La tutela risarcitoria dell’interesse legittimo

La tutela risarcitoria dell’interesse legittimo

La lesione degli interessi legittimi non è sempre stata meritevole di tutela risarcitoria: prima dell’anno 1999, infatti, si riteneva che la pubblica amministrazione, che abbia agito illegittimamente, potesse essere chiamata a rispondere del risarcimento dei soli danni ai diritti soggettivi.

Per i danni ingiusti agli interessi legittimi, l’unica tutela riconosciuta e concessa al cittadino danneggiato, era quella indiretta dell’azione di annullamento, attraverso la quale il privato poteva esclusivamente ottenere l’eliminazione di quel provvedimento illegittimo emanato dalla pubblica amministrazione.

Ciò perché in passato la tutela degli interessi legittimi era concentrata non sul rapporto amministrativo, che sorge tra l’amministrazione procedente e il cittadino, ma certamente sul provvedimento, unica espressione dell’esercizio del potere amministrativo, che la norma di azione attribuisce alla PA.

Alla luce di ciò, ben si comprende anche il fatto che in passato la stessa essenza dell’interesse legittimo era concentrata più sul generale interesse della legittimità dell’azione amministrativa: era abbastanza ampia la considerazione del fatto che, quando si parlava di interesse legittimo, si tendeva sempre a fare riferimento al più ampio interesse dei cittadini della legittimità dell’azione amministrativa.

La PA, dunque, in passato poteva essere chiamata a risarcire solo eventuali danni ai diritti fondamentali, di fronte al giudice ordinario. Questo anche perché si riteneva, attraverso una interpretazione in chiave letteraria dell’art 2043 cc, che l’azione di risarcimento poteva essere esercitata solo avverso quei danni ingiusti, cioè “in ius”. Attraverso questa lettura, quindi, si riteneva che l’azione di risarcimento potesse essere mossa solo contro quelle azioni che si dimostrano lesive dello ius, del diritto.

Questa era la considerazione generale che dottrina e giurisprudenza nutrivano circa la tutela risarcitoria che il cittadino poteva esercitare, avverso i comportamenti illegittimi della pubblica amministrazione.

Con la sentenza numero 500/1999 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, però, il registro cambia: si riconosce, infatti, a favore del cittadino il diritto all’esercizio dell’azione risarcitoria avverso la PA, responsabile di aver leso l’interesse legittimo del primo attraverso un comportamento illegittimo.

Questa conclusione fu resa possibile grazie a un preliminare cambiamento della funzione dell’intera tutela risarcitoria, vista non più come pratica per punire comportamenti antigiuridici, ma finalizzata a ripristinare il patrimonio del danneggiato, che, a causa del danno ingiusto, subisce una perdita economica.

La dottrina, ma anche la giurisprudenza tutta, iniziò, dunque a concentrarsi non più sulla colpevolezza del danneggiante, ma sulla lesione del diritto, della posizione giuridica di vantaggio, riconosciuta dall’ordinamento al danneggiato, il quale dovrà essere ristorato dal danno ingiusto subìto.

L’antigiuridicità del comportamento del danneggiante, quindi, non era più il fulcro dell’azione di risarcimento: essa assume un ruolo importante nell’ambito penalistico, realtà in cui diventa ontologicamente rilevante la ricerca della colpevolezza del reo che agisce; nell’ambito civilistico, invece, l’elemento stesso dell’antigiuridicità cede il passo ad altri aspetti, di natura più squisitamente patrimoniale, come l’esigenza di garantire un ripristino del patrimonio di un soggetto impoverito da un comportamento lesivo di un terzo.

Questo cambiamento di rotta nell’ambito dell’azione di risarcimento in materia civilistica, diventa, quindi, importante per aprire le porte al risarcimento per la lesione degli interessi legittimi, i quali pure iniziano a essere letti in maniera diversa.

Si iniziò a rendere conto che gli interessi legittimi, così come i diritti soggettivi, dovessero essere considerati come vere e proprie posizioni giuridiche di vantaggio che l’ordinamento attribuisce e riconosce a specifici soggetti, titolari delle stesse posizioni.

Questi titolari tendono a particolari beni della vita, i quali saranno automaticamente attribuiti a chi detiene un diritto soggettivo; nel caso degli interessi legittimi, invece, il titolare degli stessi, per godere del bene della vita al quale protende, dovrà fare affidamento sull’intervento della pubblica amministrazione, che, per legge, può intervenire esercitando il potere amministrativo utile per garantire proprio quel bene della vita. In questo caso l’interesse legittimo del cittadino è definito pretensivo.

Nel caso in cui, invece, il privato già detiene il particolare bene della vita, potrà dimostrarsi come interessato affinché la PA non agisca, per evitare che, con un intervento specifico, la stessa possa privarlo proprio di quel bene. In questo caso si parla di interesse oppositivo.

La sentenza 500/1999 delle Sezioni Unite pone, dunque, l’attenzione proprio su questo aspetto: sul rapporto che lega il privato, titolare dell’interesse legittimo, e il bene della vita al quale tende.

Il massimo consesso giurisprudenziale si rende conto che, quando la PA, agendo illegittimamente, priva il cittadino del bene della vita già detenuto, oppure non gli concede il bene della vita, allora si potrà riconoscere all’interessato un vero e proprio diritto soggettivo a esercitare un’azione di risarcimento avverso la PA, per essere ristorato del danno subito.

Nella sentenza in analisi, le Sezioni Unite fanno luce su alcuni aspetti utili per riconoscere la sussistenza di questo diritto al risarcimento: sul lato oggettivo, l’illegittimità dell’azione pubblica e la meritevolezza del privato a ottenere il bene della vita; nell’ambito soggettivo, invece, la sussistenza della colpevolezza della PA, che sarà recepita osservando alcuni criteri utili, di costruzione principalmente giurisprudenziale.

Valutando l’azione di risarcimento come oggetto di un diritto soggettivo, le Sezioni Unite dimostrano la propria posizione circa due questioni, che inevitabilmente si aprono: la giurisdizione sulle questioni legate proprio al risarcimento degli interessi legittimi e la natura della responsabilità della PA, che, agendo illegittimamente, lede un interesse legittimo.

Per quanto riguarda il primo problema, quello legato alla giurisdizione, le Sezioni Unite non possono non attribuire la stessa al giudice ordinario, il solo capace di decidere su questioni che hanno come oggetto un diritto soggettivo. Ora, anche se la questione è comunque legata alla lesione di un interesse legittimo, riconoscendo l’esercizio dell’azione di risarcimento come oggetto di un vero e proprio diritto soggettivo, non si può giungere a conclusioni diverse a quelle appena esposte: sulle questioni legate al risarcimento di danni agli interessi legittimi sarà legittimato a decidere il GO.

Tale osservazione, però, fu al centro di una importante critica: attribuire la giurisdizione al GO, significa entrare in conflitto con l’art 103 Cost, secondo cui il Consiglio di Stato e tutti gli organi di giustizia amministrativa sono legittimati a decidere sulle questioni legate alla tutela degli interessi legittimi.

Non si può, dunque, non riconoscere che il risarcimento, più che un diritto soggettivo, è da considerare come un tipo di tutela degli interessi legittimi e quindi naturalmente destinata alla giurisdizione del giudice amministrativo.

Questa critica è stata recepita dal legislatore, che, con l’art 7 cpa, attribuisce in maniera definitiva la giurisdizione delle questioni legate al risarcimento degli interessi legittimi al GA.

Riguardo alla questione della natura della responsabilità della PA, le Sezioni Unite, con le conclusioni raggiunte, si dimostrano conformi alla tesi secondo cui la responsabilità in analisi è di tipo aquiliano, rinviando, dunque, alla struttura dell’azione di risarcimento prevista dall’art 2043 cc.

In maniera difforme a tali conclusioni, una parte della dottrina considera, invece, la natura della responsabilità della PA, di tipo contrattuale. Per sostenere ciò, gli esponenti di questa parte della dottrina considerano che, nel momento in cui privato e PA responsabile si incontrano nel perimetro del procedimento amministrativo, che, per legge, dovrà concludersi con un provvedimento, nascerà inevitabilmente, per contatto sociale, un vero e proprio rapporto contrattuale, il cui mancato rispetto farà sorgere una responsabilità di tipo contrattuale.

Accogliere questa tesi, però, significa tornare a considerare l’interesse legittimo come un interesse generale alla legittimità dell’azione pubblica, snaturando l’essenza stessa di questa particolare posizione giuridica riconosciuta dall’ordinamento.

C’è anche chi considera la responsabilità della PA come un tipo di responsabilità precontrattuale. Questa tesi, però, inevitabilmente si proietta alla questione legata alla natura della stessa responsabilità precontrattuale, la quale, qualora si decidesse di stimarla come contrattuale, inevitabilmente si porterà dietro tutti gli stessi problemi in precedenza individuati.

Alla luce di quanto esposto, il legislatore accoglie la tesi della natura extracontrattuale della responsabilità attribuita alla PA, proponendo un’azione di condanna, prevista dall’art 30 dlgs 104/2010, che propone circa la stessa struttura di quella contenuta dall’art 2043 cc.

Per individuare bene i casi in cui sussiste questo diritto al risarcimento per lesione degli interessi legittimi, le Sezioni Unite sostengono, come previsto nella sentenza 500/1999, che non basta, dal punto di vista oggettivo, limitarsi a individuare la sola illegittimità dell’atto amministrativo, posto in essere dalla PA responsabile; si partirà certamente dall’analisi da questo presupposto, ma poi bisogna soffermarsi anche su un ulteriore aspetto: quello della spettanza del bene della vita.

L’interprete, cioè, dovrà dimostrare che il privato che ha esercitato l’azione di risarcimento sia effettivamente meritevole di ottenere quello specifico bene della vita al quale protende.

Le Sezioni Unite, però, sostenevano che tale analisi alla spettanza del bene della vita fosse proponibile solo nel caso di lesione di interessi pretensivi. Qualora, invece, la PA si dimostrasse responsabile per aver leso uno specifico interesse legittimo oppositivo, l’analisi finalizzata a dimostrare la sussistenza della spettanza del bene non è necessaria, in quanto la spettanza stessa è già in sé dimostrata.

Si riteneva, cioè, che quando il privato fosse titolare di un interesse legittimo oppositivo, lo stesso ha tutto l’interesse affinché la pubblica amministrazione non agisca, privandolo di un bene della vita che già detiene.

In questo caso, dunque, è superfluo dimostrare la spettanza di un bene che già prima dell’azione amministrativa era nella disponibilità del privato leso: sarà sufficiente dimostrare l’illegittimità dell’intervento della PA, attraverso la quale la stessa ha privato il cittadino del bene in questione.

Da queste conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite nel 1999, però, dottrina e giurisprudenza prendono le mosse proponendo delle critiche che si riveleranno costruttive per aprire le porte, anche nell’ambito della lesione degli interessi legittimi oppositivi, all’analisi in concreto del requisito oggettivo della spettanza del bene della vita.

Si inizia a considerare il fatto che qualora l’illegittimità dell’intervento della PA sia, in realtà, caratterizzato da soli vizi di natura formale, non si potrebbe considerare automaticamente sussistente il requisito della spettanza del bene della vita. In questo caso, infatti, il vizio formale non potrà cambiare la genuinità dell’intervento amministrativo che, sotto il punto di vista sostanziale e, quindi, riguardo a circostanze esterne concrete, giustificano l’azione della PA, la quale semplicemente, pur agendo nel giusto, non ha adottato le modalità previste dalla legge.

Da quanto esposto, s’inizia a considerare necessaria l’analisi della spettanza del bene della vita anche nei casi di lesione degli interessi legittimi oppositivi.

Nei casi in cui la PA, con la sua azione illegittima, abbia leso interessi pretensivi, è certamente prevista l’analisi della spettanza del bene della vita.

Da sempre, infatti, qualora la PA leda un interesse pretensivo, si è ritenuto necessario attuare l’analisi della spettanza del bene della vita, perché, in questo caso, a differenza di quanto avviene negli interessi oppositivi, il privato interessato non gode già del bene, ma spera in un intervento dell’amministrazione, la quale, attraverso un agognato atto, possa concedergli lo stesso bene della vita.

In questo caso, dunque, la lesione dell’interesse legittimo pretensivo si concreta in un atto illegittimo di diniego della PA, attraverso il quale la stessa priva l’interessato di qualsiasi possibilità di ottenere il bene della vita.

Alla luce di ciò, sarà necessario, per concedere il risarcimento al privato, dimostrare che quest’ultimo era davvero meritevole a ottenere il bene al quale protende.

Il problema che si pone riguardo all’analisi della spettanza del bene della vita, però, è legato anche al tipo di potere amministrativo che la legge concede alla pubblica amministrazione: risultati e problemi diversi saranno raggiunti e proposti nei casi in cui la PA agisce esercitando un potere vincolante oppure discrezionale.

Nel caso in cui la legge individua il perimetro esatto d’azione della PA, senza attribuire alla stessa alcun tipo di libertà decisionale, la PA sarà tenuta ad agire in maniera strettamente vincolata e, in questo caso, l’analisi che il giudice eseguirà circa la sussistenza della spettanza del bene della vita, non si pone in conflitto con il generale principio costituzionale della separazione dei poteri.

L’interprete, infatti, si limiterà a valutare se la legge è stata rispettata e, già attraverso ciò, potrà considerare, anche se il privato, richiedente il risarcimento, fosse tenuto in concreto a ricevere un diverso atto amministrativo, attraverso il quale avrebbe potuto ricevere il tanto agognato bene della vita.

Tale operazione di prognosi postuma, invece, non è tanto conforme al principio della separazione dei poteri qualora la PA agisca in maniera discrezionale: in questo caso l’interprete, nell’analizzare la spettanza del bene della vita in capo al privato, inevitabilmente si trova a sindacalizzare su scelte che l’amministrazione compie liberamente.

Per cercare di ovviare a questo problema di conflitto con il principio di separazione dei poteri, sono state messe in gioco varie tesi attraverso le quali si cerca di rendere possibile al giudice di eseguire l’analisi di spettanza del bene della vita, senza che incappi in questioni di incostituzionalità.

Una prima tesi, infatti, sostiene che l’interprete potrà compiere l’analisi postuma dell’azione amministrativa solo a fini risarcitori. In questo caso la PA potrà presentare ulteriori osservazioni attraverso cui cercherà di avvalorare e giustificare maggiormente le proprie scelte. Il contraddittorio, però, non potrà mettere in discussione quanto già è stato fatto dalla PA, ma, come si è detto, servirà semplicemente per dimostrare la legittimità del privato a ricevere un risarcimento per il danno subito.

Secondo quanto esposto da un’altra tesi, invece, il giudice, nel caso in cui la PA abbia agito in maniera discrezionale, non può procedere attraverso una prognosi postuma, attraverso cui si dimostri la sussistenza della spettanza del bene della vita e, quindi, non si potrà concedere in alcun modo il risarcimento al cittadino leso. L’unica possibilità per quest’ultimo di ottenere ristoro, sempre secondo i sostenitori della tesi in analisi, è prevista nel solo caso in cui la PA ritorni sui propri passi e modifichi la situazione in concreto, tramutandola da sfavorevole, in favorevole per il cittadino leso.

In questo caso, dunque, il privato che dapprima si vede privato del bene della vita attraverso un provvedimento di diniego emanato da parte della PA, che ha agito in maniera discrezionale, potrà agire in giudizio richiedendo il risarcimento del danno solo qualora la stessa PA rimuova l’atto di diniego, sostituendolo, magari, con ulteriore atto attraverso il quale conceda al privato stesso la possibilità di ricevere il bene della vita.

Questa teoria appena esposta, però, non sembrerebbe praticamente vantaggiosa, perché il privato interessato si vedrebbe condizionata la possibilità di ottenere un risarcimento da un evento futuro e incerto; inoltre la PA, sapendo che corre il rischio di essere sottoposta a un’azione di risarcimento, sarà certamente incentivata a non agire e lasciare tutto allo stato dei fatti.

A questo punto, sembra più valida la tesi secondo cui il privato leso potrà essere legittimato a ottenere un risarcimento qualora dimostri, grazie all’intervento illegittimo della PA, di aver perso grandi possibilità di ottenere il bene della vita al quale protendeva.

La prognosi postuma del giudice, dunque, dovrà soffermarsi sulla percentuale di chance che il privato leso aveva di ottenere il bene in questione; qualora la percentuale sia superiore al 50%, l’interprete potrà riconoscere il diritto del privato a ottenere il risarcimento del danno.

Tra i sostenitori di quest’ultima teoria, c’è chi, poi, considera che il vero oggetto del risarcimento rivendicato dal titolare dell’interesse leso sia proprio il venir meno della chance stessa, anche se questa sia legata a una percentuale bassa.

Alla luce di ciò, dunque, il giudice potrà riconoscere il risarcimento al privato qualora sia dimostrabile la sola perdita di chance in sé, che diverrebbe, quindi, il vero oggetto dell’analisi prognostica dell’interprete.

Per fare in modo che il giudice non distolga completamente l’attenzione sul bene della vita e che non concedi un risarcimento della perdita di chance, piuttosto che della perdita del bene della vita, forse sarebbe più appropriato abbracciare la prima tesi.

Considerando tutto quanto finora esposto, qualora la PA, agendo in maniera discrezionale, lede un interesse legittimo pretensivo, il giudice, per dimostrare la spettanza della vita in capo all’interessato, senza correre il rischio di entrare in conflitto con il principio generale di separazione dei poteri, potrà dimostrare la sussistenza della stessa qualora riesca a dimostrare che, con un’azione diversa della PA, certamente legittima, il privato avrebbe avuto alte probabilità di ricevere quel bene.

La spettanza del bene nel caso di lesione dell’interesse legittimo pretensivo è, invece, presunta in quei casi in cui la PA abbia emanato il provvedimento amministrativo favorevole dopo la scadenza del termine previsto dalla legge, entro il quale l’amministrazione era obbligata ad agire.

Qualora la PA, invece, dopo la scadenza del termine, abbia emanato un provvedimento di diniego, oppure non abbia mai esercitato il potere amministrativo, perdurando nell’inadempimento, dottrina e giurisprudenza si sono poste il problema sul se sia necessario dimostrare la spettanza del bene, ai fini della richiesta di risarcimento dell’interessato, oppure non sia necessario, potendo, il privato, ottenere il risarcimento del danno per il semplice e solo ritardo dell’amministrazione.

La questione sembra essere risolta grazie a un intervento del legislatore, che, con la L 69/2009, ha introdotto nella L 241/1990 l’art 2 bis, attraverso cui si riconosce al cittadino, che subisce un danno ingiusto per il mero ritardo dell’amministrazione, la possibilità di richiedere il risarcimento qualora rivendichi semplicemente l’inadempimento o il ritardo della PA, la quale, per legge, era tenuta ad agire in un termine non rispettato.

Alla luce di ciò, sembra che il legislatore abbia abbracciato la tesi secondo cui il risarcimento può essere richiesto dal cittadino semplicemente qualora dimostri di essere stato danneggiato da un mero ritardo o dal mancato esercizio del potere amministrativo della PA. Il risarcimento, dunque, si concentrerà non tanto sulla spettanza del bene, ma sull’inadempimento o sul semplice ritardo dell’amministrazione, obbligata a emanare un provvedimento, entro un termine stabilito dalla legge.

Nonostante la novella normativa, la questione sulla dimostrazione della spettanza o meno del bene della vita non trova conclusione: all’indomani dell’introduzione dell’art 2 bis nella L 241/1990, infatti, parte della giurisprudenza sottolinea comunque l’esigenza, ai fini del risarcimento, di concentrarsi sull’analisi del giudice sulla spettanza del bene della vita.

Ciò in quanto, la seconda parte del comma 3, art 30 cpa, in materia di azione di condanna, stabilisce che il giudice, nel determinare il risarcimento, dovrà considerare tutte le circostanze di fatto e valutare anche i comportamenti delle parti in gioco.

Alla luce di ciò, la spettanza del bene della vita diventa necessariamente analizzabile poiché richiamato, in maniera implicita, proprio dal riferimento delle circostanze di fatto, valutate dal giudice, che impone la norma in analisi, sia nei casi in cui la PA abbia esercitato il potere amministrativo, sia nel caso  in cui non abbia agito, oppure abbia agito in ritardo.

Quanto osservato da questa parte della giurisprudenza, però, non può essere del tutto accolto, poiché la norma presa in considerazione non è riferibile al momento della dimostrazione della sussistenza del risarcimento a favore dell’interessato leso, quanto piuttosto a un momento successivo: quello, cioè, della quantificazione della somma del risarcimento, il quale sia già stato provato dal giudice.

Le analisi che il giudice dovrà compiere per accertare il risarcimento in capo all’interessato leso, non possono, però, limitarsi a quest’aspetto oggettivo: l’interprete, infatti, dovrà impegnarsi a valutare anche la colpevolezza della PA e, dunque, l’elemento soggettivo.

In realtà, dottrina e giurisprudenza ritenevano inizialmente non necessario individuare l’elemento soggettivo in questione, in quanto, attraverso la dimostrazione della illegittimità dell’azione della PA, si poteva concludere con la presunzione della colpevolezza della pubblica amministrazione.

In seguito, i giudici delle Sezioni Unite, attraverso la sentenza 500/1999, giunsero alla conclusione secondo cui l’elemento soggettivo che permetteva il sorgere della responsabilità della PA si ritiene sussistente allorquando si dimostri che l’amministrazione abbia agito in contrasto alle regole di correttezza, imparzialità e buona amministrazione previste dalla Costituzione.

Tale osservazione, però, non fu esente da critiche: si osservò, infatti, che lo stesso mancato rispetto di queste regole costituzionalmente garantite non porta a qualcosa di diverso dalla stessa illegittimità, per eccesso di potere.

Nella questione subentra anche la Corte di Giustizia Europea, che, attraverso alcune pronunce, riconosce la sussistenza del requisito soggettivo qualora la PA abbia agito in contrasto a una norma europea o dell’ordinamento interno, quando la violazione sia particolarmente grave e quando la violazione e il danno siano legati da un nesso causale.

Queste conclusioni portano a pensare che alla PA non potrà essere imputata una colpa lieve, ma solo grave. Inevitabile è, a questo punto, il richiamo all’art 2236 cc, secondo cui i professionisti, proprio per la natura della propria professione, sono esenti da colpa lieve.

Eppure non è comprensibile in che misura quella amministrativa possa essere equiparata a un’attività professionale.

Non sono impossibili, inoltre, i casi in cui pur essendo grave la violazione della norma, al soggetto agente sia imputata una colpa lieve, e viceversa sono altrettanto probabili quei casi in cui, pur essendo la violazione non particolarmente importante, comunque al responsabile è imputata una colpa grave.

Alla luce di queste e altre osservazioni critiche, la giurisprudenza amministrativa interna raggiunge importanti conclusioni: la colpevolezza sarà correttamente imputata alla PA qualora si dimostri che la stessa abbia violato norme particolarmente chiare, che non permettono di lasciar immaginare un comportamento diverso da quello esposto.

Nell’ambito dell’elemento soggettivo, sono state poste alcune questioni nei casi in cui il funzionario o il dipendente in generale della PA abbia agito con dolo, con l’intenzione, cioè, di recare a terzi un danno.

A tal proposito, parte della giurisprudenza ha ritenuto opportuno considerare responsabile solamente il dipendente che abbia agito con esclusivo interesse criminale, senza sollevare alcuna responsabilità in capo alla PA.

Questa conclusione, però, non sembra essere in assonanza con l’art 28 Cost, secondo cui, qualora sia attribuita una responsabilità civile, penale o amministrativa in capo ai dipendenti della PA, quella stessa responsabilità si estende anche all’amministrazione.

A questo punto non si capisce in che modo i sostenitori della tesi in analisi riescano a impedire che la responsabilità dei funzionari si estenda anche alla PA, alla quale sono legati con un rapporto di immedesimazione organica.

Alla luce di ciò, sembrerebbe più corretta la tesi di chi sostiene che la responsabilità della PA sia necessariamente sollevata qualora il dipendente amministrativo, che si sia mosso con dolo, abbia agito servendosi, in maniera anche occasionale, dei requisiti o dei poteri che la sua qualifica gli attribuisce.

Dopo aver accertato il risarcimento a favore dell’interessato leso, il giudice si dovrà impegnare nella determinazione della somma di denaro, che la PA sarà tenuta a versare a favore del danneggiato a titolo di risarcimento.

In questo caso il risarcimento sarà per equivalente, ma ciò non toglie che la legge, in specifiche circostanze, possa garantire al privato anche un risarcimento in forma specifica.

La parte finale del comma 2, art 30 cpa, infatti, riconosce che, qualora siano previsti i casi individuati dall’art 2058 cc, l’interessato leso potrà chiedere il risarcimento in forma specifica.

Il rinvio alla norma civilistica permette, dunque, l’esercizio di questo tipo di risarcimento solo qualora sia materialmente possibile, in tutto o in parte, il ripristino della situazione concreta, in maniera favorevole al danneggiato.

Nell’ambito amministrativo, però, la giurisprudenza, oltre al requisito della possibilità concreta di agire per il ripristino, richiede un altro aspetto importante: stabilisce che, per esercitare un risarcimento in forma specifica, sia necessario anche, che la PA debba agire in maniera vincolante.

Qualora, invece, il risarcimento richiesto sia per equivalente, il giudice, come accennato in precedenza, dopo aver certificato i requisiti, soggettivi e oggettivi, che rendono applicabile l’azione risarcitoria, dovrà determinare la somma di denaro, dovuta dalla PA, in favore del danneggiato, a titolo di risarcimento.

La somma del risarcimento è quantificata attraverso il richiamo e l’applicazione di alcune norme del codice civile. Innanzitutto l’art 1223 cc, che permette al giudice di determinare il risarcimento facendo riferimento al quantum effettivamente perso dal danneggiato, oppure dalla somma di denaro che in concreto lo stesso non ha potuto percepire a causa del danno subìto, oppure, ancora, dalla somma di entrambe le voci di danno emergente e lucro cessante.

Qualora il giudice, però, non riesca a determinare in maniera precisa il quantum oggetto del risarcimento attraverso il riferimento al procedimento previsto dall’art 1223 cc in analisi, lo stesso potrà quantificare la somma attraverso una propria valutazione equitativa, elaborata prendendo in riferimento le varie circostanze di fatto del caso concreto. Tale valutazione equitativa è prevista dall’art 1226 cc.

Per determinare la somma del risarcimento, gioca un ruolo importante anche l’art 1227 cc, secondo cui il quantum sarà più o meno ridotto qualora il creditore-danneggiato abbia causato in maniera più o meno determinante la realizzazione del danno ingiusto, che lo stesso interessato leso ha subìto.

Il secondo comma della norma in analisi, invece, riconosce come non dovuto il risarcimento, qualora il danneggiato abbia potuto evitare il danno subìto se avesse usato un’ordinaria diligenza.

In particolare, il secondo comma dell’art 1227 cc appena esposto è implicitamente richiamato dalla seconda parte del secondo comma dell’art 30 cpa, la quale, anche in questo caso, priva il danneggiato del risarcimento qualora lo stesso si sia dimostrato non rispettoso degli obblighi di ordinaria diligenza.

Una situazione, in particolare, è ricollegata proprio alla previsione normativa in analisi: quella della pregiudiziale amministrativa.

La pregiudiziale amministrativa consiste nel caso specifico in cui il privato, leso del proprio interesse legittimo, eserciti direttamente un’azione di condanna ex art 30 cpa, per ottenere il risarcimento del danno subìto, senza agire dapprima in giudizio per chiedere l’annullamento di quell’atto illegittimo, causa effettiva della lesione del proprio interesse legittimo.

Parte della giurisprudenza ha ritenuto che, in questo caso, l’azione finalizzata al risarcimento non può essere presentata dal cittadino; in questo caso, l’azione di annullamento è considerata come requisito essenziale, proprio per permettere all’interessato leso di agire in giudizio per ottenere ristoro dal danno subìto. L’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo, dunque, è condizione necessaria per permettere di agire in via processuale attraverso il risarcimento del danno ingiusto.

Questa tesi, però, è stata smentita da chi considera la pregiudiziale amministrativa elemento che il giudice prende come riferimento per la determinazione della somma che la PA concede al danneggiato a titolo di risarcimento.

Il GA, infatti, qualora riceva una richiesta di risarcimento da un privato, il quale non abbia, in precedenza, presentato ricorso per l’annullamento dell’atto illegittimo, dovrà prendere in considerazione questa mancanza dell’interessato leso.

Nel caso in cui l’interprete, attraverso un giudizio in concreto, capisce che il danneggiato, con l’eliminazione dell’atto amministrativo illegittimo, avrebbe potuto evitare il danno, oppure almeno ridurlo, rispettivamente non riconoscerà alcun risarcimento al danneggiato, oppure diminuirà il quantitativo della somma di denaro che la PA concederà al danneggiato.

Questa conclusione è stata raggiunta attraverso anche importanti pronunce del Consiglio di Stato, il quale guarda l’esercizio dell’azione di annullamento da parte del danneggiato come il risultato di un vero e proprio obbligo di protezione, che sorge dalle più ampie regole di buona feda e correttezza, dettate, a loro volta, dal principio generale di solidarietà, ex art 2 Cost.


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