La vita del detenuto dopo la condanna: il ruolo della Magistratura di Sorveglianza
Sommario: 1. Riflessioni introduttive. La condanna: fine o nuovo inizio? – 2. Breve excursus storico – 3. Il magistrato di sorveglianza – 4. Il Tribunale di Sorveglianza – 5. Conclusioni
1. Riflessioni introduttive. La condanna: fine o nuovo inizio?
“Non c’è niente di più facile che condannare un malvagio, niente è più difficile che capirlo”. Il pensiero di Fedor Dostoevskij nell’800 mai come ora risulta attuale alla luce della tanto attesa riforma del sistema penitenziario italiano, volta ad ampliare il raggio d’azione delle misure alternative in un’ottica di maggior comprensione delle esigenze del condannato e dei suoi diritti.
Ma quali sono gli organi giurisdizionali che intervengono attivamente nella vita del detenuto dopo la condanna e quali sono le loro funzioni?
Spesso nei confronti della fase post-condanna si riscontra un disinteresse generalizzato mosso da pregiudizi e preconcetti verso il mondo carcerario ed il suo funzionamento, il che induce il più delle volte ad una totale indifferenza nei confronti della materia, sia da parte della società, che degli operatori stessi del diritto. Le competenze della Magistratura di sorveglianza, infatti, sono sovente sconosciute e, talvolta, non adeguatamente considerate, trattandosi di un settore con poteri che si potrebbero definire “atipici” rispetto a quelli attribuiti agli altri organi giurisdizionali che intervengono nel processo penale. La differenza fondamentale risiede nel fatto che, mentre nella fase precedente alla condanna l’attività giurisdizionale si incentra essenzialmente sulla valutazione di quanto commesso dall’imputato, al fine di pervenire ad una pronuncia che sancisca la responsabilità dello stesso “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la Magistratura di Sorveglianza, invece, si occupa del futuro del condannato, incidendo direttamente sul suo percorso di vita durante tutto il periodo di espiazione della pena. Il compito è tutt’altro che semplice, in quanto si tratta, anzitutto, di comprendere a fondo una persona che si è estraniata dall’assetto sociale stabilmente regolato, avendo commesso fatti ritenuti riprovevoli, e accompagnarla adeguatamente nella fase di esecuzione della pena con la possibilità di modificare le modalità di espiazione della stessa via via che si manifesti un concreto recupero del reo. Ciò in conformità del principio costituzionale di rieducazione e risocializzazione a cui deve tendere la pena stessa. L’insorgere della competenza della Magistratura di sorveglianza si ricollega tipicamente al passaggio in giudicato della sentenza, momento che rappresenta la chiusura della vicenda giuridica riguardante l’imputato, che diventa “condannato”: nasce così la fase estremamente delicata, consistente nell’esecuzione della pena inflitta in sentenza.[1] Facendo un passo indietro, ai sensi dell’art. 656 c.p.p. l’esecuzione del provvedimento di condanna definitivo è promossa dal Pubblico Ministero attraverso l’emanazione, in caso di pena detentiva, del c.d. ordine di esecuzione che comporta la carcerazione del condannato. Tuttavia, se ricorrono i presupposti del co. 5 del medesimo articolo, il Pubblico Ministero è tenuto a sospendere l’esecuzione dando la possibilità al condannato di presentare entro 30 giorni istanza al Tribunale di sorveglianza volta ad ottenere la concessione di una misura alternativa alla detenzione carceraria.
Da quanto esposto, e da quanto sarà analizzato nel prosieguo, si può ben comprendere quanto il procedimento di sorveglianza incida in modo estremamente significativo sulla vita del condannato, potendo in alcuni casi anche evitare allo stesso di subire la privazione della sua libertà personale. In questa fase trova la più significativa espressione il principio sancito dall’art. 27 c. 3 della Costituzione, ai sensi del quale la ratio stessa della sanzione penale non deve fermarsi ad una mera funzione di deterrenza (funzione cd. specialpreventiva), volta a dissuadere il soggetto dalla commissione di futuri comportamenti illeciti, bensì deve essere tesa a rendere il colpevole consapevole della propria condotta in modo da ottenere un suo corretto reinserimento nella società (funzione rieducativa). La concreta attuazione del predetto principio costituzionale è garantita, inoltre, da tutti quegli istituti che sono stati introdotti nel tempo dal Legislatore, a partire dalla L. 354/1975. Sul punto è importante sottolineare come la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 rappresenti un’importante rivoluzione rispetto alla disciplina previgente, sia con riferimento all’amministrazione interna delle carceri, sia riguardo l’ampiamento delle funzioni e delle competenze del settore della Magistratura di Sorveglianza.
2. Breve excursus storico
Prima dell’intervento legislativo del 1975, al Giudice di Sorveglianza, figura istituita con il Codice di procedura penale del 1930, erano affidati solo compiti di vigilanza sull’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza, nonché alcune limitate funzioni amministrative elencate dal Regolamento degli Istituti di prevenzione e pena di cui al R.D. n.787/1931.[2] Tale sistema rispondeva alla filosofia vigente in quel determinato periodo storico, caratterizzato dall’idea che la pena dovesse considerarsi essenzialmente repressiva, nonché dalla convinzione che il modo più efficace per raggiungere un reale pentimento del condannato fosse esclusivamente l’utilizzo di strumenti quali la restrizione e la sofferenza fisica. Da ciò derivava l’impossibilità di un mutamento quantitativo o qualitativo della pena la quale doveva essere espiata dal detenuto nella sua interezza, conformemente a quanto stabilito dal Giudice della cognizione.[3]
Tale concezione è iniziata mutare quando si è riconosciuto che la reclusione in carcere dovesse essere sempre intesa quale extrema ratio, applicabile solo nei confronti di determinati autori di delitto, al fine di tutelare esigenze di difesa sociale, risultando al contrario in altri casi inutile e dannosa per la persona. Emblematico al fine di comprendere a pieno l’effettiva portata rivoluzionaria di tale intervento è l’articolo di apertura della L. 354 del 1975, ai sensi del quale “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Concetto, questo, ritenuto fondamentale da diverse Convenzioni internazionali cui il nostro Paese ha aderito nel tempo e dalla giurisdizione della CEDU (Corte Europea per i Diritti dell’Uomo). Comincia così a farsi strada una concezione maggiormente garantista nei confronti del detenuto che viene finalmente considerato come persona titolare di diritti ed aspettative. Si introduce, pertanto, la possibilità per il condannato di svolgere attività sia all’interno che all’esterno delle mura carcerarie e di ricevere un trattamento individualizzato in rapporto alle proprie condizioni, sempre al fine di reinserirlo nella società. Allo scopo sono state tipizzate le c.d. misure alternative alla detenzione, strumenti mediante i quali l’organo giurisdizionale ha la possibilità di incidere in modo significativo sulle modalità di espiazione della pena. A differenza di quanto detto con riferimento al sistema fascista, infatti, con l’entrata in vigore della nuova legge si è riconosciuta una vera e propria giurisdizionalizzazione del settore della Sorveglianza. Tale esigenza è stata attuata da un lato attraverso la sostituzione del vecchio Giudice di Sorveglianza con l’attuale figura del Magistrato di sorveglianza le cui competenze sono state notevolmente ampliate, dall’altro mediante l’istituzione del Tribunale di sorveglianza quale organo collegiale.
3. Il magistrato di sorveglianza
Il Magistrato di Sorveglianza svolge funzioni sia collegiali, quando fa parte del tribunale, che monocratiche. Queste ultime di natura sia amministrativa che giurisdizionale. Tali funzioni sono elencate nell’art. 69 dell’Ordinamento Penitenziario, che al primo comma riconosce poteri di vigilanza del Magistrato sulla regolare organizzazione degli istituti penitenziari, contemplando inoltre la possibilità di incidere concretamente sulla vita dei detenuti nel rispetto dei loro diritti, tramite l’approvazione del proposto trattamento rieducativo individuale i sensi dell’art. 13 co. 3 o.p.
Il Magistrato di sorveglianza provvede altresì alla concessione, laddove ricorrano i presupposti, di determinati benefici, la cui ratio è l’esigenza di premiare il detenuto che abbia dimostrato, attraverso un comportamento corretto e rispettoso delle regole dell’istituto carcerario, un concreto miglioramento che faccia sperare in un suo effettivo ravvedimento. I benefici penitenziari di natura premiale, concedibili dall’organo monocratico sono: i permessi premio disciplinati dall’art. 30 ter dell’Ordinamento Penitenziario, l’ammissione al lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21 o.p., nonché la liberazione anticipata sancita dall’art. 54 o.p. La decisione del Magistrato sulla fruizione o meno di tali benefici da parte del detenuto è condizionata ad una verifica circa la regolare condotta e l’effettiva partecipazione del soggetto all’opera rieducativa proposta, valutata attraverso le relazioni comportamentali aggiornate degli operatori dell’istituto penitenziario. Le competenze dianzi descritte mettono in evidenza la necessità di un rapporto diretto tra il Magistrato di Sorveglianza e la realtà carceraria; rapporto che pone al centro la persona del detenuto e vede nell’organo giurisdizionale un “aiuto” alla concreta realizzazione di occasioni che riavvicino il recluso al mondo esterno.
L’ordinamento penitenziario affida al Magistrato di Sorveglianza anche il compito di provvedere ai sensi dell’art. 35 ter sui reclami dei detenuti concernenti il rimedio risarcitorio consistente nella riduzione della pena detentiva in conseguenza della violazione dell’art. 3 della Cedu (violazione dello spazio vitale minimo).[4] Quanto alla competenza giurisdizionale di maggior rilievo, l’organo monocratico sovraintende all’esecuzione delle misure di sicurezza personali, provvedendo all’eventuale applicazione della misura disposta in sentenza in fase di cognizione, nonché al riesame periodico della pericolosità sociale del soggetto al fine di considerare un’eventuale revoca, proroga o sostituzione della misura in corso. In tale ambito il Magistrato è chiamato ad effettuare un giudizio prognostico circa la personalità e la pericolosità del reo, al fine di valutare, ai sensi dell’art. 203 c.p., la probabilità o meno che lo stesso commetta in futuro nuovi fatti di reato, alla luce delle circostanze indicate all’art. 133 c.p. La valutazione effettuata ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza disposta in sentenza, deve valorizzare gli eventuali cambiamenti positivi del soggetto, in considerazione anche del suo comportamento durante la fase di espiazione della pena, come comprovato dalle relazioni comportamentali e dall’eventuale fruizione di benefici penitenziari. Quanto al riesame di misura previamente disposta, preme ricordare che a differenza della pena, la misura di sicurezza non detentiva ha durata potenzialmente indeterminata nel massimo, essendo la stessa prorogabile per tutto il tempo in cui permanga l’attualità della pericolosità sociale in capo al condannato. Riguardo alle misure di sicurezza detentive la L. 81/2014, introdotta allo scopo di sostituire gli OPG con le REMS (ossia nuove strutture sanitarie maggiormente rispondenti ad esigenze curative dei soggetti ad esse sottoposti) ha invece posto un limite alla durata delle misure di sicurezza detentive al fine di scongiurare i cosiddetti “ergastoli bianchi” [5]. A tal fine la legge pone un limite, corrispondente alla pena edittale massima prevista per il reato commesso dal soggetto, oltre al quale non può più essere prorogata la misura di tipo detentivo (il ricovero in Casa di Cura e di Custodia e gli OPG ora Rems) [6]. Va però osservato che, con sentenza interpretativa di rigetto (n. 83/2017), la Corte costituzionale ha ritenuto che tale limite massimo valga per tutte le misure di sicurezza detentive, e non solo per quelle di natura psichiatrica (vi rientrerebbero dunque anche l’assegnazione ad una casa di lavoro o ad una colonia agricola). Tale previsione non esclude che il Magistrato, alla scadenza del termine massimo di durata della misura di sicurezza detentiva, possa applicare al soggetto, ove lo ritenga necessario, una misura di sicurezza meno afflittiva, non detentiva quale, ad esempio, la libertà vigilata.
4. Il Tribunale di Sorveglianza
L’organo collegiale è il Tribunale di Sorveglianza composto da due giudici togati (il presidente e il giudice relatore) e da due esperti in psicologia, psichiatria o criminologia. Il Collegio decide sulla richiesta di applicazione di misure alternative alla detenzione presentate con istanza dal condannato, sia che esso si trovi in stato di libertà, a seguito della sospensione dell’esecuzione, sia ristretto in istituto penitenziario. Ciò implica l’importanza fondamentale della presenza all’interno del collegio di professionisti in materie psicologiche e criminologiche, stante la loro specifica competenza nella valutazione della personalità del condannato, nonché della sussistenza o meno di attitudine a delinquere, aspetti senza dubbio rilevanti ai fini della decisione circa l’applicazione del beneficio richiesto.
Il Tribunale rappresenta, inoltre, l’organo di secondo grado competente a decidere sulle impugnazioni e sui reclami avverso i provvedimenti emessi dal Magistrato di sorveglianza. L’udienza si svolge in camera di consiglio, con la presenza necessaria del Procuratore Generale e del difensore, mentre la partecipazione del condannato è meramente facoltativa. Il condannato ha però diritto di chiedere che l’udienza sia celebrata nelle forme pubbliche. In linea con il principio del contraddittorio costituzionalmente tutelato all’art. 111, è riconosciuto il diritto dell’interessato in stato di detenzione che ne faccia richiesta di presenziare personalmente all’udienza, sempre, però, che sia detenuto nell’ambito del distretto della Corte d’Appello cui appartiene il Tribunale di Sorveglianza che procede. Diversamente, egli potrà chiedere di rendere dichiarazioni al Magistrato di Sorveglianza competente sul carcere in cui è detenuto, che trasmetterà il verbale al Tribunale di Sorveglianza. Sul punto è bene precisare che il più delle volte, soprattutto quando l’istanza del detenuto ha ad oggetto la richiesta di una misura alternativa alla detenzione, è specifico interesse dello stesso presenziare all’udienza, al fine di rappresentare personalmente al Tribunale, nel contraddittorio, il raggiungimento dei requisiti soggettivi idonei per poter espiare l’intera pena, oppure il suo residuo, con una misura alternativa al carcere.[7] Le misure alternative alla detenzione sono disciplinate dall’Ordinamento Penitenziario introdotto nel 1975 e consistono in strumenti attraverso i quali l’organo giurisdizionale ha la possibilità di incidere sulle modalità di esecuzione della pena. Tali misure sono l’affidamento in prova ai servizi sociali (art. 47 o.p.), la detenzione domiciliare (art. 47 ter o.p.), l’esecuzione della pena presso il domicilio (introdotta e disciplinata dalla L. 199/2010) [8] e la semilibertà (art. 50 o.p).
Senza soffermarsi sulla disciplina giuridica di ogni tipo di misura, in quanto ciascuna, per la propria complessità, richiederebbe una trattazione a parte, è bene rilevare che l’affidamento in prova ai servizi sociali rappresenta il beneficio più ampio a cui può aspirare il condannato e che una volta espiato con esito ritenuto positivo dal Tribunale, estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale della condanna. L’ampiezza di tale beneficio, che permette al condannato di restare libero o, se detenuto, lo rende libero con il solo obbligo di attenersi alle prescrizioni imposte dal Magistrato di sorveglianza e iniziare un percorso con i servizi sociali (ovvero una struttura terapeutica in caso di persona tossicodipendente o alcooldipendente), presenta pur sempre un “rovescio della medaglia” nel caso in cui il beneficiario trasgredisca alle prescrizioni imposte. In generale la revoca di una misura alternativa, disposta dal Tribunale, conseguente ad un comportamento del beneficiario incompatibile con la misura disposta, comporta la cessazione della stessa e la conseguente carcerazione del beneficiario che sconterà il residuo della pena in regime di detenzione, fatto salvo il periodo trascorso fruendo del beneficio penitenziario. Nel caso dell’affidamento in prova, invece, il Tribunale, valutata la gravità del comportamento del sottoposto, potrà decidere di revocare il beneficio ex tunc con la conseguenza che il periodo trascorso in misura alternativa non sarà scomputato dalla pena e dovrà essere espiato in istituto penitenziario. La differenza di disciplina rispetto alle altre misure risulta evidente: disponendo l’affidamento in prova il Tribunale pone fiducia nel condannato e nella sua rieducazione mettendolo, per l’appunto, “alla prova” circa la sua reale intenzione di reinserirsi nella società e ciò giustifica un trattamento maggiormente severo nel caso in cui il beneficiario non si sia dimostrato, in seguito al suo comportamento, all’altezza delle aspettative. Durante tutto il periodo in cui il condannato usufruisce di una delle misure sopra esposte, il Magistrato di Sorveglianza sarà informato circa l’andamento della misura tramite relazioni disposte dall’UEPE o dalle forze dell’ordine territorialmente competenti.
Da ultimo è da rilevare un ulteriore compito del Tribunale di Sorveglianza che consiste nella decisione, presa in camera di consiglio in assenza del contraddittorio con la parte o col difensore, circa la richiesta di riabilitazione. La riabilitazione è concessa su richiesta dell’interessato, ai sensi dell’art. 179 c.p., quando siano trascorsi almeno tre anni (otto nel caso di recidivi) dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o sia in altro modo estinta e il soggetto abbia dato prove effettive e constanti di buona condotta e se si sia adoperato al fine di risarcire il danno alla vittima del reato. Alla valutazione positiva di questi elementi consegue la concessione della riabilitazione che comporta l’estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna.
5. Conclusioni
Da quanto esposto risulta evidente l’importanza delle funzioni svolte dagli organi che compongono la Magistratura di sorveglianza in un ordinamento come il nostro teso, come più volte sottolineato, alla rieducazione del condannato e al suo reinserimento nella società.La riforma dell’Ordinamento Penitenziario, attualmente in attesa di approvazione, tende proprio all’effettiva attuazione dei principi di umanità della pena e della sua finalità rieducativa, attraverso l’attribuzione di una maggior dignità del detenuto sia all’interno delle mura carcerarie sia all’esterno delle stesse, ampliando la possibilità per lo stesso di accedere alle misure alternative sopra elencate. Possibilità, si badi bene, non diritto per il detenuto, che necessita pur sempre dell’attenta valutazione del Tribunale di Sorveglianza circa l’effettiva sussistenza nel caso concreto dei presupposti sottesi all’applicazione della misura richiesta. D’altronde, numerosi dati statistici hanno rilevato un rischio sensibilmente inferiore di recidiva nei soggetti che hanno espiato la pena o il suo residuo in misura alternativa a differenza di chi è rimasto per tutta durata della pena stessa in regime carcerario. Tali misure, infatti, creano una speranza per il reo e un’occasione per lo stesso per tornare a risocializzare con la realtà esterna dal quale si è estraniato. Ciò sottolinea ancora una volta la delicatezza della materia della Sorveglianza, siccome incentrata sulla comprensione della personalità dei condannati e finalizzata alla ricerca di soluzioni idonee affinché la pena non risulti per loro una fine, ma rappresenti piuttosto un nuovo inizio.
[1] Si precisa, però, che ai sensi del c.2 art 69 o.p. al Magistrato di Sorveglianza compete, altresì, un potere di vigilanza sui diritti derivanti dalla legge e regolamenti penitenziari anche delle persone imputate.
[2] L’art. 144 del Codice penale, ora abrogato sanciva “L’esecuzione delle pene detentive è vigilata dal giudice. Egli delibera circa l’ammissione al lavoro all’aperto e dà parere sull’ammissione alla liberazione condizionale”, mentre l’art. 4 del Regolamento del 1931 prevedeva che “Il giudice di sorveglianza esercita la vigilanza sulla esecuzione delle pene detentive, visitando ogni due mesi gli stabilimenti ed accertando se sono state osservate le disposizioni delle leggi e dei regolamenti. Dei risultati delle visite fa relazione al Ministero”
[3] l’unica eccezione era costituita dalla previsione dell’istituto della liberazione condizionale applicabile alle pene di lunga durata.
[4] Tale previsione è stata introdotta di recente da parte del D.L 92/2014, convertito nella L.117/2014, che costituisce la risposta del Governo alla condanna pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza Torreggiani con la quale era stata rilevata, da parte della Corte, la violazione da parte dell’Italia dell’art. 3 CEDU, a causa del grave sovraffollamento degli istituti penitenziari.
[5] Vengono definiti “ergastoli bianchi” quelle proroghe senza fine delle misure detentive che finivano per diventare un vero e proprio “ergastolo” per i soggetti alle stesse sottoposti.
[6] L’art. 1 comma quarter della L. 81/2014 prevede che “Il giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale” il cui accertamento è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale. Allo stesso modo provvede il magistrato di sorveglianza quando interviene ai sensi dell’articolo 679 del codice di procedura penale. Non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”.
[7] Si potrebbe ritenere che l’attuale disciplina della partecipazione dell’interessato all’udienza, di cui all’art. 666 co.4. c.p.p., presenti dubbi di costituzionalità, proprio riguardo alla previsione solo eventuale di detto intervento. Ad oggi, però, la giurisprudenza si è limitata a considerare che nel procedimento di sorveglianza la mancata partecipazione dell’interessato all’udienza possa assumere rilievo solo laddove questi abbia chiesto di essere sentito personalmente. Di conseguenza, la mancata presenza in udienza e la mancata audizione del detenuto che non ne abbia fatto richiesta non costituiscono cause di nullità del procedimento.
[8] A riguardo un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino, la n. 4287/2012 ha statuito che “Con l’arresto in rassegna, è affacciata la tesi per cui l’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi (art. 1 l. 26 novembre 2010 n. 199) costituisce non una semplice modalità speciale di esecuzione della pena, ma una misura alternativa alla detenzione in senso proprio. L’opinione si pone in netto contrasto con altri indirizzo seguito da una parte dei giudici di sorveglianza, che ritiene al contrario l’esecuzione domiciliare una modalità (anzi: in linea tendenziale la modalità ordinaria) di esecuzione delle pene di breve durata. Il dibattito sulla natura dell’istituto di cui alla c.d. “legge Alfano” non pare, in tutta evidenza, sopito e – come è noto agli operatori – è foriero di produrre divergenze interpretative che si traducono in difformità applicative della misura svuotacarceri”
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Giulia Solenni
Avvocato
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