell’ordinamento previdenziale, la tutela pubblica del danno biologico conseguente ad infortunio e malattia professionale.
La determinazione del danno biologico ai fini della tutela dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, in sede previdenziale, va effettuata osservando obbligatoriamente le tabelle delle delle menomazioni di cui all’art.13 d. Lgs. n. 38/2000.
Il legislatore si trova quindi, per la prima volta, a confrontarsi con una categoria di danno di elaborazione giurisprudenziale, figlia di quel filone che ha forzato le rigide maglie dell’art. 2059 c.c. estendendo la categoria del danno non patrimoniale risarcibile oltre quelli cagionati ex delictu.
Il concetto di danno biologico è imperniato sul diritto all’integrità della persona che, in quanto bene giuridico primario, necessità di essere tutelato non solo con riferimento alle lesioni da cui consegue una menomazione, ma piuttosto in tutte le circostanze in cui la menomazione abbia determinato un depauperamento del valore biologico dell’individuo.
In questo modo, il cd. valore patrimoniale dell’individuo, si sgancia dal concetto di capacità produttiva ed assurge a valore a se stante, costituzionalmente tutelato, segnatamente all’art. 32 cost.; di riflesso la lesione di natura biologica assurge a quid che ledendo un bene giuridico di rango costituzionale, cagiona un danno che deve essere giuridicamente riparato.
Tuttavia la categoria del danno biologico, essendo una categoria di elaborazione giurisprudenziale, si caratterizzava per contorni sfumati di cui il legislatore sembrava avere contezza; non a caso infatti, nell’abbozzarne una definizione, l’art. 14 dispone «in attesa della definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento, (…) in via sperimentale, ai fini della tutela dell’assicurazione obbligatoria conto gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico [si definisce] come la lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona [con la precisazione che] le prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato».[28]
È evidente l’intenzione del legislatore di “tenere la porta aperta” in attesa che l’elaborazione giurisprudenziale portasse a compimento la strutturazione di questa nuova categoria di danno.
Senonché, a ben vedere, alle risultanze delle più recenti note di indirizzo in materia, il danno biologico altro che non è che una voce del «danno non patrimoniale» di cui all’art. 2059 c.c. che, ancorché specificativa ed idonea ad integrare ex se un danno risarcibile, deve ritenersi contigua ad altre, parallelamente elaborate, quali il danno esistenziale o quello morale.[29]
Se ne deduce che, essendo il danno biologico una locuzione meramente descrittiva del danno non patrimoniale, quindi del danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, ed avendo il legislatore, con la previsione di una clausola di apertura, fatte proprie ex ante le valutazioni della giurisprudenza di legittimità, è possibile individuare uno spiraglio interpretativo che proietti la categoria del danno non patrimoniale onnicomprensivo all’interno della tutela previdenziale.
La suddetta affermazione potrebbe, in vero, condurre, in considerazione del fatto che il legislatore ha espresso il giudizio di meritevolezza del danno biologico ad essere risarcito, ad un nuovo giudizio di illegittimità costituzionale al pari di quello che ha condotto all’introduzione dell’art. 13 nell’ordinamento previdenziale.[30]
La quaestio dell’autonoma indennizzabilità del danno biologico precede, quella della determinazione del cd. danno differenziale, ovvero del danno non indennizzato e pertanto risarcibile ex art. 2043 c.c.
Problema principiale è quello di determinare i criteri per il calcolo del differenziale atteso che, secondo la suprema Corte, il metodo della sottrazione del valore dell’indennizzo a quello computato per il risarcimento non è adeguato alle esigenze della legge, tenuto conto che le finalità dell’indennizzo previdenziale e del risarcimento civile risiedono nella reintegrazione globale del pregiudizio subito.
Ed infatti è di essenziale importanza che tale operazione aritmetica sia effettuata per il valore delle somme percepite inerenti la medesima voce del danno, e non il valore di questo complessivamente considerato.
Pertanto ricorrendo i presupposti dì fatto di cui all’art. 13, comma 2, lettera h), d. Lgs. 38/2000, l’I.N.A.I.L. liquida all’avente diritto un indennizzo in forma di rendita che ha veste unitaria, ma duplice contenuto compensando sia il danno biologico, sia il danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro e di guadagno.
Se ne deduce che quando chi patisce le conseguenze di un danno ingiusto abbia percepito anche l’indennizzo da parte dell’I.N.A.I.L., per calcolare il danno biologico permanente differenziale è necessario determinare il grado di invalidità permanente patito dalla vittima e monetizzarlo, secondo i criteri della responsabilità civile, ivi incluso il danno morale, attesa la natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, per poi sottrarre dall’importo ottenuto, non il valore capitale dell’intera rendita, ma solo il valore capitale della quota di rendita che ristora il danno biologico.[31]
[1] «quell’evento avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni», art. 2 T.U. 1124/65.
[2] In letteratura è definita “causa violenta” «(…) quell’antecedente causale dannoso ed esteriore che agisce sull’organismo umano con rapidità di azione», Enciclopedia Medica Italiana, II ed., 1979, p. 1954.
[3] Più precisamente si legge che, ancorché «il sistema tabellare costituisce – in linea di massima – una effettiva garanzia per i lavoratori interessati alla copertura del rischio delle malattie professionali, onde è da escludere un contrasto con gli artt. 3, 4, 35 e 38 Cost. Tanto più che il sistema tabellare è suscettibile di perfezionamento mediante la modificazione o integrazione delle voci di tabella, secondo la procedura prevista dallo stesso art. 3 del testo unico, la quale consente anche ai lavoratori di far sentire le proprie istanze di migliore tutela assicurativa mediante l’intervento delle organizzazioni sindacali nazionali di categoria maggiormente rappresentative. Peraltro una più piena soddisfazione della garanzia costituzionale richiede l’intervento del legislatore, potendo non essere sufficienti sporadici interventi integrativi delle tabelle, i quali, per giunta, difficilmente potrebbero assicurare la copertura del rischio proprio nei confronti dei lavoratori colpiti dalle malattie che venissero successivamente riconosciute come professionali. Onde va segnalata al Governo e al Parlamento l’opportunità ed urgenza di una soluzione legislativa mista, comprendente sia le tabelle delle tecnopatie protette con l’attuale regime positivo, sia anche la possibilità, riconosciuta a tutti i lavoratori, di provare l’eziologia professionale di una malattia non compresa nelle tabelle, e di ottenere conseguentemente le prestazioni di legge», Corte Cost., del 4 luglio del 1974, n. 206.
[4] v. esemplificativamente l’art. 1, comma 780, l. 296/2006; o art. 1, comma 60, L. 127/2007.
[5] «Sono compresi nell’assicurazione: 1) coloro che in modo permanente o avventizio prestano alle dipendenze e sotto la direzione altrui opera manuale retribuita, qualunque sia la forma di retribuzione; 2) coloro che, trovandosi nelle condizioni di cui al precedente n. 1, anche senza partecipare materialmente al lavoro, sovraintendono al lavoro di altri; (…) 4) gli apprendisti, quali sono considerati dalla legge (…)», art. 4, d. P. R. 1124/1965.
[6] Più precisamente «è costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gliart. 3 e 38 cost., l’art. 9, 1° comma, d. p. r. 30 giugno 1965, n. 1124 (t. u. delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), nella parte in cui non comprende fra i datori di lavoro soggetti all’assicurazione coloro che occupano persone, fra quelle indicate nell’art. 4, in attività previste dall’art. 1, stesso d. p. r., anche se esercitate da altri», Corte Costituzionale, sentenza 2 marzo 1990, n 98.
[7] v. Corte Costituzionale, sentenza del 21 febbraio 1990, n. 98.
[8] Più precisamente si legge che «La specificità della tutela assicurativa contro gli infortuni sul lavoro postula la “professionalità” del rischio, e ad integrare tale requisito non basta la mera correlazione di tempo e di luogo tra evento e prestazione lavorativa, qualora intervengano fattori od attività del tutto indipendenti dalle condizioni oggettive (ambiente, macchine, persone) dell’attività protetta», sent. n. 462/1989 della Corte Costituzionale.
[9] Cfr. Cass. SS. UU. n. 3476/1994.
[10] Cfr. art. 9 T. U. 1124/1965
[11] Cfr. Todaro, Balletta, Clemente, 2002.
[12] v. art. 1, comma 2, D.Lgs. 228/01.
[13] v. art. 8 D.Lgs. 227/01.
[14] v. art. 10 D.Lgs. 228/01.
[15] «l’impianto di tutela anti-infortunistica è frutto del contemperamento di opposti interessi: garanzia per i lavoratori per i rischi connessi all’attività lavorativa, garanzia delle istanze della parte imprenditoriale, ottenuto con l’istituto dell’esonero, seppur parziale, dalla responsabilità civile del datore di lavoro». v. Bacchini, 2000, p. IV
[16] Cfr. Argenti, Busonero e al., 2013, pp. 57-104
[17] La tabella di cui all’art. 139 T. U., aggiornata con d. M. del 12 settembre 2014, n. 212 colloca le radiazioni ionizzanti tra gli agenti fisici al Gruppo 2. Le malattia connesse all’esposizione a radiazioni ionizzanti, esclusi i tumori tabellati in un unico gruppo, sono la radiotermite, l’opacità del cristallino, l’anemia iorigenerativa, la piastrinopenia. La leucopenia, la pancitopenia e l’infertilità maschile, cfr. d. M. 212/2014, gruppo 2, n. 7; Quanto alle neoplasie, sono presuntivamente ricondotte all’esposizioni a radiazioni ionizzanti il tumore del polmone, delle ghiandole salivari, dell’esofago, dello stomaco, del colon retto, delle ossa, dell’encefalo, della mammella, del rene, della vescica, della tiroidee i tumori al sistema emolinfopoietico con eccezione della leucemia linfatica cronica, cfr. d. M. 212/2014, gruppo 6, n. 15.
[18] Più precisamente «Dall’inclusione nelle apposite tabelle sia della lavorazione che della malattia deriva l’applicabilità della presunzione di eziologia professionale della patologia sofferta dall’assicurato, con il conseguente onere di prova contraria a carico dell’I.N.A.I.L., quale è, in particolare, la dipendenza dell’infermità da una causa extralavorativa oppure il fatto che la lavorazione non abbia avuto idoneità sufficiente a cagionare la malattia, di modo che, per escludere la tutela assicurativa è necessario accertare, rigorosamente ed inequivocabilmente, che vi sia stato l’intervento di un diverso fattore patogeno, che da solo o in misura prevalente, abbia cagionato o concorso a cagionare la tecnopatia», Cass. Civ, sez. lav., sent. del 21 novembre 2016 n. 23653.
[19] «[la] Corte ha più volte affermato che la presunzione legale circa l’eziologia professionale delle malattie contratte nell’esercizio delle lavorazioni morbigene investe soltanto il nesso tra la malattia tabellata e le relative specificate cause morbigene, e non può esplicare la sua efficacia nell’ipotesi di malattia ad eziologia multifattoriale in cui il nesso di causalità non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di concreta e specifica dimostrazione – quanto meno in via di probabilità – in relazione alla concreta esposizione al rischio ambientale e alla sua idoneità causale alla determinazione dell’evento morboso», Cass. Civ., sez. lav., n. 26665/2013; ed ancora «La presunzione legale circa la eziologia professionale delle malattie contratte nell’esercizio delle lavorazioni morbigene investe soltanto il nesso tra la malattia tabellata e le relative specificate cause morbigene (anch’esse tabellate) e non può esplicare la sua efficacia nell’ipotesi di malattia ad eziologia multifattoriale in cui il nesso di causalità non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di concreta e specifica dimostrazione – quanto meno in via di probabilità – in relazione alla concreta esposizione al rischio ambientale e alla sua idoneità causale alla determinazione dell’evento morboso», Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. del 13 luglio 2011 n. 15400.
[20] «Nel caso di malattia professionale non tabellata, come anche in quello di malattia ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità; a tale riguardo il giudice deve non solo consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa ex officio diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all’entità ed all’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio ed anche considerando che la natura professionale della malattia può essere desunta con elevato grado di probabilità dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione lavorativa e dall’assenza di altri fattori extralavorativi, alternativi o concorrenti, che possano costituire causa della malattia», Cass. Civ., Sez. Lav., sent. del 12 ottobre 2012.n. 17438.
[21] Cfr. F. Vitale, T. Vitale, L. Vitale, 2001.
[22] v. Art. 79 T. U. 1124/1958.
[23] Cfr. F. Vitale, T. Vitale, L. Vitale, 2001.
[24] «La prova della causa di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, ovvero, esclusa la rilevanza della mera possibilità di eziopatenogenesi professionale, questa può essere ravvisata in presenza di un elevato grado di probabilità, che può essere ritenuto sussistente sulla base degli accertamenti operati dal giudice di merito», Cass. Civ. sez. lav. sent. n. 26665/2013; v. Cass. Civ. sent. del 25 maggio 2004 n. 10042.
[25] v. Cass. sez. lav. sent. del 11 maggio 1999, n. 4679; sent. Trib. di Roma, sez. lav. Del 3 maggio 2001 n. 8522.
[26] In via esempl. «[Tizio] risultava affetto dall’anno 1991 da linfoma non Hodgkin per cui è stato più volte ricoverato presso l’Ospedale e sottoposto a vari cicli periodici di chemioterapia. Il decesso avveniva in data 11/10/97. Per linfoma non Hodgkin si intende una neoplasia a carico dei tessuto linfatico di eziologia sconosciuta, imputabile ad anomalie genetiche, alterazioni immunologiche, a fattori virali, fisici e chimici. Nel corso degli anni il periziando è stato esposto all’azione di varie sostanze chimiche presenti nel luogo di lavoro (…) rappresentate da acidi, basi, solventi e cianuri non risultando concentrazioni elevate, capaci di provocare nel tempo irritazioni delle vie respiratorie, ma comunque non dotate di potere cancerogeno. Anche l’assorbimento delle radiazioni ionizzanti, limitato alla cute delle mani e non all’intero corpo, è risultato di entità trascurabile come si evince dalla scheda dosimetrica personale compilata dall’anno 1981 all’anno 1990, da cui non risulta il superamento della DMA (dose massima ammissibile) oltre la quale si possono verificare danni per la salute (..). Inoltre le visite mediche per la radioprotezione eseguite dall’anno 1984 all’anno 1990 non hanno evidenziato alterazioni significative di rilievo. Il libretto sanitario di rischio compilato in data 15/10/90 ha confermato l’idoneità fisica all’impiego presso la Mistral. La dose di esposizione alle radiazioni ionizzanti alle mani di tipo Beta e di tipo X nell’attività lavorativa, che si svolgeva per otto ore ai giorno, è stata di lieve entità, tale da non avere potuto determinare la malattia del linfoma non Hodgkin.. Appare, dunque, chiaro che non esistono elementi certi, allo stato attuale, che possano rappresentare i presupposti necessari connessi ai rischi lavorativi per il riconoscimento di malattia professionale». Cass. Civ., sez. VI, ord. n. 4652/2012; «il consulente, dopo avere analizzato l’attività lavorativa del Grassano (ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Frascati) e avere sottolineato che lo stesso era stato sottoposto ad agenti cancerogeni (radiazioni ionizzanti) negli anni che vanno dal 1981 al 1992, ha escluso la sussistenza del nesso eziologico fra tale esposizione e la patologia denunciata, dal momento che i valori rilevati negli anni di riferimento ed emergenti dalla nota prot. 130699 del 2 luglio 1999 erano molto inferiori a quelli stabiliti dal decreto legislativo 26 maggio 2000, n. 241 e dal decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 230», Cass. Civ., sez. lav., ord. n. 11540/2012.
[27] Cfr. Bacchini, 2000, p. VI.
[28] v. Art. 14, comma 1, d. Lgs. 38/2000
[29] Più precisamente «La valutazione equitativa di tutti i danni non patrimoniali può anche essere unica, senza una distinzione – bensì opportuna, ma non sempre indispensabile – tra quanto va riconosciuto a titolo di danno morale soggettivo e quanto a titolo di ristoro dei pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera sofferenza psichica, ovvero quanto deve essere liquidato a titolo di risarcimento del danno biologico in senso stretto (se una lesione dell’integrità psico-fisica sia riscontrata) e quanto per il ristoro dei pregiudizi per lesione dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.)», Cass. sent. 31 maggio 2003, n. 8827.
[30] Cfr. Bacchini, 2000.
[31] «Posto che la rendita pagata dall’Inail per invalidità superiori al sedici per cento indennizza in parte il danno biologico, ed in parte il danno patrimoniale da incapacità di lavoro e di guadagno, che viene liquidato forfetariamente in base ai criteri di cui al D.M. 12 luglio 2000, all. 5, al fine di calcolare il c.d. “danno biologico differenziale”, spettante alla vittima nei confronti del terzo civilmente responsabile, dall’ammontare complessivo del danno biologico deve essere detratto non già il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’Inail, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare il danno biologico», Cass. Civ., sent. del 26 giugno 2015 n. 13222.
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Salvatore Tartaro
Salvatore Tartaro, dott. Mag. in Giurisprudenza, abilitato all'esercizio della professione forense ex art. 41, co. 11 l. 247/2012. Laureato con 105/110 con una Tesi multidisciplinare in tema di Danno da Radiazioni Ionizzanti. Collabora con Studio Legale Di Giorgi.
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