La tutela penale degli obblighi economici in contesti di “crisi familiare”
PROFILI INTRODUTTIVI
Il tema della tutela penalistica degli obblighi economici in contesti di “crisi familiare” rappresenta un settore peculiare di indubbio interesse. Profili dal carattere trasversale vengono illuminati dall’innegabile dato della frequenza con cui tale ambito si trova a far capolino nella casistica giudiziaria e offrono l’occasione di trarre alcune considerazioni teoriche di ordine più generale.
In medias res, uno dei nodi centrali si risolve nella perimetrazione dell’orbita applicativa dell’art. 570 c.p., nei suoi rapporti con le confinanti figure di cui agli artt. 3, L. 8 febbraio 2006, n. 54[1], e 12 sexies, L. 1 dicembre 1970, n. 898[2], introdotte nella legislazione speciale con l’evidente intento di fissare un determinato assetto della tutela dei rapporti economici endofamiliari. Tutela che, come si vedrà, mentre si occupa della fase di unità del nucleo, non tralascia di considerare i contesti, appunto, di “fibrillazione”, quindi la separazione e, finanche, il vero e proprio scioglimento del vincolo coniugale, ponendo questioni di non rara emersione nella prassi applicativa.
L’ambito della presente analisi coincide con la definizione dei limiti di rilevanza penale dell’inadempimento (totale o parziale) degli obblighi civilistici di mantenimento in favore del coniuge o dei figli dell’obbligato.
Il contesto che dà la stura alla problematica, con l’innesto degli istituti penalistici sulla normativa extrapenale, nella specie civilistica, è pressoché il seguente: ci si trova dinnanzi ad uno stadio del vincolo coniugale in cui lo stesso si presenta affievolito o addirittura sciolto, perché interessato, come emerge, dalle dinamiche della separazione o del divorzio, a seconda dei casi.
Su un piano generale, va considerato che tali fasi patologiche della realtà coniugale, pur incidendo sul complesso reticolato familiare, non fanno venir meno gli obblighi civilistici connessi alla responsabilità genitoriale, anche sub specie di assistenza economica, connaturati al rapporto di filiazione e, in una certa misura, conservano anche alcuni profili che attengono a quello coniugale.
Su tale substrato civilistico la legislazione successiva al codice Rocco si è fatta carico di delineare la configurazione penalistica della tutela dell’obbligo di mantenimento, per il tramite delle fattispecie extra-codicistiche menzionate in apertura[3].
Alla stregua di tali referenti normativi, si lasciano inquadrare, in primis, molte delle vicende che coinvolgono la posizione dei figli minori, al cui mantenimento il genitore, pur separato o divorziato, non ottempera, in violazione di un obbligo, rilevante anche in un’ottica strettamente penalistica – che è quella che in tale sede compete trattare – che perdura a prescindere dal venir meno dello status coniugale.
In particolare, il genitore tenuto a corrispondere il mantenimento mensilmente stabilito dal giudice civile a favore dei figli, ora in sede di separazione ora in sede di divorzio – a seconda dei casi –, omette di adempiervi, in ordine ad un lasso temporale più o meno lungo[4], ponendosi così il problema della configurabilità, rispettivamente, delle ipotesi criminose di cui agli artt. 3 cit. e 12 sexies, anche nei loro rapporti con l’art. 570 c.p., e specialmente con il capoverso dello stesso, laddove si affaccino nella vicenda note fattuali che aggravino il quadro accusatorio, facendo trapelare una situazione di vera e propria privazione dei messi di sussistenza; problema applicativo e teorico che si complica, poi, nella misura in cui vengano in gioco, all’opposto, elementi contestuali tali da privare di rilevanza penale la condotta omissiva[5].
Come si anticipava, poi, nemmeno la menzionata relazione coniugale, anche se non più intatta o addirittura definitivamente sciolta, è privata di ogni aspetto di giuridica rilevanza, civile e penale.
L’altro versante penalistico in disamina è, infatti, proprio quello che attiene al potenziale spettro di operatività della norma di cui all’art. 570 c.p. – nella ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi richiesti – nei casi in cui uno dei due coniugi, pur senza far mancare i mezzi di sussistenza, ometta la corresponsione dell’assegno di mantenimento disposto, in sede di separazione o di divorzio, a favore dell’altro coniuge (o ex coniuge).
LINEE GENERALI DELL’ANALISI
Sembra utile, fin da subito, offrire le linee generalissime del percorso che si vuole seguire.
Il tema in oggetto fornisce un’interessante occasione per l’esame del modello di tutela di cui al co. 1 dell’art. 570 e, parallelamente, per isolare alcuni profili di raffronto strutturale e contenutistico rispetto al co. 2, n. 2 della stessa disposizione[6].
A ben considerare, in una prima fase, nonostante la vis expansiva riconosciuta alla norma penale incriminatrice di cui al primo comma – per le ragioni che si avrà modo di analizzare – si riteneva spettasse esclusivamente al capoverso della medesima disposizione, in presenza degli elementi costitutivi ivi previsti, incriminare le ipotesi di inadempimento dell’obbligo economico stabilito in sede di separazione a carico di uno dei due coniugi a favore dell’altro. Ancora – anche se per ragioni in pare diverse –, era nel secondo comma che una certa corrente giurisprudenziale – prima della decisiva pronuncia delle Sezioni Unite[7]– aveva fatto confluire le ipotesi di mancata elargizione dell’assegno di mantenimento fissato in sede di divorzio[8]. In entrambi i casi, beninteso, solamente laddove fossero integrati tutti gli elementi costitutivi richiesti dalla fattispecie, limitata alle ipotesi più gravi, ove viene fatto mancare quanto strettamente indispensabile.
Sorge dunque spontaneo interrogarsi, dapprima, circa i fattori normativi in cui è stato fatto filtrare il retroterra culturale e ideologico caratteristico dell’epoca cui risale la fattispecie codicistica, con la conseguenza, da un lato, di estendere a dismisura l’area di applicabilità della fattispecie di cui al primo comma, in presenza di requisiti selettivi aerei e “manipolabili” – sulla base di un criterio, come si vedrà, piuttosto opinabile – e, dall’altro, di eliderne lo spettro applicativo rispetto agli ambiti sopra menzionati, privando così di tutela altre ipotesi, in ragione di una pretesa non assimilabilità con i contenuti della norma; di qui si giunge comprendere come detti elementi normativi siano gli stessi che hanno poi comportato – nel tentativo di colmare il deficit di tassatività, denunciato già dai primi commentatori[9], recato dalla formulazione linguistica della disposizione, rimasta invariata – il successivo mutamento dell’area di applicabilità delle due norme menzionate[10].
Ciò condurrà, sulla scorta di alcune considerazioni in tema di tecnica legislativa[11], a confrontarsi con lo schema di normazione connotato dal rinvio a fonti esterne rispetto alla fattispecie incriminatrice, che è appunto il modulo linguistico incarnato dal richiamo alla normativa civilistica, nei casi in cui è alla stessa che si faccia riferimento per la determinazione del contenuto dell’elemento in questione[12]. Si farà la distinzione tra questo schema – su cui fa perno la tipizzazione di cui al comma 1[13]– con il ricorso al quale il legislatore, pur servendosi della normativa extrapenale, non rinuncia a forgiare un precetto che non combaci con quello civilistico, e quello in cui l’enunciato penale appare quasi come un duplicato, pur di autonoma portata, della omologa proposizione normativa civilistica. Anche in tale ultimo caso, tuttavia, la norma incriminatrice si cala nella consueta dimensione dei fondamentali principi penalistici – specialmente di colpevolezza ed offensività, rilevanti in tale ambito, che valgono così ad attribuirle in ogni caso un diverso perimetro applicativo[14].
Degli aspetti di dettaglio appena accennati ci occuperemo nel corso dell’analisi, perché presuppongono un diretto riferimento alle singole fattispecie, preceduto dall’adozione di una prospettiva diacronica.
Andiamo con ordine.
IL PUNTO DI VISTA DELLA GIURISPRUDENZA SUL BENE GIURIDICO TUTELATO E I RIFLESSI SULLA CONFIGURAZIONE DELLA TUTELA
L’astratta riconducibilità dell’ipotesi del mancato versamento dell’assegno al coniuge separato nell’orbita del comma 1 rappresenta, come accennato, un primo profilo problematico, al centro di una pluralità di questioni.
Al riguardo, sembra necessaria una, pur breve, digressione, tesa ad effettuare alcune considerazioni di ordine ricostruttivo degli orientamenti giurisprudenziali sul punto, che consenta anche di tastare il polso dell’impegno dogmatico in materia.
La soluzione condivisa di recente dalle Sezioni Unite[15], infatti, si distingue nettamente dalla storica impostazione giurisprudenziale sui rapporti tra primo e secondo comma dell’art. 570 c.p..
Ebbene, nel contesto di tale previsione, invero, è indubbiamente quella del 1 ° comma, con il suo rinvio ad elementi normativi e valutativi – come l’ordine o la morale delle famiglie – ad aver risentito maggiormente, nella sua interpretazione, della temperie storica in cui ha avuto origine[16].
Stando all’opinione più risalente [17] – ben diversa da quella corroborata dal Supremo Consesso – nell’interpretazione della norma si dovrebbe nettamente distinguere il piano degli obblighi di natura morale, proprio del comma primo, da quello degli obblighi di spessore economico-materiale, ricondotto al comma secondo.[18]
Ne discendeva, dunque, tra l’altro, linearmente, rispetto all’omesso versamento dell’assegno stabilito in sede di separazione, l’inapplicabilità del comma 1 e la configurabilità, al più, dell’art. 570, co. 2, subordinata alla verifica dello stato di bisogno e delle condizioni economiche dell’obbligato.
Ora, tale soluzione ermeneutica frustrava quello che era il dato letterale, vanificato per lasciare spazio ad una sostanziale riscrittura della fattispecie. Tale rimodellamento per via ermeneutica del tipo legale avveniva sulla scorta di considerazioni attinenti al bene giuridico, ma tutto l’architrave teorico si reggeva su un erroneo postulato. Più esattamente, si trattava di argomentazioni che muovevano dallo scopo dell’incriminazione, confondendosi il bene giuridico, il vero e proprio oggetto giuridico del reato, con la ratio legis[19]. Non si tratta soltanto di una questione terminologica in quanto nel lessico penalistico il bene giuridico è concetto che svolge non trascurabili funzioni, anche sul piano interpretativo.
L’errore esegetico è, allora, presto svelato, laddove si consideri che se è ben vero che la finalità incriminatrice si identifica nel presidio dell’istituzione familiare[20], “oggetto della tutela penale” [21], come emerge dalla sistemazione legislativa della materia – anche in considerazione delle indicazioni ricavabili dai vari titoli e capi – questa è un’astrazione concettuale[22], nient’altro che una categoria descrittiva, che non può prescindere da una sua concretizzazione nelle singole oggettività giuridiche – l’”oggetto del reato”[23] – proprie dei reati familiari, altrimenti oscurate, “fagocitate” dalla macrocategoria.
In altri termini – ed esplicitando quanto poc’anzi rilevato – la giurisprudenza ha così preteso di individuare l’oggetto giuridico del comma 1 nella morale familiare[24], connessa anche alla garanzia dell’indissolubilità dell’unione coniugale[25], che sfugge a quei “requisiti di concretezza e di determinatezza”[26] cui deve rispondere l’”oggetto giuridico specifico” dei singoli reati,[27] demandando al solo comma 2 la tutela degli aspetti economici; tutela confinata quindi alle ipotesi di violazione più gravi.
Ciò tende a tradursi in una funzionalizzata esegesi della norma in questione, che reca con sé un difetto di “concretezza precettistica”[28], una evanescenza dei contorni dell’ipotesi di cui al primo comma. Se il metodo per l’esatta individuazione del bene dovrebbe muovere dagli elementi costitutivi della singola fattispecie[29], qui si assiste al modus operandi inverso, in cui, mediante un preteso bene di categoria, sono stati oscurati gli elementi costitutivi della norma incriminatrice, ridisegnandone l’area di tipicità.
In sostanza, con lo schema giurisprudenziale esposto, si è creduto di rimediare all’apparente indeterminatezza[30] della norma di cui all’art. 570 c.p. manipolando – con operazione suppletiva –, surrettiziamente, i confini di tipicità del fatto, sulla base di una aprioristica individuazione dell’interesse protetto[31]. Ma la determinazione del bene tutelato da una norma è un procedimento interpretativo non metagiuridico, bensì controllabile sul piano degli argomenti utilizzati, che devono fondarsi su referenti normativi.
Alla luce del quadro esegetico sopra profilato, non stupisce che l’esclusione della tutela economica del coniuge separato dallo spettro del primo comma, più che riposare su elementi letterali, finisca per risentire delle propaggini sopra enucleate – che si ritrovano in controluce anche nella giurisprudenza recente – facendo leva proprio sulla accennata bipartizione[32]; con il risultato di far ritenere che costituisca soltanto un illecito civile il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento stabilito in favore del coniuge separato, che non integri gli estremi del comma 2 n. 2.
UNA PIÚ CORRETTA DELIMITAZIONE DELL’AMBITO DI APPLICABILITÀ: PROFILI RICOSTRUTTIVI DELLA FATTISPECIE
Una corretta lettura della disposizione contenuta nel primo comma conduce però ad escludere che gli obblighi di assistenza, cui si fa espressamente riferimento, senza ulteriori specificazioni, nella norma, siano solo quelli di natura morale.
All’impasse che la apparente vaghezza della norma pone innanzi all’interprete si può, infatti, rimediare tramite un duplice passaggio.
Prosaicamente, un maggior coefficiente di determinatezza può essere raggiunto, in primo luogo, laddove la locuzione “si sottrae agli obblighi di assistenza” venga agganciata alla normativa civilistica in tema di obblighi che gravano sui membri della famiglia[33], così da rendere meno sfocato e indefinito il fatto. Il passo successivo consiste nel circoscrivere la nozione di assistenza ai soli obblighi di contenuto economico, restringendola quindi rispetto all’omologo civilistico, tramite la valorizzazione delle altre due unità linguistiche di cui la norma è composta, ovvero “abbandonando il domicilio domestico” e “serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie”.
Sul piano esegetico, va considerato, infatti, come, nel coordinamento tra fattispecie civile e fattispecie penale – e, più in generale, quando il legislatore utilizzi concetti propri di altri ordinamenti o anche del linguaggio comune – si debba presumere che il legislatore penale abbia avuto come punto di riferimento il significato di provenienza. Peraltro detta recezione non è automatica. Pertanto l’interprete, assodata la nozione del concetto sulla base dell’ambito di appartenenza, deve poi inserirla all’interno della norma penale, verificarne, per così dire, il funzionamento[34].
Ciò posto, sul versante delle regole dell’interpretazione, l’argomento c.d. economico, implicando che la disposizione non risulti ridondante – contenga quindi frammenti inutili – convalida l’esito dettato dal confronto interno alla stessa disposizione, in considerazione per di più della contestualità della produzione normativa. Il che è poi nient’altro che una sostanziale applicazione dell’art. 12 delle preleggi[35].
A voler relazionare il concetto di assistenza, sulla base del suo significato civilistico[36] (e ancor prima letterale), anche ad obblighi dal contenuto non economico – quali, ad esempio, quello di coabitazione, di fedeltà[37] e così via – si farebbe, invece, coincidere tale nozione con le due condotte sopra menzionate, puntualmente descritte nella norma e ricollegabili ad obblighi di ordine morale. Il tutto risolvendosi in una interpretatio abrogans, sull’aprioristico asserto che il dato testuale incorpori una tautologia legislativa[38].
Ebbene, il carattere di quid pluris riconosciuto alla violazione assistenziale rispetto alle due condotte che la precedono – sulla base dello stringente argomento sopra esposto – risulta utile per illuminare la fattispecie sul piano della sua struttura e chiedersi quale ruolo giochino i tre termini in relazione.
Prima facie, la stessa non sembra dotata di un evento naturalistico, ma a ben vedere il disvalore di evento pare avere un ruolo di rilievo, convogliando il momento consumativo sulla realizzazione di un risultato, funzione svolta proprio dal menzionato requisito della sottrazione agli obblighi di assistenza[39]. Volendo servirci di un’utile classificazione, che potrebbe attagliarsi a questo tipo di situazioni[40], la circostanza che il rapporto causale non sia esplicitato a livello strettamente lessicale non parrebbe dirimente, laddove lo stesso sia comunque indiziato nella tipizzazione normativa da una formulazione linguistica logicamente accostabile a quella causale. In altri termini, sembrerebbe di trovarci al cospetto di una “condotta-risultato”[41]– sottrazione agli obblighi di assistenza – e di due “condotte-modo”– la condotta di abbandono e quella comunque in violazione dell’ordine o della morale –. Il legislatore espliciterebbe delle modalità esecutive che devono necessariamente accompagnare il contegno di sottrazione, preso in considerazione nella dimensione del suo risultato. Sennonché – pur condividendo la preoccupazione di non appiattire la condotta di sottrazione ai doveri familiari sul mero allontanamento dalla residenza familiare o sulla la mera condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie[42] – si potrebbe obiettare l’implausibilità del suddetto schema, in quanto esso presupporrebbe che una inosservanza di spessore morale dia luogo, quale suo effetto, ad una violazione a carattere materiale-economico – il che parrebbe non troppo intellegibile, data la loro non omogeneità; una ricostruzione alternativa, che tenga conto di tale aspetto, potrebbe allora essere quella del “reato a doppia condotta”[43], che si articolerebbe in tal modo: ad un primo contegno – violativo dell’ordine e della morale – tiene dietro un secondo, staccato, temporalmente e logicamente, dal primo – di sottrazione agli obblighi di assistenza –. Ma, in ogni caso, quand’anche si volesse abbracciare la validità di tale ultima tesi, rimarrebbe comunque, di tutta evidenza, il dato della autonomia di cui i due elementi in menzione risulterebbero dotati, seppur l’uno strumentale rispetto all’altro[44]. In altri termini, “il risultato sarebbe lo stesso, perché le condotte attive non sarebbero di per sé rilevanti se non accompagnate dalla condotta omissiva di sottrazione agli obblighi”.[45]
CENNI SULLA TECNICA DI NORMAZIONE IMPIEGATA NELL’ART. 570: I CONCETTI ELASTICI DI “ORDINE” E DI “MORALE”
Continuando l’analisi del piano strutturale, pare ora opportuno fare un cenno alla tecnica di normazione sintetica impiegata nella fattispecie[46].
Se, infatti, la nozione di assistenza va correttamente identificata a partire dagli obblighi del codice civile, per l’esigenza di tassatività cui si alludeva, a tale operazione non devono sottrarsi i concetti di ordine e morale. Gli stessi, inizialmente considerati elementi normativi[47] extra-giuridici, o, comunque, al di là delle affermazioni di principio, adoperati come se fossero tali dalla giurisprudenza, devono essere ricondotti al carattere della giuridicità[48] per ridurre il gradiente di indeterminatezza[49]. Quindi, ancora, a quegli obblighi, sì di coloritura morale, ma rinvenibili nella normazione civile[50].
Concetti come l’”ordine”[51] o la “morale” sembrano rivestire, infatti, in sé considerati, il carattere di elementi normativi[52] di tipo extragiuridico (“wertbegriffe”[53]). Prendendo quale esempio la morale, il riferimento legislativo alla stessa, racchiudendo nell’enunciato un elemento dal contenuto flessibile, presenta le fattezze di un richiamo ad altre norme, in questo caso etico-sociali, che la individuano.
Ora, i presupposti di attribuzione della qualifica di contrarietà alla morale, ovvero dette regole etiche, sono particolarmente sensibili al mutare dei tempi[54].
Se la descrizione della fattispecie legale che del suddetto concetto si avvale non muta, come nella specie, a cambiare è, però, il contenuto del concetto, che è esterno, cioè l’elenco di situazioni catalogabili come immorali. Concetto frantumato nella nostra società non omogenea, ma multiculturale, non riconducibile ad un univoco sentire collettivo[55].
Peraltro, l’esigenza di utilizzare strumenti tecnici suscettibili di istituire un raccordo con la realtà sociale, come nel caso degli elementi normativo-sociali, non può porre in seconda linea il principio di tassatività[56].
Così, per lasciare il campo a criteri obiettivamente controllabili, si sono “trasformati”, quale momento di ortopedia ermeneutica, gli elementi prima facie extragiuridici in elementi giuridici, definendone la sfera, agganciandola alle norme della legge civile, quale più obiettivo parametro interpretativo per valutare la violazione del dovere o l’abuso connesso al proprio status familiare[57].
UNA INDIVIDUAZIONE DEL BENE GIURIDICO PIÙ ADERENTE ALL’ANALISI STRUTTURALE DELLA FATTISPECIE
Una volta che si abbia chiara la struttura e la direzione del rinvio operato dei suddetti elementi normativi, è evidente come, avuto riguardo al complesso dei requisiti costitutivi, il bene giuridico non possa che risolversi, in realtà, nei singoli rapporti familiari[58], che , se un tempo erano diversamente connotati – attorno al fulcro della patria potestà/potestà maritale[59], per poi, fino alla introduzione della legge sul divorzio e alla riforma del diritto di famiglia, rimanere comunque marginalizzati dalla “funzione sociale del gruppo”[60] – costituivano in ogni caso l’autentico oggetto giuridico[61].
Tanto risulta non in base a interpretazioni teleologiche della fattispecie, mosse da assunti ideologici, bensì considerando l’esito del funzionamento degli elementi normativi sopra considerati, una volta che si sia riconosciuto – per le esigenze di concretezza cui sopra si accennava – quale legittimo parametro di qualificazione la legge civile.
Quelle relazioni familiari che l’evoluzione sociale e giuridica, oggi, alla luce della Costituzione, riempie di un significato personalistico. Singoli rapporti familiari che, del resto, sono anche l’oggetto di tutela del comma 2[62], minati dalla particolare gravità dell’offesa agli stessi, in tali ipotesi, essendo messa a rischio la soddisfazione dei bisogni primari[63]. Bene giuridico tutelato da questa disposizione nel suo complesso si è ritenuto infatti essere “la protezione dell’esigenze economiche dei familiari, nell’ambito delle relazioni reciproche fra coniugi, fra genitori e figli, sia nella fase di unità del nucleo, sia in quella di separazione o comunque di allontanamento”[64].
Cade, quindi, sostanzialmente, l’argomentazione che fa perno sull’oggettività giuridica, per escludere la tutela economica del coniuge separato dalla sfera del comma 1.
Alla luce delle considerazioni appena svolte, infatti, si dovrebbe far leva su profili afferenti il piano strutturale per pervenire comunque a tale esito; rilievi che però non parrebbero avere fondamento, conservando il separato la qualifica di coniuge e non sussistendo ragioni per negare l’evenienza che una sua condotta possa essere valutata in termini di contrarietà alla morale[65].
L’AVVICENDAMENTO LEGISLATIVO E GIURISPRUDENZIALE SUL VERSANTE DELLA TUTELA PENALE NEI CASI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO
Riguardo i casi di scioglimento del vincolo matrimoniale, va ricordato come l’entrata in vigore della legge sul divorzio[66] sollevò il problema della tutela penale dell’ex coniuge[67]. La condizione di divorziato, infatti, essendo incompatibile con quella di “coniuge”[68], espressamente richiesta sia dal comma 1 che dal comma 2, incontrava un limite invalicabile di tipicità rispetto alla sussumibilità nell’art. 570 c.p..
Da tale constatazione è opportuno prendere le mosse per evidenziare l’avvicendamento giurisprudenziale e legislativo sul punto.
Ad una prima impostazione, che reputava configurabile l’art. 570 co. 2 c.p.[69], si giustappose un itinerario interpretativo di segno contrario[70], indirizzo restrittivo poi definitivamente convalidato dalle Sezioni Unite[71].
Per ovviare a tale esito, che finiva per escludere la tutela penale dell’ex-coniuge, la legge di riforma del divorzio[72] introdusse una fattispecie di reato ad hoc, l’art. 12 sexies [73]: un reato omissivo proprio, essendo individuato il soggetto attivo soltanto in chi è tenuto alla prestazione dell’assegno di divorzio, che punisce il coniuge[74] che, a seguito dello scioglimento del matrimonio, si sottragga all’obbligo di corresponsione dell’assegno di cui agli art. 5-6 della medesima legge, rinviando per il regime sanzionatorio genericamente all’art. 570 c.p.
Una figura di reato[75] del tutto autonoma nella parte precettiva[76] rispetto all’art. 570 c.p., dalla condotta puntualmente definita, che configura un reato di mera condotta[77], ritraendo l’inadempimento dell’obbligo economico di mantenimento stabilito dal provvedimento del giudice[78].
Sotto il profilo sanzionatorio, invece, laconicamente, la stessa richiama le sanzioni previste dall’art. 570 c.p..
Avuto riguardo all’art. 12 sexies[79], una questione che immediatamente sorge è quella della natura del rinvio contenuto, se quoad delictum o quoad poenam e, in tale ultimo caso, a quale dei due trattamenti sanzionatori previsti nell’art. 570[80].
Esclusa la soluzione del rinvio quoad delictum [81] – in quanto l’art. 12 sexies prevede un precetto determinato e autonomo sia strutturalmente che dal punto di vista offensivo – con riguardo alla tipologia sanzionatoria, cui la norma, ben poco perspicua, rimanderebbe, la giurisprudenza prevalente – fino al recente arresto delle Sezioni Unite nel 2013[82] – si orientò verso la soluzione più rigorosa, sull’assunto dell’affinità di contenuto con la fattispecie prevista dall’art. 570, co. 2, n. 2, c.p.[83]
In ogni caso, una volta collocato il rinvio sul versante della determinazione della pena, in disparte il dubbio su quale comminatoria edittale si debba applicare, si poneva, in ogni caso, il problema di una disparità di trattamento rispetto alla sfera di tutela del coniuge separato[84], nonché tra la prole di genitori divorziati rispetto a quella di genitori separati[85], giacché l’omesso versamento dell’assegno stabilito in sede di separazione non era punito in quanto tale dalla legge – a differenza di quanto avveniva nel caso di divorzio – salvo il ricorrere degli estremi dell’art. 570. Questione sottoposta alla stessa Corte costituzionale, che la dichiarò tuttavia non fondata reputando la diversità non palesemente arbitraria ed irragionevole[86].
La denunciata disarmonia indusse così il legislatore nel 2006[87] ad intervenire su questo assetto, mediante l’introduzione, in particolare, d’una nuova fattispecie penale, che, tuttavia, a mo’ di arabesco, riproduce – rendendolo più “labirintico – il meccanismo del rinvio sanzionatorio, che lungi dal fugare i dubbi, sembra moltiplicare le perplessità.[88]
COMPARAZIONE TRA LA FATTISPECIE DI CUI ALL’ART. 3, L. 54/2006 E QUELLA DI CUI ALL’ART. 12-SEXIES, L. 898/1970
Ebbene, è giunto ora il momento di concentrare l’attenzione su tale norma.
Si è evocata “una tipicità solo apparentemente semplice nella sua laconicità, in realtà molto complessa; una tipicità fatta di rinvii a catena, si direbbe “a rincorsa”, spia d’un legislatore che certamente non brilla per sapienza in fatto di tecnica della normazione”[89]. Più prosaicamente, già di primo acchito, sembra che l’intelligibilità della norma, sia inversamente proporzionale alla sua concisione, sollevando non poche questioni.
Innanzitutto, ha raccolto fin da subito consensi in dottrina[90] l’opinione secondo cui un primo tratto peculiare, da rimarcare sul piano dei requisiti oggettivi, starebbe nel fatto che oggetto dell’art. 3, l. n. 54 del 2006 sono obblighi economici rintracciabili già direttamente nelle stesse disposizioni civilistiche, non solo, quindi, quelli imposti da singoli provvedimenti giudiziali, come deve invece ammettersi in relazione all’art. 12 sexies.
Si evidenzia, in altre parole, la diversità di struttura oggettiva dell’art. 3 cit. rispetto all’art. 12 sexies, il quale opera, invece, un espresso e tassativo richiamo agli assegni determinati dai provvedimenti del giudice[91].
Sempre comparandola con l’art. 12 sexies, già ad un rapido sguardo si impone un’altra questione che attiene all’elemento strutturale. In particolare, sembrerebbe che il rinvio[92] inserito nell’art. 3 cit., possa, questa volta, vestire le sembianze di un rinvio quoad delictum[93].
Si anticipa che tale ultima via sembra impraticabile, per le notazioni che seguono.
Preliminare e decisivo rispetto a tale questione è fornire alcune precisazioni rispetto al primo punto che si è sopra evidenziato, comprendere cioè se l’esatto perimetro della nozione di “obblighi di natura economica”, cui fa riferimento l’art. 3, copra solo quelli introdotti dalla l. n. 54 del 2006[94] o tutti quelli previsti dal suddetto capo V, del libro I del codice civile.[95]
Ancora una volta, sonora débâcle riceve la determinatezza della fattispecie tipica – in misura inedita anche rispetto a quella conosciuta dallo stesso art. 12 sexies – giacché la norma di cui all’art. 3 cit. opera una mera menzione di obblighi economici, sembrando imporre un richiamo ai contenuti di un nutrito complesso di disposizioni civilistiche[96] per apprezzare il contenuto della fattispecie penale.
Per ovviare all’impasse, si è valorizzata la circostanza che la norma in parola non è norma che è stata inserita nel tessuto codicistico, restandone estranea e conservando, quindi, le sue relazioni solo con le altre disposizioni della legge medesima: in breve, l’art. 3 cit. non può, dunque, esercitare la sua opera di richiamo rispetto a tutte le norme del capo V, del libro I c.c., ma solo rispetto a quelle della l. n. 54 del 2006[97]. Ne consegue – venendo alla questione cui si alludeva – che il rinvio recettizio in esso contenuto opera solo rispetto agli obblighi di mantenimento del genitore verso i figli – di cui si occupa la suddetta legge – a sconfessare quindi anche la tesi, prima facie ammissibile, del rinvio quoad delictum; con esclusione dall’ambito della fattispecie delle pretese creditorie del coniuge divorziato – tuttora ricadenti nell’art. 12 sexies[98] – e a conferma anche che l’attuale tutela penale per i coniugi separati rimane ancora solo quella individuata dall’art. 570 c.p., più limitata, anche a ritenerne configurato il meno restrittivo primo comma.[99]
L’EVENTUALE CONCORSO CON IL COMMA 2
Un breve cenno sembra dovuto rispetto al rapporto che corre tra l’art. 3 e l’art. 12 sexies, sopra menzionati, da un lato, e il capoverso dell’art. 570 c.p., dall’altro.
Confrontate tra di loro le prime due disposizioni citate, piuttosto che considerarle singolarmente, sembra più opportuno rapportarle unitariamente al co. 2, n. 2 dell’art. 570 c.p., in quanto le questioni sollevate non sembrano porsi in modo dissimile da quelle che l’accostamento del capoverso prefato presenterebbe rispetto a ciascuna di esse.
Ebbene, si pensi, quale caso emblematico, all’ipotesi in cui si siano fatti mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori, mediante l’omessa corresponsione del mantenimento dovuto[100].
La questione appare non poco dibattuta e tutte le strade sembrano essere state percorse.
A voler rimarcare la distanza tra gli oggetti giuridici di tutela dell’art. 12 sexies e dell’art. 3 cit., da una parte, e del comma 2 dell’art. 570, dall’altra[101] – per impiegare il “vecchio” criterio ermeneutico basato sul raffronto sostanziale, tra beni giuridici – si potrebbe forse varcare la soglia del concorso di reati tra dette fattispecie ed il delitto di cui all’art. 570 c.p., comma 2.. Stando, tuttavia, all’attuale “ortodossia, che vede come “dominus” della materia il principio di specialità, tale criterio strutturale – almeno secondo una certa opinione dottrinale[102] – ben si adatterebbe a descrivere il rapporto fra artt. 3 cit. e 12 sexies (norme generali) e art. 570, comma 2, n. 2 c.p. (norma speciale), dovendosi quindi ritenere applicabile, secondo lo schema del concorso apparente di norme, il solo art. 570, comma 2, n. 2 c.p.[103]
IL RECENTE ARRESTO GIURISPRUDENZIALE SULLA TUTELA DEL CONIUGE SEPARATO
Rispetto alla cennata differenza contenutistica tra il capoverso dell’art. 570, da una parte, e gli artt. 12 sexies e 3 cit., dall’altra, pur esclusa la rilevanza in termini di determinazione del concorso apparente di norme, non sembra inutile svolgere una ulteriore riflessione.
Veniamo così a toccare un’altra questione che risulta essenziale nell’economia del discorso.
In particolare, si tratta di rammentare la valorizzazione di tale profilo sostanziale come operata dalla Suprema Corte nel 2013 in un diverso versante[104].
È d’uopo ricordare come, nella linea di sviluppo inaugurata dal legislatore del 2006, le Sezioni Unite si sentirono investite di una sorta di passaggio di testimone, in quanto l’art. 3 cit., come si è detto sopra[105], si occupava solo della tutela dei figli, non anche della posizione del coniuge separato, che continuava ad essere ricondotto dalla giurisprudenza dominante ai soli casi gravi del comma 2 dell’art. 570[106].
In particolare, l’Organo della nomofilachia[107], nel contesto della soluzione al problema del rinvio effettuato dall’art. 12 sexies, ribadiva il primato dell’in dubio pro reo[108] – altrimenti a rischio la tenuta del principio di determinatezza [109]– su un’interpretazione, quale quella prevalente, che vagheggiava una sorta di contiguità repressiva, sotto il profilo sostanziale, rispetto alla fattispecie prevista al comma 2 cit..
Ma è esattamente quando la questione si poteva già considerare esaurita, che il Supremo Consesso non perde l’occasione per esplicare la propria funzione nomofilattica, attendendo ad una rivisitazione interpretativa dell’art. 570 c.p..
È dall’esatta dimensione precettiva riconosciuta all’art. 12 sexies[110], muovendo dalla differenza tra mezzi di sussistenza e mantenimento – per argomentare a partire dalla natura di quest’ultimo quale estrinsecazione dell’ assistenza economica – che si ricava, da un lato, la non affinità con la ben più circoscritta ipotesi del comma 2 dell’art. 570, rinnegando quindi l’impianto motivazionale del filone giurisprudenziale più seguito fino a quel momento; dall’altro, e specularmente, la vicinanza con quella del comma 1[111]. Che poi sulla base di queste premesse si corrobori la riconosciuta – già per altra via – direzione del rinvio quoad poenam [112] è profilo, quasi supplementare, che va da sé.
QUESTIONI IN TEMA DI PERMANENZA E CONTINUAZIONE
Rispetto al quadro così tracciato, non ci si esime dall’esprimere, pur in via cursoria, qualche ulteriore considerazione in ordine alla natura dei reati della legislazione complementare sopra menzionati.
Diffusa in giurisprudenza è l’opinione che si tratti di reati permanenti[113]
La tesi è avvalorata da una parte della dottrina. Si sostiene, infatti, che da un unico obbligo – quello di versare l’assegno – discenderebbe un’unica omissione, configurandosi le scadenze periodiche fissate dal giudice soltanto quali modalità di adempimento dello stesso[114] .
Con la qualifica di permanenza verrebbero, così, ad inquadrarsi, complessivamente, la pluralità dei singoli mancati versamenti da parte del soggetto – in ipotesi, nei confronti del proprio figlio – dandosi quindi rilievo alla protrazione dell’unica condotta omissiva posta in essere.
Laddove vi fosse più di un soggetto passivo (si pensi, plasticamente, al mancato versamento del genitore rispetto a ciascuno dei due figli), provando ad applicare quanto adombrato, in linea di principio, nel decisum del 2007[115], sopra ricordato, sembrerebbe potersi discorrere di continuazione – in presenza, beninteso, dei requisiti della stessa – tra più reati, in tal caso permanenti[116] (per l’appunto due, nell’esemplificazione proposta).
In quella sede, infatti, trattando della diversa ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 570 c.p., si affermava, in particolare, che quando ad essere offesi siano più soggetti passivi, plurimi sono i reati – ed eventualmente in continuazione fra loro, come nella specie – perché i diversi specifici interessi economici dei congiunti “deboli” tutelati dalla norma non sono necessariamente vulnerati in toto dalla condotta dell’agente, potendo questi adempiere agli obblighi di solidarietà familiare soltanto in favore di alcuni di essi, in danno degli altri. Ora, il riconoscimento di plurimi reati in continuazione fra loro, ex art. 81 c.p., anche nell’ipotesi che abbiamo considerato, sembrerebbe essere nient’altro che logica conseguenza dell’adesione a tale orientamento, sul presupposto che l’offesa sia arrecata separatamente in direzione dei due rapporti familiari che legano il soggetto agente ai propri figli[117].
Sennonché, tale soluzione, a ben vedere, non sembra affatto necessitata.
Anzi, proprio facendo leva sulla riconosciuta non omogeneità tra la nozione di mantenimento e quella di mezzi di sussistenza – sulla base della sentenza del 2013 di cui si è sopra detto –, non parrebbe eccentrico e senza ragioni, aderendo ad una condivisibile impostazione dottrinale[118], l’argomento orientato ad una opzione diversa, in direzione della non traducibilità della pluralità di offese patrimoniali, rivolte nello stesso contesto nei confronti di più soggetti, in altrettanti reati, stante la natura patrimoniale – dunque “non altamente personale” e inerente anche un bisogno essenziale della persona, come invece accade per il comma 2[119]– del mantenimento[120].
LA RILEVANZA DELLE CONDIZIONI ECONOMICHE DELL’OBBLIGATO: UN INQUADRAMENTO DOGMATICO
Altro tema di rilievo indiscusso nell’economia delle norme in disamina è quello della rilevanza delle condizioni economiche dell’obbligato,
Il profilo è di centrale portata nella prassi applicativa.
Per cogliere immediatamente la questione, potrebbe subito pensarsi al classico caso di un coniuge separato che, a causa della difficoltà economica in cui si trova, omette di versare l’assegno di mantenimento previsto a favore dell’altro coniuge, risultando così imputato del delitto di cui all’art. 570 co. 1.
A ben vedere, sembra qui trovare una sua utilità la digressione che sopra si svolgeva, trattando della struttura del reato, in ordine alla rilevanza di un collegamento causa-effetto – o comunque di strumentalità –: l’art. 570, comma 1, c.p. non dà rilevanza alla violazione del dovere di assistenza in sé per sé considerato, ma solo in quanto sia preceduto (causalmente o comunque strumentalmente) da una condotta “contraria alla morale o all’ordine familiare”[121].
Inquadrato il caso nel reato di cui all’art. 570, comma 1, c.p., circa il problema della rilevanza delle condizioni economiche sulla configurabilità di tale reato, l’interprete, quindi, dovrebbe sviluppare il suo percorso argomentativo a partire dall’assunto della necessità di un’attenta analisi di tale situazione di difficoltà, per verificare se essa sia la “causa/strumento” dell’inadempimento agli obblighi di assistenza e non la condotta contraria alla morale.[122]
Ma andiamo con ordine.
Al riguardo, occorre, infatti, premettere che detta considerazione non si attaglia a tutte le ipotesi normative considerate, dovendosi distinguere a seconda che si faccia questione dei delitti di cui agli artt. 12 sexies, L. del 1970 e 3, L. del 2006, del reato di cui all’art. 570, comma 2, c.p., oppure, ancora, del reato di cui all’art. 570, comma 1, c.p..
Focalizzando, l’attenzione sul 570 comma 1[123] – per tornare al nostro esempio – si sostiene che a rilevare siano tanto la c.d. impossibilità assoluta quanto quella c.d. relativa, ovvero sia l’ipotesi in cui il disagio si traduca in una assoluta impossibilità di adempiere che quella in cui lo stesso renda l’adempimento, non materialmente impossibile, ma “eccessivamente oneroso” per l’obbligato, portandolo a sacrificare altre esigenze o pretese[124].
Sul primo versante, riguardato da un punto di vista dogmatico, un disagio economico di questo tipo sembra idoneo ad incidere in una duplice direzione: impedendo l’insorgenza dello stesso dovere di agire[125] oppure escludendo la c.d. suitas[126] dell’omissione[127], a fronte di una situazione “ingovernabile”, tale da determinare una impossibilità di agire; in entrambi i casi, quanto all’ipotesi criminosa in discorso, il precipitato che se ne ricaverebbe sarebbe l’esclusione della sussistenza di una condotta “contraria alla morale familiare”, non potendosi qualificare come tale un’omissione determinata da un’impossibilità assoluta ad adempiere[128]. Nell’ambito della seconda costellazione di ipotesi, se pacifica è l’esclusione del reato ove ricorrano gli estremi dell’art. 54 c.p[129], desta maggiori problemi l’evenienza nella quale il disagio reddituale, pur non determinando uno stato di necessità, ponga l’obbligato di fronte all’incapacità di soddisfare le esigenze familiari senza accantonare le proprie. In tale caso, attenta dottrina sostiene aprirsi lo scenario di un sindacato del giudice sulle determinazioni dell’obbligato, in relazione alle esigenze da questi sacrificate, venendo meno ai propri obblighi di assistenza, al fine di verificare se la causa dell’inadempimento sia ravvisabile in una condotta contraria alla morale familiare e, per l’effetto, configuri il reato[130].
A termine di raffronto si erge l’ipotesi del comma 2, affermandosi che solo in tale ultimo caso – in considerazione dell’essenzialità dei bisogni che devono trovare soddisfazione e che solo in casi estremi sono destinati a divenire subvalenti – vige l’assunto per cui escluderebbe il reato solo l’impossibilità assoluta, giacché, invece, quanto all’art. 570, comma 1, c.p., la sua stessa formulazione letterale imporrebbe il più approfondito accertamento di cui sopra, attinente anche l’impossibilità relativa. Tanto sull’assunto che il 570, comma 1, c.p. non dia rilevanza alla violazione del dovere di assistenza in sé per sé considerato, ma solo in quanto “effetto”[131] di una condotta “contraria alla morale o all’ordine familiare”.
Le perplessità iniziano, però, a sorgere laddove in giurisprudenza talvolta si identifichi la contrarietà alla morale nella “volontà inadempiente correlata alla deliberata negazione del vincolo di assistenza”[132]
Così definito, tale requisito parrebbe connotare l’elemento soggettivo, che sarebbe integrato solo in presenza di una violazione ai doveri di assistenza sorretta da un dolo intenzionale. Il che, se rivela ancora una volta le – non meno stravaganti perché orientate a fini “nobili”, quale la valorizzazione della difficoltà economica – prestazioni di cui il flessibile requisito della morale dà prova – tramutabile all’occorrenza anche in requisito soggettivo – dall’altro sembrerebbe una forzatura molto opinabile degli indici testuali, con effetti notevolmente restrittivi dell’ambito di operatività della fattispecie[133].
Non solo. Prendendo a paradigma la sentenza del 2014 richiamata, nell’incedere del ragionamento, la Corte di Cassazione sembra incappare in una confusione ulteriore – senza la quale, peraltro, la formula processuale di epilogo “perché il fatto non costituisce reato” non avrebbe subito modifiche – implicitamente affermando che, con l’esclusione del dolo, viene meno l’antigiuridicità del fatto[134]. In buona sostanza, ai fini di stabilire la rilevanza penale del mancato pagamento, il giudice pare trascorrere, senza soluzione di continuità, dal piano dell’elemento volitivo, quale fattore di esclusione del coefficiente doloso intenzionale[135] – una volta ricondotto il requisito della contrarietà all’ordine e alla morale a semplice indicatore di questo – al piano dell’antigiuridicità, vestendosi, infine, di efficacia scriminante l’assenza di tale elemento richiesto dalla norma.
Quanto alle fattispecie di inadempimento dell’obbligo di cui all’art. 12 sexies, L. del 1970 e di cui all’art. 3, L. del 2006, evidente la stretta accessorietà del diritto penale quale reazione all’inadempimento civilistico, si potrebbe porre l’interrogativo se una impossibilità come quella dalle fattezze sopra tratteggiate, relegata con riguardo al comma 2 a mostrare le sembianze dell’assolutezza, rilevi – e in quali termini – rispetto all’applicazione dell’art. 12 sexies e dell’art. 3 cit.
A porre la questione in termini problematici sta l’indiscutibile rilievo che, se la scelta codicistica dell’art. 570 realizza una selezione delle condotte penalmente rilevanti all’interno degli obblighi di diritto civile – di talché non tutte le violazioni degli obblighi considerati dal diritto civile costituiscono reato –, le fattispecie dell’art. 12 sexies e dell’art. 3 cit., diversamente, sembrano sottoporre a pena l’inadempimento civilistico in quanto tale, caratterizzandosi come fattispecie a carattere sanzionatorio della violazione del provvedimento civile che fissa l’entità dell’obbligazione, nel primo caso, e direttamente dell’obbligo che trova espressione nelle norme sostanziali civili, nel secondo: la formulazione delle stesse, insomma, pare operare una perfetta sovrapposizione fra inadempimento della prestazione economica ed illecito penale[136], a fronte di un precetto che risulta identico a quello civilistico[137].
Si replica, tuttavia, che la risposta non possa che essere condizionata dalla presenza, nella materia penale, di alcuni principi fondamentali[138].
È bene, tenere a mente, si soggiunge, che per quanto una norma penale possa ricalcare quanto previsto sul piano civile, essa non perde la sua natura, illuminata anche dal persistente operare di questi principi, tra cui – rilevanti per la tematica in oggetto – quelli di colpevolezza e di imputazione causale. Da ciò, quantomeno, discende come si debba sempre valutare se all’origine dell’inadempimento – per ricollegarci a quanto sopra chiarito – vi sia un caso fortuito o uno stato di forza maggiore (art. 45 c.p.), determinanti l’impossibilità assoluta.[139]
Rimane, però, aperta la questione circa il rilievo, ai fini di esclusione del reato, dell’impossibilità relativa che esuli dall’ipotesi dello stato di necessità.
A tale riguardo, in chiave critica rispetto alle pericolose soluzioni giurisprudenziali – stigmatizzate come troppo rigoristiche[140] –, che esportano i moduli argomentativi, come sopra analizzati, riferibili all’art. 570, co. 2 (assimilando, così, anche in tale ottica, situazioni del tutto diverse) si avverte la necessità di tenere conto, quanto all’applicazione degli artt. 12 sexies e 3 cit., anche dell’ipotesi dell’impossibilità relativa[141]; un ulteriore argomento a supporto di tale conclusione, alla luce di quanto detto, parrebbe, poi, poter essere proprio la ridetta maggiore affinità contenutistica con l’ipotesi prevista all’art. 570, co. 1, che potrebbe così fungere, ai fini dell’individuazione delle regole probatorie, quale tertium comparationis.
[1] Nel seguito, per semplicità, art. 3 cit.
[2] Nel prosieguo, per brevità, art. 12 sexies.
[3] Come si dirà infra, quella sul divorzio prevede anche una tutela volta a garantire la soddisfazione delle pretese economiche dell’ex coniuge a favore del quale sia stabilito un assegno di mantenimento.
[4] Per il rilievo di condizioni quali un limitato ritardo, un inadempimento solo parziale, magari posto in essere in un arco temporale ristretto, nell’ottica della valutazione in concreto della “gravità” dell’inadempimento, v. infra, nota 77).
[5] Sulla rilevanza di alcuni profili e contingenze fattuali attinenti in senso lato ala capacità economica dell’obbligato in termini di qualificazione giuridica del fatto, alla luce della trama giuridica delle norme considerate si discuterà nel prosieguo (v. par. 12).
[6] Si precisa, invece, come la norma di cui al capoverso n. 1, che fotografa la figura della malversazione o dilapidazione dei beni del figlio minore o del coniuge, non sarà oggetto di indagine nel presente contributo. Non foss’altro perché la analisi della stessa non pare presentare una qualche valenza euristica ai fini della più ampia prospettiva dell’enucleazione dei confini tra le norme, giacché non sembra mostrare margini di sovrapposizione con le fattispecie contemplate nel comma 1 e nel comma 2 n. 2, avendo piuttosto ad oggetto un’ipotesi dai tratti peculiari e ben distinti; fattezze che, per di più – al di là di individuate ipotesi – risultano di ormai rara configurabilità, alla luce dei nuovi principi regolatori del regime patrimoniale dei coniugi, ispirati alla parificazione dei poteri anche nella amministrazione dei beni della famiglia, tali da ridurre i rischi di una cattiva gestione patrimoniale di un coniuge a danno dell’altro o dei figli (cfr. E. Antonini, La violazione degli obblighi, cit., pp. 901 ss., che, nelle situazioni in cui la norma potrebbe venire in rilievo, include le convenzioni matrimoniali e il conferimento della procura ad amministrare). Segnala anche come nel passato tale fattispecie “fosse rimasta sulla carta”, F. Fierro Cenderelli, La violazione degli obblighi di assistenza familiare, Padova 1999, p. 9.
[7] Cass., Sez. un., 26 gennaio 1985, L., in Cass. Pen., 1985, pp. 1342 ss.
[8] F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 175
[9] Cfr. G.D. Pisapia, Delitti, p. 697; P. Siracusano, Violazione degli obblighi di assistenza familiare e giusta causa, in DFP, 1975, pp. 477 e 484. La Corte cost. ebbe peraltro a dichiarare inammissibile la questione: la criticata indeterminatezza della espressione “ordine e morale” fu oggetto di censura di costituzionalità ma il Giudice delle leggi ebbe a dichiararla non fondata, sul rilievo che “non contraddice al principio di legalità della pena il fatto che il legislatore, anziché procedere ad una rigorosa e tassativa descrizione di un fatto-reato, ricorra per la sua individuazione a concetti extragiuridici diffusi e generalmente compresi nella collettività in cui il giudice opera” (Corte cost., 3 marzo 1972, n. 42, in Giur. cost., 1972, I, p. 192); ma v. M. Miedico, voce Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Dig. disc. pen., vol. XV, Torino 1999, p. 198 per riferimenti anche agli sviluppi della giurisprudenza costituzionale che potrebbero «aver aperto la strada ad un possibile ripensamento».
[10] Per una panoramica sulle varie tesi, S. Perini, Violazione dell’obbligo di corresponsione dell’assego divorzile: sentenza innovativa delle sezioni unite sulla pena applicabile, nota a Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 23866, in Fam. e Dir., 2013, 10, pp. 903-904. Secondo una impostazione che trova ampi consensi in dottrina e giurisprudenza, si esclude che il secondo comma contenga delle ipotesi aggravate del primo. Riconosciuto, infatti, che il rapporto di specialità sia la base di partenza per qualificare la fattispecie come circostanza rispetto ad un’altra (in giurisprudenza, cfr. Cass., sez. un., 19 aprile 2007, n. 16568, C., in Cass. pen., 2007, p. 4326, con nota V. Valentini), si deve ritenere che il primo ed il secondo comma siano fattispecie solo apparentemente in rapporto di specialità (cfr. anche F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 9). Gli elementi di eterogeneità consentono di concludere nel senso dell’autonomia dei titoli di reato (F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, C. F. Grosso (a cura di), Milano, 2008, p. 520; A. Spena, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Trattato di diritto penale, Parte speciale, XIII, diretto da C. F. Grosso, T. Padovani, A. Pagliaro, Milano, 2012, p. 200; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, Parte speciale, II-1, Bologna 2013, p. 364; T. Delogu, art. 570, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Comm. al dir. it. della fam., G. Cian, G. Oppo, A. Trabucchi (a cura di), VII, Diritto penale, Padova, 1995, p. 381; P. Zagnoni Bonilini, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Trattato di diritto penale, Parte speciale, VI, diretto da A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Torino, 2009, p. 506. In giurisprudenza, per tale ultimo orientamento, che risulta oggi prevalente, cfr. ad es. Cass., Sez. pen., VI, 13 marzo 2012, n. 12307, in Foro it., 2012, 12, II, p. 711; Cass. Sez. pen., VI, 20 ottobre 2011, n. 3881, in www.iusexplorer.it; Cass. sez. pen., VI, 17 gennaio 2011, n. 3016, in www.iusexplorer.it.) perché diversi sono i soggetti e passivi e differenti gli altri elementi del fatto (sul punto, v. anche F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 9). Per la tesi dell’unitarietà, cfr. però, ad es., a. Vallini, La violazione dei c.d. “obblighi di assistenza materiale” e l’errore inerente a fattispecie connotate da disvalore etico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 940, in www.iusexplorer.it.). Si segnala come l’opinione dottrinale e giurisprudenziale oggi prevalente escluda che la disposizione di cui all’art. 570 rientri nella categoria delle norme a più fattispecie (la tesi dell’unitarietà del reato è rimasta isolata in giurisprudenza: nella giurisprudenza più risalente, Cass., Sez. pen., VI, 19 maggio 1995, n. 10704 con nota di A. Grilli; F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 9), configurandola come norme penale mista cumulativa (disposizione a più norme), che cioè contempla tre diversi titoli di reato, con l’importante conseguenza del concorso tra tali reati (v. M. Miedico, voce Violazione, cit., p. 201). Quali indici più significativi, sarebbero infatti diverse le pene comminate e l’oggettività giuridica. Il comma primo sarebbe a sua volta una norma penale mista ma nella forma di norma a più fattispecie (norma mista alternativa). Per essenziali riferimenti su questi orientamenti, cfr. commento sub art. 570 c.p., in banca dati Leggi d’Italia, pp. 10 ss.; v., di recente, P. Zagnoni Bonilini, Violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570), in Trattato di diritto penale (dir. da A. Cadoppi-S. Canestrari-A. Manna-M. Papa), Parte speciale, VI., I delitti contro la moralità pubblica, di prostituzione, contro il sentimento per gli animali e contro la famiglia, Torino, 2009, pp. 507-509.; v., per la tematica generale delle norme penali miste, nell’ambito della problematica del concorso apparente di norme e del concorso di reati, R. Garofoli, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, IX ed., Roma, 2013, p. 1196 e F Mantovani, Diritto penale, VII ed., Padova, 2011, p. 470; spunti utili in A. Vallini, La violazione, cit., p. 935 e G. D. Pisapia, Delitti, cit., 1953, p. 715.
[11] Nonché di politica del diritto (v. infra, nota 54).
[12] Come si vedrà nel prosieguo (v. infra, parr. 4 e 5).
[13] Non anche, secondo parte della dottrina (A. Malinverni, l’obbligo della assistenza nel diritto penale e nel diritto civile, in Riv. it. dir. pen., 1940, passim; F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 137; A. Vallini, La violazione, cit., passim; G. A. De Francesco, Il problema della violazione degli obblighi di assistenza economica nei confronti del coniuge al quale sia stata addebitata la separazione personale, in Dir. fam., 1979, p. 399), il comma 2, che configurerebbe un obbligo non identificabile con l’oggetto dell’obbligazione alimentare – che sorge solo a seguito di pronuncia del giudice civile – con la quale è accomunato soltanto dalla identità dei presupposti dello stato di bisogno e della capacità dell’obbligato – espressi in quello civile e ricavabili in via implicita in ambito penalistico – stante la differente nozione di “mezzi di sussistenza” rispetto a quella di alimenti (cfr. f. fierro cenderelli e G. Abbadessa, sub art. 570 c.p., in Codice penale commentato, a cura di E. Dolcini e G. Marinucci, II, Milano, 2011, p. 5107: la prima, che è un minus, è limitata a mezzi economici minimi indispensabili per vivere, come il vitto, l’abitazione, i medicinali ecc., mentre la seconda ricomprende ciò che occorre per la soddisfazione dei bisogni della vita, in rapporto alla condizione economica e sociale del beneficiario), sembrando delinearsi, così, sulla base di un ragionamento logico, a fortiori, due cerchi concentrici (in cui quello degli alimenti è meno ampio di quello che si può riferire all’obbligo di prestare i mezzi di sussistenza, perché l’obbligazione alimentare, per garantire i bisogni della vita, parametrati alla condizione del beneficiario, dovrebbe soddisfare anche, necessariamente, ciò che è indispensabile per vivere). Tuttavia, tale affermazione – pur impeccabile su un piano logico – deve tener conto che, posto che l’obbligazione alimentare sorge da un provvedimento del giudice civile (v. F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 159), potrebbe ipotizzarsi anche una situazione nella quale non possa escludersi la responsabilità penale, pur in presenza dell’adempimento all’obbligo civilistico alimentare, ove l’importo stabilito dal giudice civile sia successivamente divenuto insufficiente rispetto alla soddisfazione dei bisogni fondamentali, per l’emergere di necessità basilari anche di natura straordinaria (quali le cure per una malattia e così via); del resto, anche a prescindere da una situazione sopravvenuta, si deve tener conto che il dovere di non far mancare i mezzi di sussistenza, essendo autonomo rispetto a quello civile, dipende dal ricorrere di un effettivo stato di bisogno dell’avente diritto – così come dalla sussistenza della capacità economica dell’obbligato, su cui v. infra, par. 12 – da accertarsi in concreto, di talché il provvedimento civile che dichiara an e quantum dell’obbligo alimentare può costituire solo un punto di partenza per la verifica del requisito dello stato di bisogno del beneficiario (sul punto, v. anche E. Antonini, La violazione degli obblighi di assistenza familiare nei mutati scenari della famiglia, in Dir. Pen. e Proc., 2009, 7, pp. 906-907; cfr., in generale, il commento sub art. 570 c.p., in banca dati Leggi d’italia, p. 27). Minus che rimarrebbe tale anche seguendo quella corrente giurisprudenziale (v, ad esempio, Cass., Sez. pen., VI, 13 novembre 2008, n. 2736 in CED Cass., rv. 242853; nonché Corte di appello di Perugia n. 471 del 2011, commentata da S. Sartarelli, La nozione di “mezzi di sussistenza”: alcune precisazioni, in Corti Umbre, 2013) che estende la nozione di mezzi sussistenza agli strumenti che consentano un, sia pur contenuto, soddisfacimento di altre complementari esigenze della vita quotidiana, come abbigliamento, libri, istruzione per i figli minori, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione, con il rischio, però, di sottrarre le situazioni evocate dalla sfera della – meno grave – fattispecie dell’art. 570, primo comma, in cui rientrerebbero, quali forme di sottrazione ad obblighi di assistenza di tipo materiale (v. infra, par 4): subentra un modus operandi interpretativo di indebita svalutazione dell’utilità ermeneutica del confronto tra elementi testuali della disposizione – in questo caso, tra elementi del primo e elementi del secondo comma – molto simile a quello che si articola sulla sovrapposizione tra elementi all’interno del primo comma (di cui si dirà infra, par. 4). Una lettura critica di tale approccio “evolutivo” in A. di Martino, Diritto penale e “crediti da crisi familiare”. Accessorietà della tutela fra assetti consolidati e recenti modifiche normative, in Studi in onore di Franco Coppi, Torino, Torino, 2011, p. 864, cui si rinvia anche per i riferimenti bibliografici. Gli alimenti, a loro volta, non coincidono con l’assegno di mantenimento, ma in tale caso la logica dell’a minore ad maius è smentita dall’art. 156 c.c., che, al comma 3, contiene l’espressa previsione che “resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti di cui all’art. 433 c.c. e ss.”, confermando la non comparabilità tra la nozione di alimenti e quella di mantenimento. Va da sé, quindi, come l’ammontare accertato del giudice civile in ordine agli alimenti possa discostarsi dal quantum richiesto perché si reputino assicurati i mezzi di sussistenza in sede penale (sul punto, v. S. Sartarelli, La nozione, cit., p. 21; M. Miedico, voce Violazione, cit, p. 200; E. Antonini, La violazione degli obblighi cit., pp. 906-907). Non del tutto coerente con tale affermazione di principio – che attribuisce all’obbligo penale di cui al comma 2 un carattere di autonomia e diversità rispetto a quello civile – si mostra però la giurisprudenza, nella misura in cui l’errore ricadente sull’obbligo di prestare i mezzi di sussistenza viene considerato errore sulla legge extrapenale (procedere argomentativo criticato da A. Vallini, La violazione, cit., passim e da A. Malinverni, l’obbligo della assistenza nel diritto penale e nel diritto civile, in Riv. it. dir. pen., 1940, p. 556).
[14] G. D. Pisapia, G. Pisapia, voce Famiglia (delitti contro la), in Dig. disc. pen, V, Torino, 1991, p. 118 ragiona di “carattere eventualmente ed ulteriormente sanzionatorio, qualora i rapporti penalmente tutelati trovino la loro regolamentazione originaria in altri rami del diritto”. Il carattere autonomo del precetto penale, in materie “coperte” da altri rami del diritto – nel nostro caso, dal diritto di famiglia – , è messa in luce già dallo stesso F. Grispigni, Il carattere sanzionatorio del diritto criminale, Milano, 1920, p. 5, che, distanziandosi nettamente dal K. Binding, Die Normen und ihre Übertretung, I, I ed., 1982, pur nell’ambito di una concezione sanzionatoria del diritto penale, non disconosce comunque tale profilo. Per completezza, per un’autorevole critica alla concezione ulteriormente sanzionatoria del diritto penale, si segnala G. Delitala, Contributo alla nozione di reato. Il reato come offesa ad un bene od interesse obbiettivamente protetto, Roma, 1926, passim; Id., Diritto penale, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, pp. 1095 ss.).
[15] Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 23866.
[16] La poco felice formulazione della norma si è mantenuta intatta anche dopo la riforma del diritto di famiglia, perciò acquisendo anche una “patina di vetustà”, ormai stesa sui lessemi «ordine» e «morale delle famiglie», sul concetto di separazione «legale» e «per colpa», sull’istituto della «tutela legale»” (così A. di Martino, Diritto penale, cit., p. 812).
[17] Per la giurisprudenza più risalente, si veda, ad es., Cass., Sez. pen., VI, 19 maggio 1995, n. 10704 con nota di A. Grilli: nelle parole della sentenza: “l’art. 570 prevede, infatti, due diverse ipotesi, la prima relativa alla violazione degli obblighi di assistenza morale (1° comma), la seconda alla mancata assistenza materiale (2° comma)”. Tale tesi è rimasta dominante, in via tralatizia, fino a tempi piuttosto recenti, come stigmatizza Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 23866, trattando del problema del rinvio contenuto nell’art. 12 sexies (su cui infra, par. 7); v. le sentenze richiamate dal Supremo Consesso riunito a Sezioni Unite nel 2013: Cass., Sez. pen., VI, 26 giugno 2009, n. 28557, Rv. 244805 (in tema di rinvio); Cass., Sez. pen., VI, 7 dicembre 2006, n. 18450, Rv. 236415 (“Ed invero, essendosi in presenza di violazione di carattere economico e non di carattere morale, il richiamo alla norma codicistica non può che essere riferito al secondo comma della stessa, che disciplina appunto gli obblighi di assistenza materiale connessi al rapporto di coniugio o di parentela, con l’effetto che il trattamento sanzionatorio da applicarsi è quello della pena detentiva e pecuniaria congiuntamente”); VI, 24 novembre 1999, n. 338, Rv. 216830 (“il rinvio “de quo” deve intendersi alle pene previste nel secondo comma dell’art. 570 c.p., “trattandosi di violazione di obbligo di natura economica e non di assistenza morale”); Cass., Sez. pen., VI, 31 ottobre 1996, n. 1071, Rv. 206782 (“Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, il rinvio dell’art. 12 sexies citato alle pene previste dall’art. 570 c.p. deve intendersi fatto a quelle comminate dal secondo comma, trattandosi di violazione di obbligo di natura economica e non di assistenza morale”); v. anche Cass., Sez. pen.,VI, 24 ottobre 2013, n. 51488, commentata da E. Mengoni, Art. 570 c.p. e inadempimento agli obblighi di assistenza: il reato si configura solo nei casi più gravi, in Cass. pen., fasc.5, 2014, p. 1568, in cui la Corte di Cassazione sostiene che il reato di cui all’art. 570, co. 1, c.p. non si ravvisa a fronte di un qualsiasi inadempimento, anche dei più modesti, ma soltanto in presenza di condotte che costituiscano “sostanziale dismissione delle funzioni connesse al ruolo genitoriale” (evidente l’approccio moraleggiante). Da tali sentenze si evince una condivisione del tutto acritica dell’esito della giurisprudenza risalente agli anni ’60, ossia ad un periodo ben precedente la riforma del diritto di famiglia, approvata con L. 19 maggio 1975, n. 151, senza ragionare sulla premessa da cui muove – ovvero il carattere morale degli obblighi oggetto delle violazioni incriminate dal primo comma – e, quindi, senza condividerne il retroterra, ormai anacronistico, e senza indagare sulle ragioni di fondo che muovevano detta giurisprudenza, che sono quelle che si vedranno nel prosieguo). Si rinvia, per quanto riguarda, invece, la diversa posizione dottrinale, al quadro di sintesi contenuto in Commento sub art. 570 c.p., in Banca dati Leggi d’Italia, p. 6; adesivo all’orientamento giurisprudenziale, peraltro, per tutti, G. Leone, La violazione degli obblighi di assistenza familiare nel nuovo codice penale, Napoli, 1931, p. 31.
[18] G. D. Pisapia, Delitti, cit., 1953, p. 674, che critica tale concezione in maniera accesa; opinione critica condivisa da: F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 45; A. Vallini, La violazione, cit., p. 935 ss.; M. T. Cusumano, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Trattato di diritto di famiglia, in P. Zatti (a cura di), Milano, 2002, p. 462 ss. Negli stessi termini, A. Vallini, La violazione, cit., p. 939; F. Fierro Cenderelli, Profili penali del nuovo regime dei rapporti familiari, Milano, 1984, p. 122 contra, G. Leone, La violazione degli obblighi, cit., p. 30.
[19] Cfr. P. Siracusano, Violazione degli obblighi, cit., p. 478; G. D. Pisapia, Delitti, cit., 1953, p. 217; ragiona sul bene tutelato e distingue tra oggettività giuridica (oggetto del reato;) e oggetto della tutela penale (finalità incriminatrice; scopo) F Mantovani, Diritto penale, VII ed., Padova, 2011, pp196 e 197; per un’utile ricognizione storica effettuata dall’A. v. pp. 27, 28 e 29; per la differenza tra “motivi” e “bene giuridico, cfr. anche F. Grispigni, Il carattere sanzionatorio, cit., p. 13; ancora, F Mantovani, Diritto penale, VII ed., Padova, 2011, pp. 198 e 205; su tale confusione, operata dalla giurisprudenza in rapporto ai reati familiari in genere, v. G. D. Pisapia, G. Pisapia, voce Famiglia, cit., nota 17 e p. 117
[20] L’originaria scelta politico-criminale che sottende l’intervento penale in materia di assistenza familiare si allineava all’orientamento ideologico dell’epoca, elevando l’organismo familiare al “ruolo pubblicistico di «istituto etico giuridico» cui lo Stato rivolge il massimo interesse” (così D. Falcinelli, Famiglia, cit, p. 288). V. anche nota 1 di G. D. Pisapia, Delitti, cit., 1953, p. 217; Tale A. limpidamente avverte come la tutela della famiglia debba considerarsi soltanto la finalità incriminatrice, non l’autentico oggetto giuridico del reato familiare. V. anche il Commento sub art. 570 c.p., in Banca dati Leggi d’Italia, p. 5.
[21] Così, G. D. Pisapia, Delitti, cit., 1953, p. 218.
[22] F Mantovani, Diritto penale, VII ed., Padova, 2011, p. 198.
[23] Di terminologia fa ricorrente uso nello specifico tema dei reati familiari G. D. Pisapia, Delitti, cit., 1953, p. 218.
[24] G. Leone, La violazione degli obblighi, cit., p. 103; Commento sub art. 570 c.p., in Banca dati Leggi d’Italia, p. 3; D. Falcinelli, Famiglia (tutela penale della), in Dig. disc. pen., Aggiornamento (*****), Torino, 2010, p. 290. In banca-dati Leggi d’Italia; G. D. Pisapia, Delitti, cit., 1953, p. 676; la tutela primaria dell’”ordine familiare”, quale formula di sintesi, è rimasta così radicata nel contesto giurisprudenziale, pur depotenziata la sua ascendenza ideologica, da essere evocata anche in tempi recenti e stigmatizzata dalle stesse Sezioni Unite (cfr. Cass., Sez. un., 20 dicembre 2007, n. 8413, rv. 238468, con nota di S. Beltrani, Omessa prestazione dei mezzi di sussistenza in danno di più familiari conviventi: non unità, ma pluralità di reati, in Cass. pen., fasc.7-8, 2008, p. 2756, in www.iusexplorer.it); ancora di recente si leggono proposizioni del tipo: “la norma penale […] non considerando singolarmente le posizioni degli individui, difende il complesso di obblighi che fa capo alla famiglia come entità distinta dai suoi componenti” (così Cass., Sez. pen., VI, 14 gennaio 2004 n. 1251). Ad evidenziare anche come non si tratti di un problema meramente teorico, ma da cui discendono importanti conseguenze applicative (v. D. Brunelli, Il diritto penale, cit., p. 36), mette conto rilevare come il dibattito in ordine alla configurabilità di un concorso di reati nel caso di omessa prestazione dei mezzi di sussistenza a più aventi diritto (es., più figli minori; figli e coniuge) ruotava intorno alla disputa circa l’individuazione del bene giuridico tutelato dal comma 2 e la tesi giurisprudenziale maggioritaria propendeva, appunto, per la tesi della tutela dell’« ordine familiare», con la conseguenza di ritenere che la condotta di colui che fa mancare i mezzi di sussistenza ai soggetti passivi identificati al n. 2 del comma 2 dell’art. 570 c.p. integrerebbe un solo reato, a nulla rilevando che la sua condotta omissiva, offensiva della famiglia come bene giuridico autonomamente tutelato, riguardi – solo di fatto – una pluralità di componenti del nucleo familiare (cfr. Cass., Sez. pen., VI, 20 gennaio 2004 n. 1251, in Riv. pen. 2004, p. 981; in tal senso anche Cass., Sez. pen., VI, 10 novembre 2003, n. 42767; Cass., Sez. pen., VI, 15 dicembre 1998, n. 3125; Cass., Sez. pen., VI, 13 febbraio 1973, n. 1221); A ben vedere, peraltro, le Sezioni Unite, intervenute nel 2007 a dirimere la questione (Cass., Sez. un., 20 dicembre 2007, n. 8413, cit., sulla quale, per gli spunti che possono trarsi in tema di permanenza e continuazione, v. infra, in nota 121 e par. 11), non sembrano reputare risolutivo l’argomento dell’individuazione del bene; infatti, pur riconoscendo la non configurabilità di una pluralità di reati con riguardo al comma 1, non sembrano disconoscere la tesi del bene di taglio individualistico, incardinando la soluzione, più che sulla determinazione del bene tutelato, sulle sue possibili modalità di tutela, così da pervenire a soluzioni diverse in relazione al primo e al secondo comma della disposizione (v. infra).
[25] Così M. Miedico, voce Violazione, cit., pp. 192 e 194.
[26] G. D. Pisapia, Delitti, cit., p. 219.
[27] Il lessema è riportato da F. Mantovani, Diritto penale, VII ed., Padova, 2011, p. 195, oltre che da G. D. Pisapia, Delitti, cit, passim.
[28] G. D. Pisapia, Delitti, cit, passim.
[29] G. D. Pisapia, Delitti, cit , p. 218; sul“circolo ermeneutico”, per tutti, F. Mantovani, Diritto penale, cit., pp. 205-206, che nega si tratti di un “circolo vizioso”, trattandosi di una situazione connaturata al comune metodo esegetico-sperimentale, di “un continuo trascorrere dalla formula legislativa all’oggetto”; D. Brunelli, Il diritto penale delle fattispecie criminose, II ed., Torino, 2013, p. 32 (che riporta le critiche di parte della dottrina che stigmatizzano una sorta di “circolo vizioso”).
[30] Lamentano l’eccessivo margine di discrezionalità non poche voci dottrinali (per la dottrina, si rinvia al commento sub art. 570 c.p., in Banca dati Leggi d’italia, p. 9). Relativamente a tale aspetto, peraltro, le questioni di illegittimità costituzionale per violazione, tra gli altri, dell’art. 25 Cost. sono state dichiarate non fondate dalla Corte costituzionale (Corte Cost. 3 marzo 1972, n. 42), nella cui sentenza, accolta negativamente da non pochi autori, si è sostenuto che il principio di legalità risulta non violato, “tutte le volte in cui il legislatore, per l’individuazione di un fatto di reato, anziché ricorrere ad una rigorosa e tassativa descrizione, si riferisca invece a concetti extragiuridici diffusi e generalmente compresi nella collettività in cui il giudice opera”.
[31] Venivano, infatti, ricondotte al primo comma indistintamente tutte le condotte che minavano il vincolo matrimoniale, come il semplice allontanamento dal domicilio domestico (anche senza una effettiva violazione degli obblighi di assistenza); cfr. M. Miedico, voce Violazione, cit., passim.
[32] Osservazioni assimilabili quelle che rendono ragione della preclusione all’applicabilità della tutela del primo comma rispetto alla violazione dell’obbligo di assistenza economica in favore del ex coniuge, prima di ogni considerazione –questa sì validamente formulabile – in ordine al difetto dello status di coniuge richiesto dalla norma.
[33] F. Fierro Cenderelli, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, p. 771 G. D. Pisapia, Reati contro la famiglia, Milano, 1947, p. 75.
[34] Rifuggendo sia da un’impostazione pancivilistica che panpenalistica – vale a dire, autonomistica – si avverte che “la definizione dei termini di origine privatistica costituisce un problema da risolversi in rapporto alle specifiche esigenze di tutela delle singole norme penali, considerate nel più ampio quadro della funzione del diritto penale e dell’ordinamento costituzionale” (così, F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, II. Delitti contro il patrimonio, Padova, 2002, pp. 15 ss.; inoltre Id., Diritto penale – Parte generale, Padova, 2011, pp. 48 ss.).
[35] Si consideri, al riguardo, l’inciso della disposizione: “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”(NdR: sottolineatura aggiunta). L’importanza della “correzione” del significato letterale è rimarcata anche da D. Brunelli, Il diritto penale, cit., p. 15
[36] Dottrina e giurisprudenza civilistica sono convergenti nel ricavare dall’art. 143 c.c. (come sostituito dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 24, che, sotto la rubrica “Diritti e doveri reciproci dei coniugi”, specifica al comma 3 che “dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale”) una nozione ampia di assistenza, coincidente con la cura e l’aiuto reciproco in ogni circostanza.
[37] Cfr. 143 c.c.
[38] Tra l’altro, come si anticipava, così privando le note modali della fattispecie della portata limitativa loro propria e finendo per estendere a dismisura, sul versante morale, la gamma di condotte riconducibili alla locuzione legislativa. Sull’importanza, in linea generale, del senso delle parole anche alla luce delle altre, v. D. Brunelli, Il diritto penale, cit., 2013, cap. I.
[39] Senza poterci dilungare sul punto, si rinvia, per le varie ricostruzioni, a G. Fiandaca, E. Musco, Diritto Penale, Parte Speciale, cit., p. 357; v., inoltre, la tesi di A. Vallini, La violazione, cit., pp. 935 ss.; spunti interessanti sull’importanza del momento della sottrazione agli obblighi sono forniti anche da G. Leone, La violazione degli obblighi, cit., p. 103, secondo l’inquadramento nel “delitto di omissione per commissione”. Parla di un vero e proprio evento costitutivo del reato, L. Bertolé Viale, L’abbandono del domicilio domestico e la “giusta causa nel reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare , in RDMP, p. 225. La ricostruzione proposta, che configura la fattispecie come assimilabile ad un reato di evento a forma vincolata, sembra preferibile rispetto ad altre, in quanto fa risaltare la portata autonoma del requisito della sottrazione agli obblighi di assistenza, senza degradare i primi due contegni, previsti in via alternativa, a rango di mero presupposto e senza ricorrere a categorizzazioni non riconosciute da tutta la dottrina (la notazione si riferisce, ad esempio, al “reato commissivo mediante omissione”, cui si richiama G. Leone, La violazione, cit., p. 103; formula, questa, peraltro dal contenuto non univoco presso i vari autori).
[40] D. Brunelli, Il diritto penale, cit., 2013, p. 45, esemplificando, menziona proprio il verbo “sottrarre”. Cfr. anche Id, ivi, cit., p. 48, che riconduce tali modelli criminosi, in cui la descrizione di una o più condotte modali viene accompagnata da quella di una condotta però tesa ad esaltare la dimensione del risultato, al novero dei reati di evento a forma vincolata.
[41] Per questa denominazione, cfr D. Brunelli, Il diritto penale, cit., 2013, pp. 42 ss.; con la precisazione che qui il risultato sarebbe “sganciabile” rispetto alla condotta strumentale (“condotta-modo”), giacché, nel nostro caso, come si è detto, come in tutti i casi di reato di evento a forma vincolata, si deve ammettere “la separabilità della conseguenza giuridica tra la condotta modale e la sua conseguenza” (così, Id, ivi, cit., p. 135); quindi la sottrazione non è una manifestazione necessaria delle condotte di abbandono o di violazione dell’ordine e della morale, avendo la prima ad oggetto, come si è detto, degli obblighi economici, mentre la seconda degli obblighi morali.
Non si tratta di un mero pruritus coniectandi. Senza poterci dilungare sul punto, da tale qualificazione discenderebbe, infatti, nella specie, che una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie la quale non cagioni una sottrazione agli obblighi di assistenza sarebbe considerabile alla stregua di un tentativo compiuto (si segnerebbe in tale ipotesi il momento oltre il quale non è più configurabile la desistenza volontaria). Se, invece, venisse “eliso” il requisito della sottrazione, come la giurisprudenza sembra surrettiziamente fare, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria consumazione, residuando la possibilità di una manifestazione tentata solo nella forma del tentativo incompiuto, laddove la condotta contraria all’ordine o alla morale non venisse portata a termine.
Si noti, inoltre, come, anche nella diversa ipotesi di cui al comma 2, n. 2 dell’art. 570, il modo d’essere della tipizzazione normativa della condotta esalti la dimensione del risultato, che si appunta sul fatto che al soggetto passivo mancano i mezzi di sussistenza, comunque privati (“fa mancare i mezzi di sussistenza” è equivalente a “causa la mancanza”), perché si punisce il soggetto in funzione dell’effetto – la mancanza dei mezzi di sussistenza – della condotta; quindi vale lo stesso discorso che si è fatto a proposito della sottrazione dagli obblighi di assistenza, sotto questo profilo. È bene, però, sottolineare come nel comma 2 cit. sia tipizzata unicamente una condotta – risultato (fa mancare i mezzi di sussistenza), non anche le note modali che devono accompagnarla.
Va puntualizzato che non parrebbe cogliere nel segno l’obiezione che detta impostazione cozzi con l’interpretazione giurisprudenziale prevalente: l’ipotesi è quella di una condotta posta in essere per far mancare i mezzi di sussistenza, la quale sembri apparentemente non raggiungere tale risultato, stante il contributo economico prestato da altri familiari. Ebbene, sembrerebbe inequivocabilmente trattarsi di tentativo, stando alla tesi esposta; la giurisprudenza (orientamento consolidato già presso la giurisprudenza meno recente: laddove adempia l’altro coniuge, v. Cass, Sez. pen., VI, 10 dicembre 1991, in Giur. It., 1992, II, p. 685; Cass, Sez. pen., VI, 18 ottobre 1989, in Cass. Pen., 1991, p. 668; Cass, Sez. pen., VI, 27 settembre 1988, in Cass. Pen. 1989, p. 1764; a fortiori, quando ai bisogni dei figli minori abbiano provveduto soggetti terzi, Cass, Sez. pen., VI , 15 dicembre 1982, in Riv. Pen., 1983, p. 771), invece, la risolve nel senso della consumazione: parrebbe quindi trattarla come un reato di mera condotta in cui il legislatore si interessi del contegno, in cui rilevi la considerazione del dinamismo delle note modali. Questa sarebbe, tuttavia, una conclusione affrettata, sol che si consideri che, in realtà, per dissolvere la apparente contraddizione, è sufficiente considerare che la giurisprudenza muove dall’ammissibilità di un concetto di privazione di mezzi di sussistenza che comprenderebbe anche quella condizione che involge un pericolo di tipo sociale, non solo materiale (per quanto una nozione così lata sembri più che opinabile), dal momento che l’avente diritto rappresenta un soggetto debole all’interno di un rapporto familiare che finirebbe con l’essere disgregato dal comportamento inadempiente, pur se – materialmente – altri (diversi dal familiare obbligato) provvedano al mantenimento. Il risultato di privazione dei mezzi di sussistenza, dunque, si considera raggiunto e, quindi, il reato non tentato, ma consumato. Tale aspetto è anche spia, del resto, del connotato non solo patrimoniale che sta alla base del comma 2 cit (v. infra), oltre che essere coerente con il carattere di reato proprio della fattispecie. Spiega con l’adesione ad un concetto ampio di mezzi di sussistenza la soluzione giurisprudenziale in base alla quale il reato in tali casi sussiste (pur senza correlarla alla dimensione strutturale della fattispecie, qui analizzata) A. di Martino, Diritto penale, cit, p. 886.
[42] L’idea della “sottrazione” come evento era infatti dettata dall’esigenza di ritenere non punibili di per sé il mero allontanamento dalla residenza familiare o la mera condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, qualora non avesse “cagionato” una sottrazione ai doveri familiari.
[43] Discorre di “reato misto d’azione ed omissione”, A. Cadoppi, La nuova configurazione dell’art. 5 c.p. ed i reati omissivi propri, in A. Stile (cur.), Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, Napoli, 1989, pp. 246 ss.; ancora, A. Vallini, La violazione, cit., p. 935 ss., che a nota 13 riprende la denominazione utilizzata da A. Cadoppi, La nuova configurazione cit., p. 246 ss.; con variante terminologica, di reato “a condotta plurima”, M. Ronco, Il principio di tipicità della fattispecie penale nell’ordinamento vigente, Torino, 1979, pp. 195 ss..
[44] In questi esatti termini, descrive tale modulo D. Brunelli, Il diritto penale, cit., p. 43.
[45] Così, A. Vallini, La violazione, cit., p. 937.
[46] G. Fiandaca, E. Musco, Diritto Penale, Parte Generale, VI ed., Bologna, 2014, pp. 82 ss; G. Ruggiero, Gli elementi normativi della fattispecie penale, Napoli, 1965.
[47] In tema di elementi normativi, per tutti, L. Risicato, Gli elementi normativi della fattispecie penale. Profili generali e problemi applicativi, Milano 2004, passim.
[48] Per tale restrizione di significato, v. F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 56.
[49] Del resto la concretezza e la specificità sono indispensabili per lo stessa operatività del precetto penale (“concretezza precettistica”): così G. D. Pisapia, Delitti, cit., pp. 675 e 678; cfr. F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 5.
[50] G. Saltelli, L’art. 570 del codice penale e il preteso obbligo penale della prestazione sessuale tra coniugi, Ann. dir. proc. pen, 1938, p. 537, che evidenzia come in tal modo si privi di rilevanza, ad esempio, il rifiuto di adempiere al c.d. debitum coniugalis; o anche l’educazione ai figli sulla base di determinati principi, che oltre che non poter essere posti dall’esterno, ancor prima non sono oggetto di un obbligo giuridico (cfr. F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 63; Id., Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993; G. D. Pisapia, Reati contro la famiglia, Milano, 1947, p. 75).
[51] L’ordine oggi ha perso la caratteristica di requisito di disciplina imposto dall’esterno (affiancato alla “morale” che corrisponderebbe al costume: così, G. Leone, La violazione, cit., p. 56), come era invece alle origini, trasformandosi in valore che esprime l’unità sostanziale della famiglia (cfr. F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 56).
[52] Che si distinguono da quelli descrittivi, i quali traggono il loro significato direttamente dalla realtà sensibile.
[53] Sulla sovrapponibilità (esclusa, parziale o totale, a seconda dei vari autori) con la tematica delle clausole generali, v., da ultimo, D. Castronuovo, Clausole generali e diritto penale, in Diritto Penale Contemporaneo, in www.penalecontemporaneo.it, anche per i necessari riferimenti bibliografici. Per la accostabilità delle problematiche – tra cui quelle apprezzabili sul piano della determinatezza, rilevanti nella specie – che gli elementi normativi presentano, nel loro aprirsi ad una integrazione dinamica, a quelle che l’impiego delle c.d. clausole generali, intese in senso ampio, fa sorgere v. D. Castronuovo, Clausole generali, cit., passim, che menziona, a titolo esemplificativo, proprio la morale, quale “frammento di disposizione”, tra le clausole generali. L’autore accenna anche al piano delle funzioni preventive assegnate alla pena, in relazione alle “difficoltà “comunicative” che elementi di indeterminatezza normativa possono immettere nel circuito della deterrenza o della risocializzazione”, riflesso anch’esso del deficit di concretezza precettistica.
[54] In questa prospettiva, la tematica interseca, come è evidente, non solo questioni di tecnica legislativa ma anche di politica del diritto; infatti, la formulazione elastica, se non si spinge fino a travolgere il principio di determinatezza, può reputarsi a volte opportuna, rendendo possibile l’adattamento al mutato quadro sociale e normativo (sottolinea tale aspetto, in tema di rapporti familiari, E. Antonini, La violazione degli obblighi cit., passim; sul punto, in generale, v. D. Castronuovo, Clausole generali, cit., p. 5, anche per gli utili riferimenti bibliografici). Sulla morale quale nozione valutativa e flessibile, v. F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 55.
[55] D’altra parte, a differenza che nei tempi del fascismo, lo Stato oggi non può imporre un’unica morale nel nostro Ordinamento costituzionale (cfr. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 217).
[56] In questi termini, G. Fiandaca, E. Musco, Diritto Penale, cit., p. 84; anche laddove la determinatezza sia considerata solo come un “telos” da perseguire (cfr. D. Castronuovo, Clausole generali, cit., p. 11).
[57] Così F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 56; ID., Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Enc. Dir, XLVI, Milano, 1993, p. 772 (“violazione del vincolo di coesione sostanziale”). Per un rilievo della morale, rispetto all’art. 570, co. 2, anche nella giurisprudenza recente, sotto il profilo della inevitabilità dell’ignoranza del precetto (riconosciuta dalla giurisprudenza “derivando gli obblighi di assistenza familiare da principi essenziali di solidarietà, ben radicati nella collettività”: cfr. Cass., Sez. pen., VI, 15 giugno 2011, n. 35520; Cass., Sez. pen., VI, 1 ottobre 2007, n. 37978; nonché Cass., Sez. pen., VI, 7 luglio 2016, n. 34675, che si esprime in termini di “dovere morale universalmente riconosciuto”. Sul punto, v. anche nota 63 infra.
[58] Tutelandosi, quindi, il singolo componente, considerato nella sua individualità, anche se sul presupposto dello status familiae (in questo senso, v. G. D. Pisapia, G. Pisapia, voce Famiglia, cit., p. 118). Cfr., en passant, anche A. Vallini, La violazione, cit., passim. Rapporti che possono essere offesi solo in virtù di relazioni qualificate, nella classica logica del reato proprio, che qui troverebbe espressione (cfr., sul punto, D. Falcinelli, Famiglia, cit, p. 292; v. anche G. D. Pisapia, Delitti, cit., 1953, p. 679; G. D. Pisapia, G. Pisapia, cit., p. 118 e passim); valorizzano tale aspetto, trattando, incidentalmente, anche della riconduzione della tutela del coniuge separato nell’ambito del comma 1, le Sezioni Unite nel 2013, con nota di M. N. Masullo, Oltre il rinvio quoad poenam: un’interpretazione che ricompone le disarmonie di tutela tra coniuge separato e coniuge divorziato?, nota a Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 23866, in Dir. Pen. e Proc., 2013, 12, pp. 1456 ss.
[59] Non è un caso che in materia penale la L. 24-11-1981, n. 689 disponga la sostituzione della locuzione “potestà dei genitori” a quella della “patria potestà” (cfr. artt. 564, 569, 573 e 574) c.p. (v. D. Falcinelli, Famiglia, cit, p. 289), dopoché con l’art. 138 della l. 151/1975 la patria potestà si eliminava dall’ordinamento.
[60] V. F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., p. 18. Alla costruzione del modello concepito nel 1948, in cui alla posizione di ciascun coniuge si correlano i medesimi diritti e i medesimi doveri, si procede gradualmente, anche mediante importanti interventi della Corte cost., seguiti da innovazioni legislative, quali la legge introduttiva dell’istituto del divorzio nel 1970 e la riforma del diritto di famiglia del 1975, rispecchiate, nitidamente, sul lato penale dalla L. 24-11-1981, n. 689, che imposta la procedibilità a querela per alcune ipotesi del delitto di violazione degli obblighi di assistenza famigliare (D. Falcinelli, Famiglia, cit, p. 289; analoghe considerazioni in M. Miedico, voce Violazione, cit., pp. 191 ss.). Cfr. anche, per la valorizzazione dell’introduzione della procedibilità a querela nell’ottica di una considerazione del singolo soggetto, pur guardato nella sua specifica qualità, G. D. Pisapia, G. Pisapia, cit., pp. 120-121.
[61] Non potendo esso identificarsi negli interessi di cui la famiglia tout court è titolare, come sopra evidenziato, per la astrattezza e genericità che li caratterizzerebbe (così, F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit , p. 18).
[62] Si tratta sempre infatti di tutelare tali rapporti, a prescindere dal fatto che ci si trovi di fronte ad una lesione per così dire “frazionabile” dell’interesse protetto (come nel caso del comma 2) o necessariamente unitaria (in relazione all’ipotesi prevista al comma 1), questione che rileverà sotto la veste tecnica del concorso di reati o del concorso apparente di norme (Cass., Sez. un., 20 dicembre 2007, n. 8413, cit.; sul punto, per una considerazione ulteriore, v. infra, par. 11).
[63] Tanto che si è parlato di una vera e propria progressione di gravità della violazione degli obblighi di assistenza economica, da quella “semplice” di cui al comma 1 ad una particolarmente grave (far mancare i mezzi di sussistenza), di cui al comma 2 (cfr. M. N. Masullo, Oltre il rinvio, cit., p. 1465). L’art. 570 co. 2 n. 2 infatti incrimina la violazione dei più elementari vincoli di solidarietà familiare, indipendentemente dalla permanenza della unità della famiglia. Si tratta di un obbligo basilare senza l’osservanza del quale la stessa esistenza del rapporto familiare sarebbe messa in pericolo (v. A. di Martino, Diritto penale, cit, p. 886) (“bisogni elementari”, E. Antonini, La violazione degli obblighi cit., p. 906). Cfr. A. Vallini, La violazione, cit., p. 942, che afferma che l’interesse alla base dello specifico “diritto di assistenza” in questione è sì economico ma anche attinente alle “esigenze fondamentali” della vita di un uomo: affermazione che rivela il connotato di malum in se della violazione di tale interesse, nozione rilevante, ma non risolutiva ex se ai fini di un giudizio di scusabilità dell’ ignorantia iuris; l’A., infatti, al termine di un iter argomentativo molto articolato, conclude che la circostanza che “l’ignoranza abbia ad oggetto un reato naturale non è argomento di per sé sufficiente ad escludere la scusabilità dell’ ignorantia iuris, come sembrerebbe invece ritenere la Cassazione”, essendo, questo, solo un primo passaggio, dalla giurisprudenza di legittimità – così stigmatizzata –, invece, ritenuto di per sé dirimente. V. infra (parte finale di par. 11) per una proposta esegetica – che muove da uno spunto dottrinale di carattere generale – in ordine al possibile diverso rilievo, in tema di concorso di reati, della pluralità di rapporti familiari violati in caso di omesso versamento del mantenimento rispetto all’ipotesi dell’omessa prestazione dei mezzi di sussistenza, ove l’obbligo predetto sia violato o questi siano fatti mancare rispetto ad una pluralità di soggetti passivi.
[64] Così F. Fierro Cenderelli, Commento all’art. 570, in E. Dolcini-G. Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, II, III ed., Milano, 2011, passim; M. Bertolino, Il minore vittima del reato, Torino, 2005, p. 42. Per la rilevanza dell’individuazione del bene giuridico in termini di conseguenze applicative, v. D. Brunelli, Il diritto penale, cit., 2013, passim; cfr. anche G. D. Pisapia, G. Pisapia, cit., p. 121, che evidenza la necessità di esaminare di volta in volta il rapporto familiare tutelato nella fattispecie al fine di verificare l’efficacia scriminante del consenso prestato e che menziona l’art. 570 c.p. quale norma in relazione alla quale può prospettarsi simile evenienza.
[65] Se l’abbandono del domicilio non può assumere alcuna rilevanza penale in un contesto familiare caratterizzato dalla separazione, perché la coabitazione, a seguito della separazione stessa, cessa di essere un dovere, la questione potrebbe però porsi circa la condotta contraria all’ordine e alla morale della famiglia; per condotte contrarie all'”ordine” familiare si fa generalmente riferimento a comportamenti che, in spregio del valore dell’unità della famiglia, e soprattutto della regola dell'”accordo tra i coniugi” (art. 144 c.c.) possono condurre alla disgregazione della stessa. È evidente, allora, che l’adozione di comportamenti di questo tipo non possa rivestire alcun rilievo penale a seguito di separazione, la quale, determina un’attenuazione del vincolo coniugale in vista del suo dissolvimento, risultando quindi già pregiudicata, per definizione, l’unità. Ciò che ne consegue è che, a seguito della separazione, la condotta che potrà assumere rilevanza sarà solo quella contraria alla “morale” familiare. A titolo esemplificativo, contraria alla morale familiare sarà la condotta del coniuge separato, il quale, di fronte all’eventuale conflitto tra un’esigenza personale, di carattere egoistico, e quella dell’altro coniuge, accordi precedenza alla prima, rinunciabile, “dequotando” completamente la seconda, ponendosi così in conflitto con quei valori di base della famiglia, che hanno riflessi anche sul piano patrimoniale (V. Magnini, Violazione degli obblighi di assistenza familiare e disagio economico, nota a Cass., Sez. pen., VI, 26 novembre 2014, n. 52393, in Dir. pen. proc., 2015, 5, pp. 580 ss.). Il divorziato, al contrario, perde il proprio status di coniuge, non potendo quindi rientrare nel novero dei soggetti previsti dalla fattispecie di reato.
[66] L. 1 dicembre 1970, n. 898.
[67] M. Miedico, voce Violazione, cit., p. 203.
[68] Quanto alla nozione di ‘coniuge’, si segnala, per completezza, la recente modifica apportata al codice penale con il D.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6 (emanato al fine di realizzare il coordinamento della disciplina penalistica – dei delitti contro la famiglia ma non solo – con la L. n. 76/2016 , c.d. Legge Cirinnà), con la quale se ne prevede l’estensione a ricomprendere anche la parte di un’‘unione civile’ quando la qualità di coniuge viene in rilievo come elemento costitutivo – che è quanto rileva in tale sede in ordine all’art. 570 c.p. – o come circostanza aggravante. Prevede, infatti, il nuovo art. 574 ter c.p. (“Costituzione di un’unione civile agli effetti della legge penale”), a chiusura del Titolo XI (“Dei delitti contro la famiglia”):
a) “agli effetti della legge penale” (non pertanto con riguardo ai soli delitti contro la famiglia), “il termine matrimonio si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso”;
b) “quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato essa si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso”. (cfr., da ultimo, G. L. Gatta, Unioni civili tra persone dello stesso sesso: profili penalistici, nota a D.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, in Diritto Penale Contemporaneo, www.penalecontemporaneo.it).
[69] La visuale si stringeva tra chi sosteneva l’impraticabilità di detta incriminazione e una contrapposta prospettiva tesa a dare cittadinanza nel territorio penale alla tutela del coniuge divorziato (così D. Falcinelli, Famiglia, cit, p. 302). In un primo tempo, infatti, la giurisprudenza, forzando la lettera, era orientata nel senso di riconoscere che anche il diritto dell’ex coniuge all’assistenza economica fosse penalmente tutelato dall’art. 570 co. 2 c.p., dando rilievo prevalente all’esigenza di dsalvaguardare il soggetto economicamente più debole, sulla base del fatto che “permarrebbero gli obblighi di assistenza economica” pur dopo la cessazione del vincolo matrimoniale (Cass., Sez. pen., VI, 30 aprile 1979, A., in Cass. Pen., 1981, p. 1052, con nota critica di F. Uccella). Impostazione corretta, in un primo momento, dalla Cassazione attraverso la precisazione che la tutela penale andava comunque limitata alle ipotesi in cui l’assegno di divorzio fosse stato concesso in funzione assistenziale (Cass., Sez. pen., VI, 19 febbraio 1981, M., in Cass. pen., 1982, p. 1179). Per la giurisprudenza sul punto, si rinvia al dettagliato contenuto motivazionale della sentenza delle Sezioni Unite citate nella successiva nota 71.
[70] A titolo esemplificativo, cfr. Cass., Sez. pen., VI, 23 novembre 1983, V., in Foro it., 1984, II, p. 302.
[71] Cfr. Cass., Sez. un., 26 gennaio 1985, L., in Cass. Pen., 1985, 1342 ss.., con argomentazione basata proprio sulla formulazione stessa della norma, che tipizza espressamente soggetto attivo e passivo del reato, come si anticipava. V., sul punto, G. Fiandaca, E. Musco, Diritto Penale, cit., p. 366.. Di conseguenza derivava che l’adempimento dell’obbligo alla corresponsione dell’assegno di divorzio veniva ad esser garantito solo civilmente (ex art. 8, L. divorzio del 1970).
[72] L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 21.
[73] Così introdotto nella L. 1 dicembre 1970, n. 898; su questa norma, cfr. per tutti, di recente, D. Fondaroli, Art. 12 sexies, in E. Gabrielli (dir.), Commentario del codice civile. Della famiglia – Leggi collegate (vol. a cura di L. Balestra), Torino, 2010, pp. 834 ss.
[74] Cfr. F. Fierro Cenderelli, La violazione, cit., pp. 175-177; cfr. M. Miedico, voce Violazione, cit., passim).
[75] “Al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli artt. 5 e 6 della presente legge si applicano le pene …”. Con l’art. 12 sexies e con l’art. 3 cit., il legislatore italiano sembra così iniziare ad orientarsi verso una accessorietà della disciplina penale in materia, nel senso di accordare, in questo specifico ambito, al diritto penale una funzione sanzionatoria degli obblighi stabiliti in sede civile (dalla legge o dal giudice – a seconda che si parli dell’art. 12 sexies o del art. 3 cit., come si vedrà). Il modo di raccordo fra tutela penale e civile previsto dall’art. 570 c.p. è invece diverso, filtrata la rilevanza penale mediante elementi costitutivi aggiuntivi; con queste due leggi, invece, il legislatore italiano sembra allinearsi a scelte presenti in altri codici europei, fra cui, ad esempio, quello tedesco e quello spagnolo, marcatamente orientati in termini di accessorietà in materia (peraltro stemperata da una applicazione giurisprudenziale attenta ai principi penalistici; per gli utili riferimenti bibliografici, v. A. di Martino, Diritto penale, cit , p. 815). Per la considerazione che, così facendo, il diritto penale rischia di perdere la sua funzione, cfr., nel sistema spagnolo, A. Serrano Gómez-A. Serrano Maíllo, Derecho penal. Parte especial, Madrid, 2009, p. 343: nel nostro ordinamento tale tematica andrebbe sotto il capitolo delle problematiche connesse al principio di extrema ratio (sulla sua valenza solo argomentativa, v., peraltro, le considerazioni di M. Donini, voce Teoria del reato, in Dig. disc. pen, vol. II, Torino 1999, passim).
[76] Che consiste nel divieto di sottrarsi all’esecuzione della sentenza del giudice civile che imponga l’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile. Tale formulazione ha sollevato non pochi problemi interpretativi, legati all’individuazione dell’effettiva estensione del precetto penale – anche in considerazione della mancata espressa previsione di un limite quantitativo all’omissione penalmente rilevante (v. infra, nota 77) –, delle incertezze relative all’interesse giuridico protetto e delle perplessità in ordine al rispetto delle istanze di tassatività, non essendo espressamente indicata la pena da applicare, se non tramite un generico rinvio (così, A. Roiati, Lo statuto penale del coniuge separato, del divorziato e della persona “comunque convivente” nell’orizzonte della famiglia “liquida”, in Riv. It. dir. proc. pen., fasc. 3, 2014, pp. 1440 ss. in www.iusexplorer.it). Quanto all’oggettività giuridica della fattispecie in esame, esclusa la riferibilità alla tutela della famiglia, essa viene individuata dall’opinione prevalente nella tutela del diritto di credito stabilito in favore dell’ex-coniuge, quale residuo vincolo di solidarietà familiare (ancora, Id., Lo statuto penale, cit., passim). “Nel rispetto dei fondamentali principi di colpevolezza e di imputazione causale, autorevole dottrina e giurisprudenza sostengono che, ai fini della responsabilità penale ex art. 12 sexies, non basti il mancato adempimento dell’obbligo, posto che il reato esulerà laddove il mancato pagamento dell’assegno sia da imputare ad una condizione di impossibilità dovuta all’incapacità economica nella quale il soggetto sia venuto a trovarsi per ragioni a lui non imputabili” (così S. Perini, Violazione dell’obbligo, cit., p. 905).
[77] A dispetto dell’uso del termine “sottrazione” (circa la sottrazione degli obblighi di assistenza, v. supra), questa volta, sembra si tratti di una condotta-modo, in cui ciò che interessa al legislatore è punire il mero contegno di inadempimento all’obbligo stabilito nel provvedimento civile (tale aspetto risulta ancora più lampante con riguardo alla L. n. 54 del 2006, di cui si dirà infra, parr. 7 e 8); peraltro, non sono mancate voci che hanno cercato di escludere la rilevanza penale – ferma quella civile – in casi di lievi ritardi, piccole irregolarità, inadempimenti parziali sostanzialmente ininfluenti sull’entità della somma e quindi inidonei a frustrare la pretesa creditoria (T. Padovani, in Comm. G. Cian, G. Oppo, A. Trabucchi, Padova, 1993, VI, sub art. 12 sexies, p. 538). La mancata soddisfazione della pretesa creditoria, peraltro, più che essere un limite di tipicità, sembra semplicemente corrispondere alla tutela delle esigenze sottese al principio di offensività, che così – in disparte la formulazione legislativa – precludono di appiattire la fattispecie criminosa sulla falsariga di un illecito civile (cfr. T. Delogu, Art. 570, Violazione degli obblighi, cit., p. 542). Se il piano è quello dell’offensività, è, quindi, anche chiaro quale sia il rilievo di un’individuazione preliminare del bene giuridico, che, se fosse da identificarsi con l’amministrazione della giustizia – offesa con l’inottemperanza al comando contenuto nella sentenza – precluderebbe il risultato interpretativo dianzi esposto. In netta controtendenza rispetto ad una giurisprudenza maggioritaria che trascura tale aspetto – e ancor più incisivamente perché le due sentenze che si menzionano hanno riguardo alla diversa fattispecie di cui al co. 2 – v. in giurisprudenza, Cass., Sez. pen., VI, 4 febbraio 2014, n. 18598, espressamente richiamata e seguita, da ultimo, da Cass., Sez. pen., VI, 8 gennaio 2016, n. 535; sembra utile richiamare alcuni passaggi significativi della sentenza del 2014, che si diffonde di più sul punto, affermando che “non può ritenersi che la condotta delittuosa sia integrata da qualsiasi forma di inadempimento” [giacché] “deve trattarsi di un inadempimento serio e sufficientemente protratto (o destinato a protrarsi) per un tempo tale da incidere apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire. Ne discende che il reato non può ritenersi automaticamente integrato con l’inadempimento della corrispondente normativa civile e, ancorché la violazione possa conseguire anche al ritardo, il giudice penale deve valutarne in concreto la “gravità”, ossia l’attitudine oggettiva ad integrare la condizione che la norma tende, appunto, ad evitare” e ancora “la situazione è diversa in tutti quei casi in cui in cui ci si trovi dinanzi ad un limitato ritardo, ad un parziale adempimento, ovvero ad una omissione dei pagamenti, che trovino ben precise giustificazioni nelle peculiari condizioni dell’obbligato ed appaiano agevolmente collocabili entro un breve, o comunque ristretto, lasso temporale, quando a fronte di un più ampio periodo preso in considerazione risulti accertata la piena regolarità nel soddisfacimento dei relativi obblighi dovendo una situazione di temporaneo, parziale, inadempimento essere valutata unitamente a tutte le altre circostanze di fatto offerte dalla disamina del caso concreto, ed in particolare agli altri dati inerenti sia alla eventuale regolarità dei pagamenti complessivi precedentemente effettuati dall’obbligato, che alla oggettiva rilevanza del mutamento di capacità economica nei frattempo intervenuto, a fronte del necessario soddisfacimento delle esigenze proprie dei soggetti tutelati”. Ora, tali osservazioni sembrerebbero dover valere a maggior ragione per l’art. 12 sexies e l’art. 3 cit., dove non vengono in rilievo “esigenze fondamentali” del soggetto passivo. Dalla mappatura dei principi invocabili non si può, infatti, tener fuori quello di offensività. Nonostante la contraria opinione dottrinale (P. Zagnoni Bonilini, La tutela penale del coniuge divorziato, e dei figli, in seguito alla pronunzia di divorzio. La nuova disciplina in caso di affidamento condiviso (art. 12 sexies L. 1-12-1970, n. 898), in Trattato di diritto penale, Parte speciale, VI, diretto da A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Torino, 2009, p. 796), la giurisprudenza prevalente, sembra valorizzare lo scarto tra corretta esecuzione e inadempimento parziale solo sub specie di diversa graduazione di pena (Così, Cass., Sez. pen., VI, 13 marzo 2000, n. 7910, in Cass. pen., 2002, p. 1722, in tema obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile, con considerazioni che sembrano estendibili all’art. 3 cit.).
[78] Condivisione, si segnala in dottrina, sulla tesi che individua il bene tutelato da tale disposizione, ritenuta dai più del tutto autonoma rispetto all’art. 570 (e. Quadri, La nuova legge sul divorzio, Napoli, 1987, 160; F. Fierro Cenderelli, La violazione, p. 185; contra a. Giusti, Commento alla legge 6 marzo 1987, n. 74, art. 21, Nuove leggi civ. comm., 1987, p. 1030), nel rapporto di credito, instaurato con la sentenza di divorzio, tra i coniugi ed esaustivo di ogni altra pretesa. Sebbene si tratti di obbligo dettato da un puntuale provvedimento del giudice – che fissa con sentenza l’ammontare dell’assegno in caso di divorzio – l’oggettività giuridica appare eterogenea al confronto con il reato di cui all’art. 388 c.p., mantenendosi coerente con quella delle violazioni dell’assistenza familiare, tutelando il complesso dei rapporti patrimoniali che residuano dal vincolo familiare (v. f. fierro cenderelli, La violazione, cit., p. 187); riprova ne sarebbe, del resto, anche il collegamento con l’andamento punitivo dell’art. 570 c.p (da riconnettersi al comma 1 secondo le Sezioni unite 2013, su cui v. infra). A meno di volere ritenere che il significato legato alla gravità del quantum non corrisposto si “disperda” nella peculiare forza formale propria della fonte, capace di avvicinare l’illecito ad un delitto contro l’amministrazione della giustizia, specializzando l’ipotesi ex art. 388 c.p.” (per questa ricostruzione del bene giuridico tutelato dalla fattispecie extra-codicistica si rinvia a A. Lanzi, sub art. 12 sexies l. divorzio, in Comm. riforma del divorzio, Milano, 1987, 152 ss.; G. Servetti, La riforma della legge sul divorzio: una nuova fattispecie incriminatrice. Il delitto F. Fierro Cenderelli di omessa corresponsione dell’assegno ex artt. 5 e 6 l. 898/1970, RIDPP, 1987, p. 981; v. per una panoramica sul punto, La violazione, cit., p. 186). Tale ultimo orientamento trascura, peraltro, di considerare, tra gli indici che sembrano deporre in senso contrario, la differenza di regime di procedibilità dell’art. 12 sexies, l. cit., rispetto all’ art. 388 c.p.. Dall’adesione a tale ultimo inquadramento, in ogni caso, deriverebbero significative conseguenze applicative: si pensi, a titolo esemplificativo, al rilievo penalistico che verrebbe accordato ad un qualsiasi inadempimento parziale a prescindere dal fatto che lo scostamento sia di minima entità; si consideri poi la rilevanza in termini di qualificazione del reato come permanente o come istantaneo (rispetto alla quale si rinvia alla trattazione contenuta nel par. 11), in quanto – ove l’oggettività giuridica fosse assimilabile a quella propria dell’art. 388 c.p. – alla scadenza di ogni termine mensile fissato dal giudice risulterebbe leso in modo definitivo l’interesse tutelato dalla norma, ovvero l’effettività della tutela giurisdizionale della sentenza di divorzio; termine da considerarsi, per tale ragione, perentorio. Diversamente, se la norma è da intendersi – sulla scorta dell’orientamento maggioritario – come posta a tutela dell’interesse privato del coniuge creditore, il predetto termine dovrebbe reputarsi ordinatorio: sul punto, dettagliatamente, A. Conz, La natura istantanea del diritto di omesso pagamento dell’assegno di divorzio, in Cass. pen., fasc. 11, 2015, p. 4083, in www.iusexplorer.it, pp. 3 e 4, in cui si afferma, aderendo all’impostazione che ravvisa un termine perentorio, che “l’«obbligo» al versamento dell’assegno di divorzio si rinnova così ciclicamente al maturare del nuovo termine per adempiere imposto dall’Autorità, dando vita a condotte tra loro diverse, dotate di una propria individualità ed una propria dimensione temporale distinta da quelle che le precedono e che, eventualmente, le seguiranno”). La tesi della permanenza è espressa anche con riguardo all’art. 3 cit. (D. Potetti, Relazioni fra art. 3, cit., in www.iusexplorer.it, p. 2); impostazione da cui discende che, per quante siano le diverse scadenze in cui l’adempimento del medesimo obbligo possa frazionarsi (ad es.: le rate mensili dell’unico assegno prescritto a favore del figlio), “nell’assegno periodico unico è l’obbligo che assume rilevanza penale, e le varie scadenze fissate (es. mensili) sono solo forme (temporali) dell’adempimento” (così, D. Potetti, Relazioni fra art. 3, cit., in www.iusexplorer.it, p. 2).
[79] Sul delitto di cui all’art. 12 sexies l. 898/70, in dottrina, v. G. Servetti, La riforma della legge, cit., p. 973; P. Zagnoni Bonilini, La tutela penale del coniuge divorziato, in G. Bonilini – G. Cattaneo (a cura di), Famiglia e matrimonio, Torino, 1997, p. 628; T. Padovani, in Comm. G. Cian, G. Oppo, A. Trabucchi , Padova, 1993, VI, sub art. 12 sexies, p. 535.
[80] M. Miedico, voce Violazione, cit., passim; il carattere indeterminato della comminatoria della pena aveva indotto alcuni giudici a sollevare questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 25, comma 2, Cost., ma la Corte costituzionale, nel dichiarare la questione inammissibile, sostenne che “essendo due soltanto, e ben nettamente contrapposte, le possibilità interpretative cui dà luogo il rinvio dell’art. 12 sexies alle “pene previste dall’art. 570 c.p. “, non di indeterminatezza si tratta, ma di un normale dubbio interpretativo. (…) Scegliere la soluzione preferibile alla stregua del sistema, (…) è compito specifico dell’interprete e, quindi, nella specie, del giudice ordinario, in conformità a quanto accade ogni volta in cui si debbano applicare disposizioni dalla lettura non pacificamente univoca” (Così Corte Cost. 31 luglio 1989, n. 472 , cit., 381). Tuttavia la Corte, in successive pronunce in materia di determinatezza, al di fuori di tale ambito, non ha operato questo self-restraint.
[81] V. G. Servetti, La riforma della legge, cit., p. 973; T. Padovani, sub art. 12 sexies l. d., in Comm. G. Cian, G. Oppo, A. Trabucchi, VI, Padova, 1993, pp. 533 ss.; “il ruolo della norma pare attestarsi su di un livello definitorio-esplicativo, non afferente al novero degli agenti ex art. 570, ma piuttosto volto alla precisazione della specifica tipicità dell’obbligo economico inadempiuto“ (D. Falcinelli, Famiglia, cit, p. 303).
[82] Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 23866, cit.
[83] Applicazione delle pene in forma congiunta, come previsto dal comma 2. Ma v. la posizione di Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 23866, cit., che rigetta tale soluzione nonché il substrato concettuale e argomentativo che la muove (v. infra e supra)
[84] L’una ricondotta all’art. 12 sexies e l’altra, come si diceva, all’art. 570, co. 2, c.p., sulla base di quella interpretazione che si criticava (cfr. A. Roiati, Lo statuto penale, cit., passim; M. Miedico, voce Violazione, cit., p. 203).
[85] Quest’ultima, se prole di età minore, ricondotta all’art. 570, co. 1 o co. 2, a seconda degli estremi fattuali ricorrenti; con riguardo alla problematica rispetto ai figli maggiorenni, cfr. M. Miedico, voce Violazione, cit., p. 203. L’art. 12 sexies punisce il mero inadempimento dell’obbligo di pagare l’assegno stabilito dal giudice in sede di divorzio, a prescindere dalle note modali di cui al comma 1 e dei requisiti costitutivi del comma 2. (cfr. G. Servetti, La riforma della legge, cit., p. 980).
[86] La Corte costituzionale dichiarò, tuttavia, non fondata la questione di costituzionalità con riferimento alla diversità di tutela penale dell’assegno di separazione e dell’assegno di divorzio, ritenuta non palesemente arbitraria, perché corrispondente alla differenza fra le situazioni del separato e del divorziato, dei quali l’uno è ancora, in certa misura, personalmente legato al coniuge, mentre l’altro ha riacquistato lo stato libero (Corte cost., sent 31 luglio 1989, n. 472 del 1989, Foro it., 1990, I, p. 1820, con nota di E. Quadri, Legittimità costituzionale della nuova tutela penale del divorziato); v. anche F. Fierro Cenderelli, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, p. 77.
[87] Art. 3, L. 8 febbraio 2006, n. 54; art. 3, cit., intitolato «violazione degli obblighi di natura economica».
[88] Dichiarando applicabile alla predetta violazione degli obblighi economici le sanzioni previste dall’art. 12 sexies, L. n. 898/1970, il legislatore recente ha ricalcato il modello dell’art. 12 sexies, richiamando le pene in esso previste − e dunque, mediatamente, quelle dell’art. 570.
[89] A. Di Martino, Diritto penale, cit., p. 881.
[90] L. Picotti, Le disposizioni penali della nuova legge sull’affidamento condiviso dei figli, in Famiglia e diritto, 2006, pp. 557 ss..
[91] Cfr. A. Roiati, Lo statuto penale, cit., passim. L’art. 3, infatti, rinvia più ampiamente ad ogni obbligo di natura economica concernente i figli, già stabilito in via generale e astratta dalla disciplina civile che integra il precetto penale, senza bisogno che esso (obbligo) venga mediato e attuato dal provvedimento del giudice che ne fissi il contenuto. L’assunto è corretto, anche se rimane qualche preoccupazione per l’esigenza di tassatività del precetto penale, data la vaghezza dei criteri forniti dalla norma civile integratrice, come evidenzia D. Potetti, Indagine sulle origini, in www.iusexplorer.it, p. 8.
[92] V. Cfr. A. Roiati, Lo statuto penale, cit., passim.
[93] Implicante il recepimento della stessa condotta del 12 sexies; si consideri l’inciso: “si applica l’articolo 12-sexies” della L. n. 898 del 1970: si applica – sembrerebbe – l’intero articolo, non “le pene” come nell’art. 12 sexies.
[94] Che si occupa solo di obblighi economici verso i figli.
[95] Che, oltre alle norme su figli e separazione, contiene non solo il riferimento allo scioglimento del matrimonio, ma anche, e soprattutto, gli obblighi di natura economica fra coniugi, di cui all’art. 156 c.c..
[96] Modificative o sostitutive di altre, del codice civile e del codice di procedura civile.
[97] Tesi convalidata da Cass., Sez. pen., VI, 22 settembre 2011, n. 36263, rv. 250879.
[98] V. D. Potetti, Indagine sulle origini e sulla condotta del nuovo reato di cui all’art. 3 della L. n. 54 del 2006, in Cass. pen., fasc. 5, 2012, p. 1867, in www.iusexplorer.it, passim; l’Autore tuttavia sembra trascurare l’esito dallo stesso raggiunto laddove, nell’escludere la possibilità interpretativa di una abrogazione tacita dell’art. 12sexies, sostituito dall’art. 3 introdotto nel 2006, muove da un assunto, quello della recezione del precetto dell’art. 12 sexies, che più sopra esclude; sembrerebbe, invece, ad avviso di chi scrive, rimanere aperta la strada, sotto questo profilo, ad una tale operazione esegetica, proprio sul rilievo che il rinvio, come detto dallo stesso Autore, sarebbe solo quoad poenam, , cfr. D. Potetti, Indagine sulle origini, cit., in www.iusexplorer.it, pp. 9-10).
[99] La soluzione offerta da ultimo dalle Sezioni unite del 2013 (di cui si è accennato supra e di cui si dirà oltre), proprio in questi termini, riallinea solo parzialmente le posizioni della persona divorziata e del coniuge separato, in quanto, la tutela degli interessi economici di quest’ultimo, una volta ricondotta al primo comma, se prescinde dai requisiti dello stato di bisogno e della capacità di adempiere, necessita comunque delle note costitutive di cui al primo comma; v. anche A. Roiati, Lo statuto penale, cit., p. 1452. Tuttavia, de iure condendo si continua ad auspicare una ristrutturazione legislativa della materia nella direttrice, tra le altre, di una equiparazione completa della situazione della separazione e del divorzio (M. N. Masullo, Oltre il rinvio, cit., pp. 1466-1467); in una prospettiva di riforma generale, si colloca pure la chiosa finale di Corte Cost. 220/2015 – tornata ad occuparsi da ultimo del regime di procedibilità (dichiarata infondata la questione, afferma: “non si può misconoscere che il sistema delle incriminazioni relative ai rapporti familiari risulti, nel suo complesso, frammentario e disarmonico”. […] “il compito di ricomporre le predette disarmonie, sulla base di una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, resta affidato al legislatore”.)
[100] Non si dimentichi peraltro che, da un punto di vista processuale, laddove non venga contestata dal Pubblico Ministero la condotta di privazione dei mezzi di sussistenza, la eventuale sentenza che condannasse l’imputato per il configurarsi della fattispecie di cui all’art. 570, co. 2 n. 2, integrerebbe un’ipotesi di nullità della sentenza per difetto di correlazione ex art. 522 c.p.p.. Senza addentrarci in divagazioni fuorvianti rispetto alla tematica in interesse, lo schema processuale da seguirsi, in tali casi, è quello che prevede di procedere con un’ordinanza declinatoria ex art. 521, co. 2 c.p.p., tematica su cui sarebbe un fuor d’opera diffondersi. Tale profilo processuale, rispetto al quale, nell’economia del commento, non può indugiasi, è in realtà molto ricorrente nella prassi giurisprudenziale in materia. Per completezza, ci si limita soltanto ad un rinvio alla letteratura processualistica che si è spesa in generale sul tema: cfr., tra gli altri, G. BETTIOL, La correlazione fra accusa e sentenza nel processo penale, Milano, 1936, p. 41; F. CORDERO, Considerazioni sul principio d’identità del «fatto», in Riv. it. dir. proc. pen., 1958, p. 938; A. Giarda, Sul principio di correlazione dell’«accusa» con la «sentenza» fra presente e futuro del processo penale, ivi, 1976, p. 569, i quali rinvengono la ratio del principio nella precipua finalità di salvaguardare il diritto di difesa dell’imputato.
[101] La fattispecie codicistica di cui al comma 2 è volta a garantire l’adempimento diretto dei doveri di solidarietà familiare, quando la loro violazione si risolva nella messa in pericolo delle condizioni minime di sopravvivenza; quelle della legge complementare, invece, sono volte a sanzionare l’inadempimento di un obbligo diretto a garantire un assetto dei rapporti familiari che tiene conto non solo degli effettivi bisogni – quando ad es. il beneficiario non abbia mezzi adeguati e non possa procurarseli per ragioni oggettive –, ma anche esigenze eterogenee che – in termini generali – sono da ricondurre ad una prospettiva di valutazione e comparazione fra le condizioni socio-economiche dei coniugi (cfr. A. Di Martino, Diritto penale, cit., passim).
[102] Cfr. D. Potetti, Relazioni fra art. 3 della L. n. 54 del 2006 e art. 570, comma 2, n. 2 c.p., in Cass. pen., fasc.6, 2012, pp. 2140 ss., in www.iusexplorer.it, passim.
[103] Sembra postulare implicitamente considerazioni in termini di specialità, propendendo per l’applicabilità del solo comma 2, Cass., Sez. pen., VI, 18 novembre 2008, n. 6575; sulla scorta del medesimo criterio strutturale, per contro, una parte della giurisprudenza è giunta a conclusioni opposte: le fattispecie apparirebbero – applicando i criteri del confronto strutturale tra fattispecie astratte – in rapporto di mera interferenza, che dovrebbe imporre l’applicazione delle regole sul concorso di reati. L’eterogeneità appare chiara se si consideri che: l’art. 570 è reato di evento (il far mancare i mezzi di sussistenza) che non ha un suo corrispettivo nella fattispecie dell’art. 12 sexies; la prima fattispecie prevede un presupposto, lo stato di bisogno, non tipizzato, nemmeno implicitamente nella seconda, la quale, a sua volta, menziona una condotta che non è invece astrattamente contemplata nella prima (cfr., ad es.,Cass., Sez. pen., VI, 19 maggio 2005, n. 32540 in CED Cass., rv. 231925; per il concorso formale eterogeneo, Cass., Sez. pen., VI, 16 giugno 2011, n. 34736). Secondo altro Autore, la conclusione nel senso dell’applicazione di entrambe le fattispecie, in caso d’interferenza, potrebbe essere esclusa soltanto a patto di rinvenire nel rinvio quoad pœnam operato dall’art. 12 sexies una clausola di riserva implicita rispetto al fatto previsto dall’art. 570 (come se la norma suonasse “fuori dei casi previsti dall’art. 570, co. 2, n. 2, c.p.”): per questa opzione, A. Di Martino, Diritto penale, cit., p. 861; D. Potetti, Relazioni fra art. 3, cit. prosegue, invece, affermando come il concorso apparente di norme, oltre che sulla base di criteri strutturali, potrebbe essere riconosciuto nella specie anche alla stregua dei principi sostanzialistici di sussidiarietà e assorbimento (in tal senso, da ultimo, Cass., Sez. pen., VI, 4 febbraio 2014, n. 18598); l’A. citato prospetta una abrogazione tacita del comma 2 sulla base del 15 disp prel. in quanto “il principio lex specialis [comma 2] per generalem [art. 3 cit. e art. 12 sexies] non derogatur va inteso nel senso che la legge speciale può rimanere in vigore anche se intervenga una legge generale posteriore, e non in quello di negare la possibilità giuridica che una normazione generale possa abrogare una disposizione di legge speciale quando (come sembra nel nostro caso) emerga la volontà del legislatore di innovare anche la materia già regolata con legge speciale” e tale volontà incompatibile verrebbe ravvisata nel punire l’offesa maggiore “con la stessa pena prevista per l’offesa minore (mera violazione degli obblighi di natura economica)”. Tuttavia, in chiave critica, potrebbe replicarsi che – anche a voler sottacere il rilievo che la stessa nozione di gravità di un reato è in primis calibrata sulla comminatoria edittale, che in tal caso è la medesima – misurare la gravità dell’offesa sul metro di valutazioni sostanzialistiche, e perciò opinabili, per indurre, per di più, da presupposti tanto incerti, una chiara volontà legislativa nel segno dell’abrogazione, sarebbe operazione ermeneutica non poco discutibile.
[104] Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 23866, cit..
[105] Nel trattare della sovrapposizione di ambiti tra art. 12 sexies e art. 3 cit..
[106] Come detto supra, quale lineare epilogo della tesi tradizionale esposta nel par. 3.
[107] Come sopra accennato, quando si trattava la condizione di tutela penalistica del coniuge separato.
[108] Segnatamente, si assevera che “in mancanza di sicuri elementi testuali orientativi scaturenti dal testo legislativo, siffatto rinvio deve intendersi riferito – in sintonia con il rapporto di proporzione e con il criterio di stretta necessità della sanzione penale – al primo comma dell’art. 570 c.p. , che costituisce l’opzione più favorevole all’imputato”.
[109] T. Padovani, in Comm. G. Cian, G. Oppo, A. Trabucchi (a cura di), Padova, 1993, VI, sub art. 12 sexies, p. 541 aveva parlato di analogia in malam partem. Si rifletta, inoltre, sulla circostanza che, volgendo lo sguardo al panorama europeo, non possono poi sottovalutarsi le più recenti acquisizioni in ordine al contenuto del principio di legalità ex art. 7 Cedu, che devono orientare l’interprete, in forza dell’l’obbligo d’interpretazione conforme, nel senso dell’applicazione della pena meno grave, attesa la sovrapponibilità per la Corte Edu tra analogia e interpretazione estensiva, entrambe vietate laddove determinino un deficit accessibilità e di prevedibilità della norma penale (sarebbe un fuor d’opera soffermarsi sulla sterminata giurisprudenza Edu al riguardo, per la quale dunque, per la trattazione specifica e i puntuali riferimenti, si rinvia a R. Garofoli, Manuale di Diritto Penale, cit., pp. 34 ss.). Su questa base, poiché il richiamo operato dall’art. 12 sexies all’art. 570 può intendersi riferito anche alla pena meno grave di cui al primo comma di quest’ultima disposizione, è a questa cornice edittale che si deve fare riferimento. Ciò anche in considerazione del fatto che, se è vero che, dall’angolo visuale della Corte Edu, la determinatezza della pena applicabile all’art. 12 sexies andrebbe apprezzata anche alla luce degli apporti giurisprudenziale sul formante legislativo (il c.d. diritto vivente), è altrettanto vero che la soluzione in ordine a tale profilo – lungi dall’essere stabilizzata – proprio di recente è stata “ribaltata” dalle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 23866, cit.), risultando, dunque, allo stato, questione aperta, condizionata dal seguito che avrà tale dictum nella successiva prassi applicativa; per spunti in tema di rilevanza – sul piano dell’esegesi della norma –di un confronto con l’ottica europea, già prima della sentenza delle Sezioni Unite richiamata, cfr. A. Di Martino, Diritto penale, cit., p. 835 e passim.
[110] Indipendente, come si diceva, dalla situazione di bisogno in cui vertono gli aventi diritto.
[111] L’argomento, secondario nell’economia del giudizio dinnanzi alla Corte, rispetto a quello del favor rei, diventa, come anticipato sopra, determinante per ricondurre l’assistenza materiale al co. 1, e quindi a tale comma anche la tutela del coniuge separato; l’esito cui la giurisprudenza prevalente giungeva riposava sulla bipartizione interna alla norma, che aveva condizionato anche la tutela penale del coniuge separato relegata nei confini dell’omessa prestazione dei mezzi di sussistenza (v. supra, par. 3). Si noti che, significativamente, la Cassazione estende esplicitamente la validità delle proprie considerazioni anche rispetto all’ipotesi introdotta nel 2006.
[112] Come riferito alla pena alternativa; S. Perini, Violazione dell’obbligo, cit., p. 906; cfr. M. N. Masullo, Oltre il rinvio, cit., pp. 1464-1465.
[113] Per tutte, da ultimo, Cass., Sez. pen., VI, 20 gennaio 2015, n. 5423 (in tema di art. 3 cit., ma le cui osservazioni sembrano estendibili anche alla fattispecie di cui all’art. 12 sexies), che per vero si rifà a sentenze che si occupano della natura permanente di cui all’art. 570 co. 2, n. 2 (cfr. Cass., Sez. pen., VI, 13 gennaio 2011, n. 2241; Cass., Sez. pen., VI,10 maggio, n. 22219; Cass., Sez. pen., VI ,11 febbraio 2009, n. 7321; Cass., Sez. pen., VI, 30 ottobre 2008, n. 43793; Cass., Sez. pen., VI, 4 dicembre 2003, n. 7191). Sez. pen., VI, 20 gennaio 2015, n. 5423 è commentata da A. Conz, La natura istantanea del diritto di omesso pagamento dell’assegno di divorzio, in Cass. pen., fasc. 11, 2015, p. 4083, in www.iusexplorer.it, che aderisce alla tesi opposta; in dottrina, per la tesi del reato permanente, D. Potetti, Relazioni fra art. 3, cit., in www.iusexplorer.it, p. 2). Ciò è oggi rilevante anche ai fini dell’applicabilità dell’art. 131 bis c.p. che, utilizzando la locuzione “comportamento abituale”, se, di certo, esclude l’operatività della norma nel caso di reati abituali, pare lasciare aperta la questione con riferimento al reato permanente; al riguardo la Suprema Corte ha osservato che “il reato permanente è caratterizzato non tanto dalla reiterazione delle condotta, quanto, piuttosto, da una condotta persistente, cui consegue la protrazione nel tempo dei suoi effetti e, pertanto, dell’offesa al bene giuridico protetto. Conseguentemente, il reato permanente non è riconducibile nell’alveo del comportamento abituale ostativo al riconoscimento del beneficio ex art. 131 bis cod. pen.”; un rilievo si attribuisce, però, a tale qualifica, con riguardo alla valutazione operata mediante l’”indice-criterio” della particolare tenuità dell’offesa, “la cui sussistenza è tanto più difficilmente ravvisabile quanto più tardi sia cessata la permanenza” (così, Cass., Sez. pen., III, 8 ottobre 2015, n. 47309). Trasversalmente, il profilo della permanenza consente di rinviare a quanto detto supra, in tema di bene giuridico (v. nota 78).
[114] Tale proposizione sembra essere condivisa da D. Potetti, Relazioni fra art. 3, cit., in www.iusexplorer.it, p. 2.
[115] Cass., Sez. un., 20 dicembre 2007, n. 8413, cit. V. supra, in nota 24. Cass., Sez. un., 20 dicembre 2007, n. 8413, cit.
[116] Secondo il quale, nell’ipotesi in cui la condotta di omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza sia posta in essere nei confronti di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare, si configura una pluralità di reati; infatti, le condotte incriminate nel comma 2 dell’art. 570 c.p. (ma lo stesso sembra valere per l’art. 3 della l. n. 54 del 2006, nonché per il 12 sexies) non tutelano soltanto l’astratta unità familiare, ma anche specifici interessi economici di congiunti “deboli”, non necessariamente vulnerati in toto dalla condotta dell’agente).
[117] Questa sembra essere anche l’impostazione di D. Potetti, Relazioni fra art. 3, cit., in www.iusexplorer.it, p. 2.
[118] Riassuntivo sulla tematica , v. D. Brunelli, Il diritto penale, cit. p. 232.
[119] V. supra, nota 57
[120] Tuttavia, la giurisprudenza tende a distanziarsi da tale tesi, perlopiù seguita in dottrina, ravvisando in tali ipotesi la pluralità di reati, eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione. La stessa sentenza a Sezioni Unite del 2007, significativamente, risolve la questione, piuttosto che sulla natura personalissima del bene, su un piano tecnico, argomentando sulla base della configurabilità o meno, stante le fattezze della norma, di un adempimento frazionabile. Critica tale ultimo passaggio delle Sezioni Unite, anche sulla scorta della considerazione che sarebbe impraticabile l’individuazione di quale sia il soggetto passivo a vantaggio del quale il versamento appaia sufficiente e quindi l’obbligo parzialmente adempiuto, A. Di Martino, Diritto penale, cit., pp. 847-848.
[121] V. supra, par. 4
[122] Non si fa riferimento al requisito dell’”ordine” per le ragioni enunciate supra, in nota 65.
[123] Per le coordinate della ricostruzione dogmatica che segue, v. V. Magnini, Violazione, cit., passim.
[124] Tra le tante, di recente, Cass., Sez. pen., VI, 26 dicembre 2014, n. 52393.
[125] Ciò quando, ad esempio, l’obbligato, ancora prima del verificarsi dello stato di bisogno del soggetto passivo, si trovava in una situazione di assoluta indigenza, escludendosi la stessa condotta omissiva, non potendo sorgere il dovere di agire.
[126] Ossia quel coefficiente minimo di riferibilità al soggetto, descritto dall’art. 42, comma 1, c.p. come “coscienza e volontà” della condotta, che fonda l’appartenenza di quest’ultima allo stesso.
[127] Laddove tale situazione sia a verificarsi successivamente all’insorgenza del dovere o del presupposto di fatto che lo attiva.
[128] Dunque, in entrambi i casi, sarebbe da escludersi la tipicità del reato omissivo: la formula processuale di proscioglimento sarebbe quindi “perché il fatto non sussiste”, con le relative conseguenze in merito all’efficacia della sentenza nel giudizio civile di danno (art. 652 c.p.p.); laddove, invece, la suitas venisse dogmaticamente inquadrata quale coefficiente psichico riconducibile all’art. 27 Cost., non attinente alla condotta ma rientrante nella colpevolezza, si dovrebbe pervenire alla diversa conclusione per cui l’impossibilità di agire, successiva all’insorgenza del dovere, non esclude il fatto omissivo, bensì l’elemento soggettivo, con conseguente formula assolutoria “perché il fatto non costituisce reato”; tale ultima opzione sembra quella più coerente con la giurisprudenza maggioritaria (cfr. Così, ex plurimis, Cass., Sez. pen., VI, 14 novembre, 2014, n. 47139, in www.iusexplorer.it; Cass., Sez. pen., VI, 2 settembre 2014, n. 36636; Cass., Sez. pen., VI, 29 maggio 2014, n. 28212; Cass Sez. pen., VI, 21 ottobre 2010, n. 41362.
[129] Salvo discutersi se a venir meno sia l’antigiuridicità o, ancor prima, la tipicità, in quanto l’inadempienza ai doveri di assistenza in “stato di necessità” farebbe sì (cioè per non privarsi dei mezzi indispensabili per le esigenze primarie della propria vita), che la violazione non sia l’effetto di una condotta contraria alla morale familiare, difettando, quindi, tale requisito tipico.
[130] V. Magnini, Violazione, cit, p. 586: “così, ad esempio sarà ritenuta contraria alla morale familiare la condotta dell’obbligato, il quale, in vista di una difficoltà economica, venga meno ai doveri di assistenza familiare pur di non sacrificare delle proprie esigenze di stampo egoistico, alle quali avrebbe potuto ben rinunciare (ad esempio decide di impiegare i pochi introiti che ha a disposizione per tentare la fortuna in una sala da gioco); mentre, viceversa, sarà non sarà contraria alla morale familiare la condotta dell’obbligato il quale, in vista di un disagio economico, viene meno al dovere di assistenza verso il coniuge separato, ritenendo di privilegiare altre esigenze economiche della famiglia (ad esempio esigenze dei propri figli).
[131] L’impiego di una terminologia che evoca chiaramente un rapporto causa-effetto si ritrova nella pronuncia della Cassazione del 2014, n. 52393 citata (“sia stato causa”). Causalismo che necessita delle specificazioni di cui supra, par. 4, quando si trattava della struttura del reato.
[132] Per tutte, di recente, Cass., Sez. pen., VI, 26 dicembre 2014, n. 52393 citata.
[133] Per altre critiche v. anche V. Magnini, Violazione, cit, p. 588.
[134] Cfr. Cass., Sez. pen., VI, 26 dicembre 2014, n. 52393.
[135] Sul tema, una efficace analisi dal piglio casistico in D. Brunelli, Il diritto penale, cit. pp. 103 ss.
[136] Sul carattere sanzionatorio del provvedimento del giudice civile quanto all’art. 12 sexies cfr., ad es., da ultimo Cass., Sez. pen., VI, 13 marzo 2008 n. 25591, in Guida dir., n. 33/2008, p. 103. Dunque, mentre l’art. 570, co. 2 conferisce rilievo allo stato di bisogno degli aventi diritto censurandone il doloso mancato soddisfacimento – in qualunque modo e per qualunque ragione – da parte dell’obbligato che abbia la capacità concreta di fornirli, per contro, il mancato, esatto adempimento dell’obbligazione risultante dal provvedimento del giudice parrebbe automaticamente rilevante anche sul piano penale indipendentemente dalle condizioni economiche dell’avente diritto, anche ove si versi in una situazione di impossibilità assoluta.
[137] A mo’ di sintetica mappatura, sintetiche osservazioni descrittive e de jure condendo circa il tema del rapporto della norma extrapenale, del ruolo meramente sanzionatorio, del carattere della “disobbedienza”, del livello di tassatività e principio di extrema ratio rispetto alla questione generale della collocazione di una certa disciplina penale in leggi speciali contenenti la regolamentazione di una certa materia, cfr. T. Padovani, L. Stortoni, Diritto penale e fattispecie criminose. Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Bologna, 2006, pp. 31-36.
[138] V., già supra, quanto detto in relazione alla rilevanza penale dell’inadempimento parziale dell’obbligazione economica.
[139] T. Delogu, Art. 570, Violazione degli obblighi, cit., p. 543.
[140] Espressione dell’orientamento maggioritario.
[141] Potrebbe, infatti, darsi non solo una situazione valorizzabile nella veste di stato di necessità (art. 54 co. 1 c.p.), come nell’evenienza in cui l’obbligato, adempiendo, pregiudicherebbe la propria sopravvivenza personale, ma, come sopra detto, anche quella in cui vi sia una mera difficoltà di adempiere, nel senso che, essendo l’adempimento altamente oneroso, l’obbligato dovrebbe sacrificare esigenze personali o di altri membri della famiglia diversi dall’avente diritto. Sull’impossibilità relativa, v. T. Padovani, Art. 12 sexies, in Commentario al diritto italiano della famiglia, G. Cian, G. Oppo, A. Trabucchi (a cura di), VI, Padova, p. 539). Ebbene, rispetto tali due reati, mentre la dottrina ascrive rilievo anche all’impossibilità parziale in determinate ipotesi – che paiono speculari a quanto detto circa il comma 1 –, secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario rileva solo lo stato di indigenza economica che si traduca in una impossibilità assoluta. Parrebbe però trascurarsi, da tale filone giurisprudenziale, che in tale caso difettano quei bisogni essenziali caratteristici del comma 2, che motivavano detto aspetto, dandosi così l’impressione di una contaminazione dei moduli argomentativi utilizzati, con una sottolineatura eccessiva della strutturazione accessoria delle due leggi speciali che mette da parte le significative questioni dogmatiche sopra evidenziate.
Circa i profili probatori, mentre riguardo l’art. 570, co. 2 e le suddette ipotesi della normativa complementare grava sull’imputato l’onere della dimostrazione della impossibilità di agire, nella fattispecie di cui all’art. 570, co. 1, c.p. si ritiene spetti al giudice la compiuta verifica delle condizioni economiche dell’imputato. (cfr. V. Magnini, Violazione, cit, pp. 586-587, che ricostruisce l’orientamento maggioritario sul punto).
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