La vita oltre lo schermo: il diritto alla disconnessione
Le nuove tecnologie hanno assunto negli anni un ruolo sempre più pregnante nella vita quotidiana di tutti noi. Con particolare riferimento al mondo del lavoro, stiamo assistendo oggi – e ancora di più in questo peculiare momento di emergenza – ad un impiego sempre più massiccio di strumenti informatici, che ci consentono di portare avanti le attività da casa in modalità smart working (o lavoro agile), definita dal nostro ordinamento “quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa” (art. 18 L. n. 81/2017).
Se, da un lato, i vantaggi di tale sistema risultano evidenti (accesso ai dati da remoto, reperibilità, maggiore autonomia nella gestione del proprio tempo…), dall’altro lato, vengono in rilievo anche alcune criticità non indifferenti. Invero, proprio l’eccesso di reperibilità da parte del lavoratore e il numero di ore trascorse seduto davanti ad uno schermo rischiano di portare ad una indebita compressione degli spazi di vita privata e familiare (art. 8 CEDU e art. 7 Carta dei diritti fondamentali dell’UE) nonché ad un affaticamento mentale tale da ledere il diritto alla salute (art. 32 Cost.). In assenza di un’adeguata tutela, pertanto, si determina il concreto pericolo di arrecare un grave vulnus a diritti che la nostra Costituzione riconosce come fondamentali.
Secondo un’indagine condotta da Bloomberg, i lavoratori operanti in modalità smart working lavorerebbero in media tre ore in più al giorno e risulterebbero più vulnerabili a causa di molteplici fattori stressogeni, quali la frenesia dei ritmi nonché la sovraesposizione alle richieste aziendali o del datore di lavoro, poiché, in astratto, tale sistema richiede che essi siano potenzialmente sempre reperibili (“always on”)[1].
A conclusioni simili approda il rapporto dell’ILO e dell’Eurofound “Working anytime, anywhere: the effects on the world of work”, in base al quale gli aspetti più negativi del lavoro agile sarebbero rappresentati dalla sovrapposizione e dall’interferenza della giornata lavorativa con la vita personale, nonché dall’ingente carico di lavoro, che sottoporrebbero l’individuo a costanti fonti di stress[2].
Oppure ancora, di recente si è cominciato a parlare della c.d. “Zoom fatigue” (letteralmente, affaticamento da Zoom, dal nome di una delle piattaforme al momento maggiormente impiegate per le videoconferenze)[3]. Le interazioni virtuali risulterebbero più stancanti rispetto a quelle “faccia a faccia” perché la lontananza fisica – a dispetto della vicinanza mentale – richiederebbe uno sforzo maggiore con riferimento alla decifrazione del linguaggio non-verbale e para-verbale altrui. Inoltre, il fatto di essere sottoposti allo sguardo costante e vicino dei nostri interlocutori stimolerebbe un meccanismo di sfida nei confronti di noi stessi, che ci porterebbe a sforzarci di essere più produttivi per compensare il disagio. Infine, sotto il profilo dello stress, non aiuterebbe l’identificazione della casa con il luogo di lavoro, che non consentirebbe di staccare mai davvero la spina.
Alla luce di tali criticità, appare quanto mai necessaria una compiuta disciplina del diritto alla disconnessione, che consenta il contemperamento degli interessi legati al mondo del lavoro con quelli relativi alla vita privata e alla salute degli individui, onde poter sfruttare al meglio i mezzi informatici messi a disposizione dall’evoluzione tecnologica: ad essi si deve poter far ricorso quali fonti di opportunità, scongiurando il rischio di un loro “impiego abusivo” che si traduca nella lesione di diritti costituzionalmente tutelati.
È necessario, dunque, che venga cristallizzato il diritto del lavoratore ad un tempo di riposo durante il quale potersi rendere irreperibile, senza che ciò abbia delle ripercussioni sotto il profilo della retribuzione e della prosecuzione del rapporto lavorativo; ed è auspicabile – tra l’altro – che ciò avvenga non solamente con esclusivo riferimento alla categoria degli smart workers, bensì, ove possibile, avendo anche riguardo di tutti quei lavoratori, che pur recandosi fisicamente in ufficio per l’espletamento delle proprie mansioni, mantengano un contatto diretto con l’ambiente di lavoro tramite l’utilizzo di dispositivi e programmi elettronici anche nei momenti di pausa tra un “turno” e l’altro (es.: cellulare aziendale, cloud, e-mail).
Il diritto alla disconnessione ha i propri natali in Francia, ove per la prima volta ha ottenuto una veste formale nell’ambito della Loi Travail (Loi n. 88/2016, approvata nel mese di agosto 2016), la quale ha introdotto il n. 7 dell’art. 2242-8 del Code du Travail (previsione oggi rifluita nel successivo art. 2242-17), che ha riconosciuto ai lavoratori dipendenti il droit à la déconnexion e ha previsto la necessità di regolamentare l’uso degli strumenti digitali, onde garantire il rispetto dei tempi di riposo nonché della vita personale e familiare.
In Italia, invece, l’unico riferimento alla disconnessione – la quale non viene, peraltro, qualificata come diritto – si rinviene nell’art. 19, co. 1, L. n. 81/2017 (“Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”) in tema di lavoro agile. In particolare, la norma prevede che l’accordo individuale relativo alle modalità di lavoro agile stabilisca “i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”.
La delega di fatto conferita alla contrattazione individuale con riferimento alla disciplina della disconnessione per il caso concreto, in difetto di una normativa che ne delimiti i contenuti almeno per punti essenziali, rende difficoltoso assicurare un’omogeneità di trattamento. Invero, un intervento del legislatore che delinei meglio i contorni del diritto alla disconnessione sarebbe auspicabile nell’ottica di conferire un’impronta univoca alla questione; così come sarebbe forse preferibile prevedere che questa venga trattata anche in sede di contrattazione collettiva, onde garantire un minimo di uniformità a livello di regolamentazione, anche sotto il profilo delle conseguenze derivanti dall’eventuale violazione del diritto de quo. In difetto, alle singole parti verrebbe lasciata di volta in volta un’eccessiva libertà, che – con tutta probabilità – rischierebbe di andare per lo più a vantaggio del contraente forte, cioè del datore di lavoro.
Al momento, l’unico dato certo è quanto previsto dall’art. 18 L. n. 81/2017, ossia che “la prestazione lavorativa viene eseguita […] entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”. Pertanto, un parametro cui ancorare la quantificazione del tempo di riposo, da intendersi quale tempo di non lavoro e, dunque, di non reperibilità, è l’art. 7, D.Lgs. n. 66/2003, in base al quale “ferma restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore”. Tuttavia, la normativa sul tema appare ancora decisamente lacunosa.
Un tentativo di dar forma e contenuto al diritto alla disconnessione si rinviene all’interno delle singole realtà aziendali.
A titolo esemplificativo, l’Accordo quadro sulle forme di lavoro agile raggiunto da Findomestic con i sindacati nel giugno 2017 stabilisce espressamente, al punto 2.3 (“obblighi e tutele del lavoratore”), che “al di fuori dell’orario di lavoro, strettamente correlato alla mansione e alla struttura di appartenenza, viene riconosciuto il diritto alla disconnessione, ossia la possibilità dei lavoratori di non rispondere alle e-mail e alle telefonate al di fuori del suddetto orario”[4].
Oppure ancora, la Smart working policy di Cattolica Assicurazioni (2017) statuisce, in modo più dettagliato, al punto 3 (“orario di lavoro, disconnessione e disponibilità”), che “anche nella modalità smart working il dipendente è obbligato a rispettare le norme sui riposi previste dalla legge e, in particolare, ad effettuare almeno 11 ore consecutive ogni 24 ore e almeno 24 ore di riposo consecutive ogni 7 giorni […] e disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro. Durante il Periodo di Disconnessione […] non è richiesto al dipendente lo svolgimento della prestazione lavorativa e, quindi, la lettura delle e-mail, la risposta alle telefonate e agli SMS aziendali, l’accesso e la connessione al sistema informativo aziendale. Durante il Periodo di Riposo e di Disconnessione il dipendente potrà disattivare i dispositivi utilizzati per lo svolgimento della prestazione lavorativa”[5].
Da ultimo, degno di menzione risulta il Decreto emesso il 7 aprile 2017 dal Direttore Generale presso l’Università degli Studi dell’Insubria, avente ad oggetto il “Diritto alla disconnessione al di fuori dell’orario di lavoro e attivazione del Giorno dell’indipendenza dalle e-mail in ogni trimestre”. Attraverso tale provvedimento viene riconosciuto al personale il diritto alla disconnessione, definito quale diritto-dovere di non rispondere a telefonate, e-mail e messaggi d’ufficio nonché di non telefonare e inviare e-mail o messaggi di qualsiasi tipo al di fuori degli orari lavorativi – e, cioè, dalle 20.00 alle 7.00, oltre che nelle giornate di sabato, domenica e festivi – tanto nei confronti di colleghi quanto nei confronti di responsabili o sottoposti[6].
Nonostante tali tentativi, la necessità di disciplinare la questione relativa all’esigenza di disconnessione dei lavoratori richiede un impianto normativo più incisivo e dettagliato nonché un intervento sul piano della contrattazione collettiva, prima ancora che a livello di contrattazione territoriale e individuale.
Come rilevato, invero, l’eccessiva interferenza del lavoro negli spazi personali nonché lo sconfinamento dello stesso in un tempo che dovrebbe essere dedicato ad attività diverse hanno gravi ricadute su alcuni diritti fondamentali, che hanno un ancoraggio costituzionale. Ne discende che, sebbene il legislatore non abbia voluto definire la disconnessione quale diritto, essa debba essere necessariamente qualificata come tale, poiché costituisce una sfaccettatura del diritto alla vita privata e familiare e del diritto alla salute; ciò in quanto il suo mancato riconoscimento e/o la sua mancata tutela si traducono in un’indebita lesione dei diritti sopracitati. Più propriamente, dunque, la disconnessione non costituisce in sé un nuovo diritto, bensì una nuova sfumatura, una nuova prospettiva attraverso la quale guardare ad alcuni diritti fondamentali.
Proprio questo deve essere il punto di partenza: una lettura costituzionalmente orientata della questione, onde poter conseguentemente delineare con maggior consapevolezza una cornice ben definita, che consenta di attualizzare la tutela della vita privata e familiare nonché della salute del lavoratore alla luce delle modifiche che l’era digitale ha introdotto nella società.
[1] Cfr. il sito https://www.bloomberg.com/news/articles/2020-04-23/working-from-home-in-covid-era-means-three-more-hours-on-the-job.
[2] Cfr. il sito https://www.eurofound.europa.eu/it/publications/report/2017/working-anytime-anywhere-the-effects-on-the-world-of-work.
[3] Cfr. i seguenti siti web: https://www.engadget.com/online-conferencing-video-chat-fatigue-172357939.html; https://www.bbc.com/worklife/article/20200421-why-zoom-video-chats-are-so-exhausting.
[4]Cfr. il sito https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=2ahUKEwjb7I7uvZDpAhWL-qQKHez9BDIQFjAAegQIAhAB&url=https%3A%2F%2Fwww.uilca.it%2Fpdf%2Fnews%2F3_lavoro_agile.pdf&usg=AOvVaw1C4ZxeVoqIyONCM0pOpfYo.
[5] Cfr. il sito https://www.fisac-cgil.it/74280/cattolica-accordo-smart-working-esteso-a-tutto-il-gruppo.
[6] Cfr. il sito https://www.uninsubria.it/files/ddg2017289dirittodisconnessionepdf.
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