La violenza privata: tra aspetti teorici ed applicazioni giurisprudenziali

La violenza privata: tra aspetti teorici ed applicazioni giurisprudenziali

Sommario: 1. Il bene giuridico tutelato dalla fattispecie – 2. La condotta penalmente rilevante – 3. L’elemento soggettivo del reato, la consumazione, il tentativo e le circostanze aggravanti – 4. La violenza privata nell’ambito della conflittualità sindacale – 5. La violenza privata e il fenomeno del mobbing – 6. La linea di demarcazione tra violenza privata ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni

 

1. Il bene giuridico tutelato dalla fattispecie

Il bene giuridico protetto dalla fattispecie di cui all’art. 610 c.p. è la libertà morale intesa sotto il duplice profilo della libertà di autodeterminazione secondo i propri motivi e della libertà di azione sulla base di scelte effettuate autonomamente dal soggetto passivo. Parte della dottrina, infatti, ha sostenuto che “la libertà morale attiene, oltre che alla libertà di autodeterminazione, anche alla “capacità di intendere e volere”, incriminandosi ogni comportamento idoneo a produrre una limitazione di tale capacità; si tutela, infine, la stessa tranquillità psichica contro ogni turbativa determinata, più semplicemente, da attività di disturbo o di molestia.”[1] Detto altrimenti, la norma intende proteggere il processo di formazione e di attuazione della libertà morale del soggetto passivo nei confronti di condotte aggressive che ne possono condizionare il momento genetico e quello esecutivo.[2] “Si dibatte, altresì, se tale bene giuridico trovi una tutela costituzionale autonoma e diretta oppure meramente riflessa o indiretta. La dottrina prevalente conduce per la prima tesi, sostenendo che l’art. 13 Cost., laddove parla di “libertà personale” tutelerebbe, autonomamente e direttamente, non solo la libertà fisica ma anche quella morale, posto che quest’ultima rappresenta la “libertà presupposto” di tutte le altre forme di libertà.”[3]

Il delitto di violenza privata, pur se pensata come fattispecie posta a protezione della libertà morale, in realtà, finisce per assolvere una funzione generica e sussidiaria, operando soltanto quando il fatto non costituisca altra ipotesi di reato tra quelle previste nel medesimo titolo ovvero serve ad evitare che rimangano prive di tutela altre forme di aggressione alla libertà di autodeterminazione. Pertanto, il reato non si configura tutte le volte in cui la violenza o la minaccia sono elemento costitutivo o circostanza aggravante di altra fattispecie criminosa, rimanendo assorbito secondo i principi generali.[4]

2. La condotta penalmente rilevante

Trattasi di un reato comune, potendo essere commesso da chiunque. Soggetto passivo del delitto in esame, invece, può essere soltanto la persona fisica in grado di avvertire la coercizione derivante dalla condotta dell’agente, non anche le persone giuridiche o gli enti collettivi: in caso di attività diretta a condizionarne il loro funzionamento si farà ricorso ad altre forme di tutela.  Qualora la condotta di violenza o minaccia interessi un soggetto diverso da quello coartato, il primo sarà vittima dei reati di percosse e di minacce ma non della fattispecie in discorso.[5] Pertanto, soggetto passivo del reato e soggetto passivo della condotta (ossia della violenza e della minaccia) possono anche non coincidere, in quanto la volontà potrebbe essere coartata anche minacciando un male o utilizzando violenza nei confronti di una terza persona.

La condotta criminosa consiste nell’utilizzare violenza o minaccia per costringere altri a fare, tollerare od omettere qualcosa. Dunque, nella struttura della fattispecie rivestono particolare importanza le modalità della condotta, vale a dire la violenza e la minaccia.

Numerosi dubbi interpretativi, sia in dottrina che nella prassi applicativa, ha sollevato la nozione di violenza All’apparenza un concetto semplice, in realtà è molto controverso e di difficile determinazione a causa della sua vaghezza e dell’impossibilità di fare riferimento ad un univoco significato nel linguaggio comune, derivante anche dalla sua variabilità storica e dal fatto che il passare del tempo porta a non considerare violenze determinate condotte. Secondo la dottrina maggioritaria[6] e la giurisprudenza prevalente[7] la violenza non consiste soltanto nella violenza propria, ossia nell’impiego di energia fisica (la cosiddetta vis corporis corpori data) nei confronti di una persona, ma si identifica anche nella violenza impropria, vale a dire in qualunque mezzo idoneo a privare coattivamente il soggetto della libertà di determinazione e azione, costringendolo a fare, tollerare od omettere qualcosa contro la propria volontà.[8] Tale ricostruzione trova sostegno proprio nel diritto positivo: innanzitutto nell’art. 392 comma 2 c.p. in cui è stabilito che “agli effetti della legge penale, si ha violenza sulle cose allorché la cosa viene danneggiata o trasformata o ne è mutata la destinazione”: dunque, il mutamento della destinazione non implica affatto un’estrinsecazione di forza fisica. “Ma c’è di più: la qualificazione in termini di violenza di comportamenti insidiosi quali la narcosi, l’ipnosi ecc., si trova proprio nel codice penale che all’art. 613 (stato di incapacità procurato mediante violenza) li etichetta indubbiamente come violenza. E stesse indicazioni trae l’interprete dalla previsione dell’aggravamento di pena previsto per i delitti di rapina e di estorsione, rispettivamente dagli artt. 628 e 629, “se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire” (art. 628, comma 3, n. 2).”[9] La violenza può manifestarsi anche mediante l’utilizzo di mezzi insidiosi quali la narcosi, l’ipnosi, i lacrimogeni che pongono la vittima in uno stato di incapacità di volere e di agire. Secondo la giurisprudenza[10], nella fattispecie di violenza privata sono incluse anche le condotte che si estrinsecano in un’aggressione a terze persone legate alla vittima da vincoli di parentela o di solidarietà, tali da condizionarne la libertà di autodeterminazione e anche qualora manchi un contatto tra vittima e soggetto agente in quanto “ai fini della configurabilità del reato (…), il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione.”[11]

Secondo i sostenitori della nozione ampia di violenza, quest’ultima può estrinsecarsi anche in una semplice omissione purché sussista un obbligo giuridico di attivarsi in capo all’agente (è il caso, ad esempio, di chi fa mancare il cibo a chi non è in grado di procurarselo da solo per indurlo ad un dato comportamento). Secondo la Cassazione[12], “laddove non sussiste invece alcun obbligo di attivarsi, la condotta meramente omissiva tenuta in relazione ad una richiesta altrui, anche quando la stessa si risolva in una forma passiva di mancata cooperazione al conseguimento del risultato voluto dal richiedente” si colloca fuori dall’ambito applicativo della fattispecie in discorso.

Secondo i sostenitori della tesi restrittiva, una concezione così estesa di violenza finirebbe con il trasformare in modo surrettizio il delitto di violenza privata, la cui condotta è stata tipizzata nelle modalità penalmente rilevanti, in un reato a forma libera. Secondo una parte della dottrina, si tratta di un mezzo anomalo, non socialmente adeguato di risoluzione dei conflitti intersoggettivi, mentre altra parte della dottrina ritiene che sono penalmente rilevanti soltanto le forme di aggressione fisica ai danni di beni personali, valorizzando in tal modo la collocazione sistematica di tale fattispecie.

La seconda modalità della condotta è costituita dalla minaccia, ossia dalla prospettazione di un male ingiusto e futuro quale alternativa per la mancata sottoposizione alla volontà del soggetto agente e la cui verificazione dipende dallo stesso (se il male minacciato invece, non dipende dalla volontà dell’agente, si è in presenza di un qualcosa diverso dalla minaccia). La minaccia, che costituisce una condotta a forma libera, potendo essere espressa, tacita, implicita, esplicita, purché idonea a coartare l’altrui volontà, consiste nella lesione o nella messa in pericolo di beni giuridici appartenenti al soggetto passivo oppure a terzi con i quali esistono particolari rapporti (di parentela o affetto). La minaccia può essere indirizzata anche a persona diversa dal soggetto coartato, purché in grado di produrre l’effetto coercitivo sulla volontà di quest’ultimo. Secondo la giurisprudenza[13] la minaccia deve porre il soggetto davanti alla scelta se aderire all’imposizione dell’agente oppure sottostare al male minacciato, assumendo rilevanza “qualsiasi comportamento o atteggiamento idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto al fine di ottenere che (…) il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa.”

Per effetto della violenza o della minaccia il soggetto passivo del reato deve essere costretto a fare, tollerare od omettere qualcosa: tra le modalità della condotta e l’evento deve sussistere un nesso di causalità nel senso che il comportamento della vittima deve essere una conseguenza diretta della violenza e della minaccia adoperate dall’agente. Mentre la coartazione in senso assoluto comporta l’annullamento della capacità di autodeterminazione: “il soggetto passivo non è più in grado di compiere un’azione definibile in termini di autonomia neppure relativa, perché si trasforma realmente in strumento dell’altrui volontà e determinazione (…) il soggetto non agit, sed agitur. (…) La coartazione relativa appare connotata da un vizio della volontà (…): in questa situazione il soggetto passivo si ritrova a compiere un’azione che non è quella che avrebbe compiuto senza l’azione della violenza o della minaccia.”[14]

L’oggetto della costrizione consiste in un fare, tollerare od omettere qualcosa. Mentre il “fare” presuppone un comportamento attivo, il “tollerare” consiste nell’accettare la condotta dell’agente[15] e l’”omettere” nel non compiere o nel ritardare una condotta che si sarebbe realizzata in assenza della condotta di violenza e di minaccia. Si tratta di condotte caratterizzate dal requisito della determinatezza, come si evince dall’indicazione “qualche cosa”.

3. L’elemento soggettivo del reato, la consumazione, il tentativo e le circostanze aggravanti

Il delitto è punito a titolo di dolo generico e consiste nella coscienza e nella volontà di costringere taluno a fare, tollerare od omettere qualcosa mediante l’uso di violenza o minaccia. E’ irrilevante il fine che si propone l’agente.

Si consuma nel momento e nel luogo in cui la vittima è costretta a fare, tollerare od omettere qualche cosa. Trattasi di reato istantaneo, per cui è irrilevante che la condotta criminosa si protragga nel tempo per un periodo più o meno apprezzabile.

Il tentativo appare configurabile sia nella forma del tentativo compiuto, quando alla condotta violenta o minacciosa non segua l’evento coercitivo, sia nella forma del tentativo incompiuto, nel caso in cui la condotta non venga portata a compimento.

Il reato è aggravato se ricorrono le circostanze di cui all’art. 339 c.p., ovvero se la violenza o la minaccia sono commesse con armi, da persona travisata o da più persone riunite, con scritto anonimo o in modo simbolico o valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o supposte.

A fronte delle modifiche apportate con la Riforma Cartabia, attuata con d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha introdotto un ultimo comma nel testo dell’art. 610 c.p., la sussistenza delle predette aggravanti comporta la procedibilità d’ufficio del reato, che diviene invece procedibile a querela di parte nelle restanti ipotesi, purché la persona offesa non risulti “incapace, per età o per infermità.” Altre circostanze aggravanti sono previste da leggi speciali, ossia quando il fatto è commesso da una persona sottoposta ad una misura di prevenzione (art. 6 della Legge n. 203 del 1991) e se il fatto è commesso in danno di persona internazionalmente protetta (art. 1 della Legge n. 107 del 1985).

4. La violenza privata nell’ambito della conflittualità sindacale

Nell’esperienza applicativa del delitto di violenza privata, particolare rilevanza ha rivestito la conflittualità sindacale in occasione degli scioperi nel corso dei quali si verificano situazioni astrattamente riconducibili all’ambito di applicazione della fattispecie. Sia la dottrina che la giurisprudenza si sono interrogate sulla rilevanza penale dei comportamenti di picchettaggio, ossia di quei comportamenti di lavoratori in sciopero che impediscono la partecipazione al lavoro dei colleghi dissenzienti. “Viene qui in rilievo l’ampiezza del diritto di sciopero costituzionalmente garantito e si tratta di accertare se esso ricomprenda (…) anche il diritto di impedire il diritto degli altri di non scioperare e se, di conseguenza, siano punibili i comportamenti ostruzionistici.”[16] Secondo la giurisprudenza di legittimità[17] sono da considerarsi violenza privata tutti i comportamenti che ledono diritti ed interessi di altri soggetti anch’ essi di rilievo costituzionale. Di contro, la giurisprudenza di merito[18] tende ad allargare l’ambito di applicazione del diritto di sciopero fino a ricomprendervi anche le condotte cosiddette sussidiarie e necessarie alla riuscita dello sciopero.

Con la sentenza dell’ 8 luglio 2019, il Tribunale di Brescia si è pronunciato in relazione ad alcuni episodi di “picchettaggio” di carattere sindacale contestati ad alcuni lavoratori scioperanti e ad altri partecipanti a manifestazioni a titolo di violenza privata.

In proposito, il Tribunale richiama la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che pacificamente esclude la sussistenza del delitto in questione nei casi di mera resistenza passiva, quale l’inerzia, la mancata collaborazione con gli operanti e l’opposizione che non si estrinsechi in forme neanche minime di violenza o intimidazione. Viene messo in luce che, secondo il concorde orientamento della giurisprudenza giuslavorista e penalistica, la tutela riconosciuta dall’art. 40 della Costituzione al diritto di sciopero si estende a tutte le azioni che, “collaterali” rispetto all’astensione collettiva dei lavoratori, siano strettamente connesse a quest’ultima e siano utili in vista del perseguimento degli scopi degli scioperanti. In questa categoria rientrerebbero azioni come l’affissione di manifesti, la formazione di cortei interni all’azienda, i c.d. picchettaggi e altre attività volte a sollecitare la partecipazione allo sciopero avendo queste carattere ancillare e funzionale all’esercizio del diritto di sciopero dei lavoratori. Tutela che copre anche i casi in cui il diritto di sciopero sia esercitato “a sorpresa”, poiché la mancanza di preavviso appare connaturata all’esercizio di tale diritto.

La corretta delimitazione del concetto di violenza penalmente rilevante risulta da tempo oggetto di contrasti interpretativi in dottrina e in giurisprudenza. Come messo in luce dal Tribunale di Brescia, possono in merito rinvenirsi due principali orientamenti confliggenti: secondo un primo indirizzo, la nozione penalistica di violenza rimanderebbe necessariamente a una vis corporis corpori data, ossia a un’esplicazione di energia fisica rivolta verso persone o cose; un secondo orientamento, invece, rinuncia a ricercare una nozione autonoma di violenza valida per tutta la parte speciale del diritto penale e interpreta tale nozione all’interno del delitto di cui all’art. 610 c.p. in modo da ricomprendere ogni condotta capace di produrre l’effetto costrittivo richiesto dalla norma.

A parere del giudicante, tuttavia, nessuno di questi due orientamenti può dirsi pienamente soddisfacente. Invero, mentre il primo orientamento sarebbe eccessivamente formalistico, assegnando rilevanza al solo profilo della forza fisica espletata dall’agente, il secondo avrebbe il  vizio di estendere il campo applicativo del delitto di violenza privata trasformando il reato in questione da fattispecie a forma vincolata in fattispecie a forma libera. Piuttosto, il Tribunale mette in luce come lo stesso dato normativo lasci intendere come la nozione di violenza rilevante nel sistema penale non possa prescindere dal considerare gli effetti prodotti da tale condotta dal soggetto destinatario; in relazione al concetto di violenza contro la persona, dunque, dovrà essere attribuita rilevanza non tanto all’energia fisica esercitata sul soggetto, quanto al verificarsi di un’intromissione nell’altrui sfera fisica o psichica, mediante manomissione o mera ingerenza da parte dell’agente.

Secondo il Tribunale, la nozione di violenza appare idonea a ricomprendere anche quelle forme di violenza impropria che prescindono da un’esplicazione di vis materiale sulla persona, ovverosia quelle condotte capaci di incidere sulla capacità di intendere e di volere dell’individuo in assenza di contatto fisico.

Pertanto, l’ambito di applicazione del delitto di violenza privata deve essere esteso a quei soli casi in cui l’effetto di coazione sia prodotto dall’utilizzo di minaccia ovvero di violenza. Importerebbero invece un’illegittima dilatazione applicativa della fattispecie soluzioni ermeneutiche volte ad attribuire rilevanza a “qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della propria libertà di autodeterminazione e di azione”.

5. La violenza privata e il fenomeno del mobbing

La fattispecie di violenza privata è stata invocata a tutela delle persone oggetto di mobbing sui luoghi di lavoro, vale a dire di comportamenti vessatori con carattere di sistematicità protratti nel tempo da parte di soggetti forti in posizione sovraordinata nei confronti dei soggetti deboli. “Si era creduto per molto tempo che, per porre freno a questa forma di patologia sociale fossero sufficienti i rimedi lavoristici; ma l’ampliarsi del fenomeno ha sollecitato il ricorso al diritto penale, chiamando in causa proprio la fattispecie di violenza privata.”[19] A tal proposito, secondo la Cassazione[20] è configurabile la fattispecie in esame a carico del datore di lavoro il quale costringa o tenti di costringere taluni lavoratori ad accettare una novazione del rapporto di lavoro comportante un demansionamento da impiegato ad operaio mediante minaccia di destinazione ad ambienti fatiscenti ed emarginati dal resto del contesto aziendale con la prospettiva di un futuro licenziamento.

6. La linea di demarcazione tra violenza privata ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni

Di recente la giurisprudenza[21] ha cercato di tracciare la linea di demarcazione tra le due fattispecie che puniscono condotte apparentemente simili chiarendo che “ il farsi arbitrariamente ragione consiste nel soddisfare il diritto rivendicato, suscettibile di tutela giurisdizionale, mediante il ricorso alla violenza o alla minaccia: il soggetto agente deve agire per una pretesa che corrisponda in toto a quella che l’ordinamento gli garantisce, consistendo la condotta illecita nella mera sostituzione, operata dall’agente stesso, di uno strumento di tutela pubblico (…) con uno privato. Ne consegue che non può ricorrere il delitto di cui all’art. 393 c.p., ma quello i violenza privata, allorché l’esplicazione di attività costrittiva non corrisponde al contenuto del possibile esercizio del potere giurisdizionale.”[22]

 

 

 

 

 


[1]In argomento si veda Viganò, La tutela penale della libertà individuale. L’offesa mediante violenza, Milano, 2002; Pecoraro Albani, Il concetto di violenza nel diritto penale, Milano, 1962; Pisapia, Violenza, minaccia e inganno nel diritto penale, Napoli, 1940; Zincani, voce Libertà morale (delitto contro la), in Enc. Giur., Milano, 2007, IX, p. 76.
[2]In tal senso si veda R. Garofoli, Compendio di diritto penale, Parte Speciale, ( a cura di) F. Basile, IX Edizione, Nel Diritto Editore, 2022, p. 548.
[3]Così, R. Garofoli, Compendio di diritto penale, Parte Speciale, cit., p. 548. Cfr. F. Mantovani, Delitti contro la persona, p. 382; Antolisei, Manuale, p. 141. In tal senso si veda anche Cass., 24 febbraio 1986, in Giust. Pen., 1987, II, p. 186
[4]In questo senso si veda G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte speciale, I delitti contro la persona, Quinta edizione, Zanichelli Editore, 2020, p. 266.
[5]In questo senso si veda F. Caringella – A. Salerno – A. Trinci, Manuale ragionato di diritto penale, Parte speciale, Dike Editore, 2022, p. 459.
[6]In tal senso si veda G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte speciale, cit., p. 267.
[7]Così, Cass., 5 settembre 2017, n. 40291.
[8]In tal senso si segnala in giurisprudenza Cass. Pen., Sez. V, 6 marzo 2018, n. 10133; Cass. Pen., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 18522.
[9]A riguardo si veda G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte speciale, cit., p. 267.
[10]Così, Cass., 28 febbraio 2011, n. 7592.
[11]Così, Cass., 17 gennaio 2018, n. 1913 in relazione ad un parcheggio che ostruiva l’accesso ad un fabbricato della persona offesa ed accompagnato dal rifiuto reiterato alla richiesta di quest’ ultima di liberare l’accesso; e ancora Cass. Pen., Sez. V, 23 febbraio 2017, n. 17794 con riguardo alla condotta di chi occupa un parcheggio riservato ad una “specifica” persona invalida in ragione del suo status privandolo della libertà di autodeterminazione e azione.
[12]Così, Cass., 7 aprile 2014, n. 15651.
[13]Così, Cass., 27 febbraio 2006, n. 7214.
[14]In questo senso G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte speciale, cit., pp. 269-270.
[15]Secondo la Cass. Pen., Sez. V, 1 febbraio 2021, n. 9573, è configurabile il delitto di violenza privata nel caso di minaccia rivolta ad una persona diversa dalla vittima e ad essa legata da vincoli di parentela o di affetto quando vi sia certezza che l’intimidazione possa giungere a conoscenza del destinatario.
[16] In tal senso si veda G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte speciale, cit., p. 268.
[17]Così, Cass., 27 settembre 1979, in Cass. Pen., 1982, 110; Cass., 1 giugno 1979, in Giust. Pen., 1980, II, 234.
[18]Così, Trib. Torino, 10 giugno 1981, in Riv. Giur. Lav., 1982, IV, 129.
[19]Così, G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte speciale, cit., p. 270.
[20]Così, Cass., 8 marzo 2006, in Cass. Pen., 2007, 2489.
[21]Cass. Pen., Sez. V, 6 marzo 2018, n. 10133.
[22]In tal senso si veda R. Garofoli, Compendio di diritto penale, Parte Speciale,cit., p. 552.

Sitografia
S. Bernardi, Picchettaggio e violenza privata | Sistema Penale | SP

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