La tutela penale del processo

La tutela penale del processo

In una prospettiva diversa rispetto a quella interna al rito processuale penale, è possibile ravvisare regole processuali scaturite da norme incriminatrici.

In altri termini, dalla norma che punisce la commissione di un determinato reato discende l’applicazione di norme di diritto processuale.

Alcune previsioni del codice penale contribuiscono più di altre in tal senso.

Nello specifico possono considerarsi incidenti nell’applicazione di norme processuali le disposizioni riconducibili nello spettro dell’art. 630 lett.d c.p.p. , che garantisce la tutela penale del processo, attraverso l’istituto della revisione.

Quest’ultimo rappresenta un’impugnazione straordinaria, che può essere invocata rispetto ad una sentenza passata in giudicato, contrariamente alle impugnazioni ordinarie che sono esperibili soltanto avverso decisioni ancora revocabili.

L’istituto in questione può essere richiesto soltanto nei casi tassativamente indicati dalla norma stessa, in quanto ispirato al principio del “favor rei”.

Nella lettera d dell’art. 630 c.p.p. sono contemplati i casi in cui la revisione può essere richiesta qualora venga dimostrato che una condanna sia avvenuta in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato.

In tali ipotesi ci si può trovare di fronte a processi svolti sulla base di accuse calunniose, nei confronti di un soggetto innocente.

Pertanto, se in seguito alla condanna il soggetto interessato riuscirà a provare di essere stato accusato ingiustamente, potrà invocare l’istituto della revisione di cui all’art. 630 c.p.p..

Dunque, nei casi in cui l’attività processuale di accertamento risulti sviata, l’imputato, condannato illegittimamente, potrà chiedere la riapertura del processo attraverso lo strumento della revisione.

L’ingiustizia della sentenza, quindi, imporrà di superare la cosa giudicata.

Nelle  ipotesi in cui, invece, le condotte volte allo sviamento dell’attività di accertamento vengano scoperte durante il corso del processo, ossia nella fase di cognizione, il giudice potrà limitarsi alla restituzione degli atti al p.m. che indagherà nuovamente.

Ciò può accedere ad esempio quando si dimostri che il testimone abbia reso falsa testimonianza.

Appare evidente come l’acquisizione della prova rappresenti lo snodo fondamentale e il fulcro dell’attività processuale di accertamento.

A tal proposito occorre richiamare il principio del contraddittorio che, espresso nell’art.111 della Costituzione italiana, impone di svolgere il processo penale, appunto, in contraddittorio tra le parti e di procedere allo stesso modo alla formazione della prova.

Il comma 5 dell’art. 111 Cost. regola altresì i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio tra le parti per effetto di provata condotta illecita.

Il legislatore, avvertendo l’esigenza di garantire comunque una tutela penale nel processo rispetto all’attività di acquisizione della prova, ha introdotto delle deroghe. Tra queste appare opportuno richiamare la disposizione normativa contenuta nell’art. 500 co. 4 e 5 c.p.p., che è volta ad evitare la compromissione dell’accertamento penale nei casi in cui si accerti che la testimonianza resa dal teste in sede dibattimentale risulti alterata a causa di condotte intimidatorie da parte di terzi sul teste stesso.

La norma in questione consente di derogare all’applicazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, recuperando, a fini probatori, le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone.

In tale prospettiva si ravvisa, inoltre, una corrispondenza tra i reati di intralcio alla giustizia di cui agli artt. 377 e 377 bis c.p. e il co. 4 dell’art. 500 c.p.p., verificandosi così un collegamento tra le norme processuali a tutela della formazione della prova e una condotta criminosa.

In merito a queste argomentazioni, infine, la giurisprudenza precisa che la deroga al principio della formazione della prova in contraddittorio prevista dall’art. 500 co. 4 c.p.p. è diretta alle sole condotte illecite poste in essere “sul” dichiarante e non “dal” dichiarante stesso.

È evidente, infatti, come la scelta del teste di dichiarare il falso in dibattimento, o di tacere, non possa incidere sulla corretta esplicazione del contradditorio tra le parti.

In tali circostanze verranno attuate altri meccanismi processuali per liberare il processo dall’inquinamento probatorio ma non sarà consentito recuperare il verbale di sommarie informazioni testimoniali, che invece potrà recuperarsi nella prima ipotesi suddetta.

Prendendo in considerazione altri casi di provata condotta illecita nell’assunzione della prova, trovano riscontro i reati di tortura di cui all’art.613 c.p. e di frode processuale o depistaggio di cui all’art. 375 c.p..

L’atteggiamento di chi compie quest’ultimi delitti è speculare alla prova, infatti il secondo comma dell’art. 613 c.p., esplica il collegamento tra il reato in questione e l’attività processuale, prevedendo la punizione per il pubblico ufficiale che compie condotte delittuose, punite dalla norma, durante l’adempimento del proprio incarico. Sottoporre l’indagato ad atti di tortura affinché questo renda dichiarazioni utili all’accertamento di un fatto di reato e quindi utili al procedimento rappresenta una modalità illecita e pertanto il verbale di dichiarazioni ottenute non saranno utilizzabili ai sensi dell’art 191 co. 2 bis c.p.p..

A tal proposito rilevanti orientamenti giurisprudenziali tendono ad ammettere l’ultilizzabilità di una prova derivante da un’altra prova ottenuta tramite tortura o con una provata condotta illecita, in virtù dell’applicazione del principio del “male captum bene retentum”.

Sulla stessa linea, inoltre si pone il reato di frode processuale, prima accennato, in cui però il pubblico ufficiale non agisce a favore dell’accertamento dei fatti, ma in danno ad esso, al fine di inquinarlo.

Il delitto di depistaggio o frode processuale può esplicarsi nella forma materiale, mediante la mutazione artificiosa del corpo del reato, dello stato dei luoghi o delle persone connesse al reato, o nella forma dichiarativa, attraverso affermazioni false o negazioni del vero in risposta alla richiesta dell’autorità giudiziaria di informazioni sul procedimento penale.

Sulla scorta di quanto sin qui esposto appare inevitabile richiamare quanto affermato riguardo all’unico strumento che permette di recuperare situazioni come quelle appena descritte, in cui l’accertamento penale risulti intorpidito da condotte criminose e  falsità, ossia il giudizio di revisione ai sensi dell’art. 630 lett. d c.p.p., che consente di riaprire un processo, superando una sentenza passata in giudicato.


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