L’abuso dei contratti a termine nel pubblico impiego e le peculiarità del settore scolastico
Preliminarmente appare opportuno richiamare sinteticamente la normativa rilevante sia comunitaria che nazionale. La clausola 5 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE, come costantemente esplicitato dalla Corte di Giustizia, “impone agli Stati membri, al fine di prevenire l’utilizzo abusivo di una successione dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure che essa elenca, qualora il loro diritto interno non contenga norme equivalenti”, seppur attribuendo loro “un’ampia discrezionalità a tale riguardo, dal momento che essi hanno la scelta di far ricorso a una o a più misure enunciate al punto 1, lettere da a) a c), di detta clausola, oppure a norme giuridiche equivalenti già esistenti, e ciò tenendo conto, nel contempo, delle esigenze di settori e/o di categorie specifici di lavoratori” (Cfr. ex multis Corte di Giustizia UE, Sezione Decima, sentenza 14 settembre 2016, causa C-16/15).
Il legislatore italiano ha dato espressa attuazione alla direttiva emanando il D.lgs. n. 368 del 6 settembre 2001, che ha regolato ex novo la materia, prevedendo al comma 1, dell’art. 1 condizioni meno stringenti per l’apposizione del termine al contratto di lavoro (“è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”) e lasciando spazio, in caso di violazione dei limiti dalla stessa previsti, alla tutela di diritto comune (ed in particolare quella prevista dall’art. 1419 comma 2 c.c. comportante la riqualificazione a tempo indeterminato del rapporto, con sua conversione ex tunc in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato). Successivamente, con la legge n. 247/2007 (che ha introdotto il comma 4 bis dell’art. 5 del D.lgs. 368/2001), il legislatore ha altresì previsto un ulteriore limite alla stipulazione di contratti a termine tra le stesse parti, prevedendo la durata massima di trentasei mesi, superata la quale il nuovo contratto a termine successivamente stipulato si considera a tempo indeterminato.
Passando alle conseguenze, derivanti dall’eventuale illegittimità dei contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni, in violazione delle richiamate disposizioni di legge, diversamente a quanto previsto per i rapporti di natura privatistica, non può condurre alla tutela reintegratoria che è da ritenersi preclusa in ragione della natura pubblicistica del datore di lavoro e del puntuale disposto di cui all’art. 36 del D.lgs. n. 165/2001 che, nel caso di violazione delle disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni, vieta la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione del dirigente nonché il diritto al risarcimento del danno in favore del lavoratore.
Tale disposizione normativa non può ritenersi abrogata a causa del sopravvenuto D.lgs. n. 368/2001, atteso che siamo al di fuori di un’ipotesi di abrogazione esplicita e che la norma posteriore non appare incompatibile con quella più risalente. A tal proposito, considerato che l’articolo 36 del T.U. 165/2001 detta una disciplina specifica circoscritta ad un ben delimitato e particolare settore (il pubblico impiego) rispetto alla più generale e sopravvenuta normativa, trova applicazione la regola secondo cui la norma generale posteriore non deroga a quella speciale anteriore. Ed invero, l’interpretazione assolutamente prevalente ha escluso che tale disposizione (l’art. 36 cit.), proprio perché speciale, sia stata abrogata per effetto dell’emanazione del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, di attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e da ultimo tale interpretazione ha ricevuto una conferma testuale nell’art. 29, comma 4, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, che, nell’ambito del riordino della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, ha sancito espressamente che resta fermo quanto disposto dall’art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 (cfr. Cass. civ., Sez. Un., n. 5072 del 15/3/2016).
Deve, peraltro, ritenersi costituzionalmente legittima la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio. Ed invero, tale circostanza è giustificata dal principio dell’accesso mediante concorso – enunciato dall’art. 97 Cost., a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione – che rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati (cfr. Cort. Cost., n. 89 del 27/3/2003).
L’articolo 36 d.lgs. n. 165/2001 non si pone neppure in contrasto con la direttiva comunitaria n. 70/99 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. Al riguardo, la Corte di giustizia dell’Unione Europea, dopo aver precisato che la menzionata direttiva non ha efficacia diretta nel nostro ordinamento e si applica anche ai contratti e rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi dalle pubbliche amministrazioni, in più pronunce ha ribadito che la clausola 5 dell’accordo quadro non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato (cfr. ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13, che richiama sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04; del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04 e del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07 e ordinanza del 1° ottobre 2010, Affatato, C-3/10).
La Corte ha tuttavia rimesso al giudice del rinvio il compito di valutare in che misura le disposizioni di tale diritto miranti a punire il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato rispettino i principi di effettività ed equivalenza. Nel fare ciò i giudici europei, pur evidenziando il forte carattere dissuasivo delle misure previste dall’ordinamento giuridico italiano – quali l’obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente e le disposizioni di contorno concernenti soprattutto la responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente – hanno ammonito sulla possibile insufficienza delle stesse per assicurare il rispetto della clausola 5 del cit. accordo quadro.
Con la recente pronuncia n. 5072 del 15/3/2016 le Sezioni Unite, nell’operare una integrazione in via interpretativa, orientata dalla conformità comunitaria, volta a dare maggiore consistenza ed effettività al danno risarcibile, hanno quindi affermato che “In materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito” (Cass. civ., Sez. Un., n. 5072 del 15/3/2016).
In altri termini, il massimo organo nomofilattico ha individuato la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, proprio in questa agevolazione della prova da ritenersi in via di interpretazione sistematica orientata dalla necessità di conformità alla clausola 5 del più volte cit. accordo quadro: il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo. Il parametro va dunque ricercato nella fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, legge n. 183 del 2010, che riguarda appunto il risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine, quale misura con portata sanzionatoria (e qualificabile come “danno comunitario”, per esprimere direttamente la valenza di interpretazione adeguatrice) che esonera il lavoratore dalla prova del danno subito, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto.
Per quanto concerne il reclutamento del personale scolastico, invece, particolarmente significativo è il portato dell’art. 70, comma 8, del D.lgs. 165/2001 non solo nella parte in cui afferma che le disposizioni contenute nel decreto legislativo si applicano anche al personale della scuola, ma anche, e soprattutto, laddove fa “salve le procedure di reclutamento del personale della scuola di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 e successive modificazioni ed integrazioni”.
Sotto quest’ultimo profilo, deve rilevarsi come l’attuale normativa speciale in materia di assunzioni nel settore scolastico trova il proprio originario fondamento nel D.l. n. 357/1989 (convertito in legge n. 417/1989) che aveva regolato l’accesso in ruolo del personale scolastico istituendo il sistema del c.d. “doppio canale”, con una via riservata a coloro che avessero maturato un’esperienza predeterminata come supplenti, in alternativa al concorso aperto per titoli ed esami. Requisito comune, naturalmente, era il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento dopo la laurea. Il D.lgs. n. 297/1994 (T.U. istruzione) ha trasfuso questo meccanismo, rimasto tuttavia improduttivo per la mancata indizione di concorsi ordinari, mentre la legge n. 124/1999 ha reso permanenti le graduatorie relative ai concorsi interni per soli titoli ed estendendo le disposizioni in materia di supplenze anche al personale amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA). L’anno successivo, in attuazione delle previsioni contenute nell’art. 4 della legge n. 124/1999, sono state adottate con regolamento le modalità di conferimento delle supplenze in questione sia per il personale docente (D.M. n. 201/2000) sia per il personale ATA (D.M. n. 430/2000).
In relazione al personale docente, similmente al personale ATA, sono state previste tre ipotesi di supplenze.
La prima è destinata a soddisfare l’esigenza dell’Amministrazione scolastica di coprire posti “vacanti e disponibili” e va attuata con contratti a termine di durata annuale – cioè fino al 31 agosto successivo – attingendo dalle graduatorie permanenti mediante individuazione del dirigente dell’amministrazione scolastica territorialmente competente. Essa è subordinata alla condizione che non sia possibile provvedere con personale di ruolo o in soprannumero o non vi sia già assegnato personale di ruolo e che si sia “in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per il personale docente di ruolo”.
La seconda ipotesi riguarda l’esigenza di coprire posti “non vacanti che si rendano di fatto disponibili” fino al termine dell’anno scolastico (e.g. perché relativi a sedi disagiate o comunque di scarso gradimento) e va attuata con contratti di durata fino al termine delle attività didattiche – cioè fino al 30 giugno – anche in tal caso attingendo dalle citate graduatorie permanenti con le medesime modalità.
La terza ed ultima ipotesi è quella residuale volta a soddisfare ogni altra esigenza temporanea di servizio (e.g. la sostituzione di personale assente) e viene realizzata attingendo dalle graduatorie di istituto mediante individuazione diretta del dirigente scolastico interessato.
In virtù delle disposizioni contenute nel T.U. istruzione e nella legge n. 124/1999 appare corretto affermare che il sistema di reclutamento del personale scolastico risulti in sé compiuto e autosufficiente.
Alla luce di tali premesse, la Suprema Corte, ha affermato che la specialità della normativa sul reclutamento del personale nel settore della scuola, costituendo un “corpus speciale autonomo” ovvero un sistema organico disciplinante compiutamente la materia del reclutamento a termine del personale scolastico, giustificherebbe la sua “assoluta impermeabilità alla disciplina del D.Lgs. n. 368 del 2001” tale da escludere non soltanto la possibilità di una conversione a tempo indeterminato (vietata per tutto il pubblico impiego dall’art. 36 d.lgs. 165/2001), ma anche la stessa configurabilità di un abuso ai danni dei lavoratori (vietato dalla direttiva comunitaria n. 1999/70) nella successione indefinita di una pluralità di contratti a tempo determinato (cfr. ex multis Cass. civ. 20 giungo 2012 n. 10127; da ultimo, Cass. civ., sez. L., nn. 22552, 22553, 22554, 22555, 22556, 22557 del 7 novembre 2016).
Pertanto, nonostante l’innegabile compiutezza e specialità del corpus normativo relativo al reclutamento del personale scolastico, di esso va comunque verificata la compatibilità con i principi dettati in materia di contratti a termine dalla direttiva 1999/70/CE e, in particolare, con la clausola 5 dell’accordo quadro allegato.
Si tratta di una direttiva non passibile di applicazione diretta nei rapporti verticali privato-Stato per mancanza di un sufficiente grado di determinatezza ma, in ogni caso, sovraordinata alla legge nazionale, che non può porsi legittimamente in contrasto con essa. Per tale ragione, e dubitando della sua conformità all’art. 4, commi 1, ultima proposizione, e 11, della legge n. 124/1999 – i quali, dopo aver disciplinato il conferimento di supplenze annuali su posti “che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre”, dispongono che si provvede mediante il conferimento di supplenze annuali, “in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale docente di ruolo” – con ordinanza n. 207 del 2013 la Corte costituzionale ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale interpretativa della clausola 5 dell’accordo quadro.
Con sentenza del 26 novembre 2014, la Corte di Giustizia UE (nella causa Mascolo + altri), dopo avere ribadito che l’accordo quadro allegato alla direttiva 70/1999/CE si applica a tutti i lavoratori anche pubblici (non escluso quindi il settore scolastico), esaminata la normativa interna sul reclutamento scolastico e, in particolare, le tre tipologie di supplenze previste dall’art. 4 della legge 124/1999, ha statuito che “La clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato […] deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale […] che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo”.
Con specifico riferimento alla normativa italiana in materia di reclutamento del personale scolastico, la Corte – pur premettendo che nel settore dell’insegnamento di cui trattasi vi è una particolare esigenza di flessibilità, potenzialmente idonea a giustificare oggettivamente il ricorso a una successione di contratti a termine per rispondere in maniera adeguata alla domanda scolastica – ribadisce poi la necessità che vi siano criteri obiettivi e trasparenti idonei a consentire la verifica della sussistenza nel caso concreto dell’esigenza di ricorrere ad una pluralità di contratti a termine. Una siffatta disposizione comporta, quindi, un rischio concreto di determinare un ricorso abusivo a tale tipo di contratti e, pertanto, non è compatibile con lo scopo e l’effetto utile dell’accordo quadro.
Ed invero, la Corte ha pur sempre ribadito come la disciplina comunitaria richieda la sussistenza di almeno una delle condizioni indicate dalla clausola 5 dell’accordo quadro al fine di ritenere compatibile con il diritto dell’Unione una successione dei contratti a termine: a) ragioni obiettive (concretamente sussistenti) per la giustificazione del rinnovo; b) durata massima totale dei contratti a termine successivi; c) previsione di un numero massimo di rinnovi.
Pertanto, esclusa ex lege l’applicazione del termine di durata massima di cui all’art. 5 co. 4 bis d.lgs. n. 368/2001 (lettera b) e non essendovi alcuna previsione in ordine al numero massimo di rinnovi (lettera c), rimaneva da verificare se la reiterazione dei contratti a termine potesse essere giustificata da ragioni obiettive concretamente sussistenti (lettera a).
La risposta a tale quesito non è tardata a giungere, infatti, con sentenza n. 187 del 2016, la Corte Costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124, nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino”.
La Corte, peraltro, ha ritenuto di dover integrare quanto disposto dal giudice comunitario, a seguito dell’introduzione dalla legge n. 107 del 2015 (c.d. riforma sulla “buona scuola”), avente la finalità di garantire la corretta applicazione dell’accordo quadro. In particolare, il Giudice costituzionale, ha rintracciato, nelle relative procedure di assunzione, ottime chances di immissione in ruolo per il personale docente interessato, mentre, diversamente per il personale ATA, non essendo stato introdotto nessun piano privilegiato di assunzioni, ha ritenuto un “adeguato ristoro” la misura ordinaria del risarcimento del danno, misura d’altra parte prevista dal comma 132 dell’art. 1 della legge n. 107 del 2015.
In altri termini, la Corte ha voluto precisare, come la normativa in parola, abbia di fatto comportato l’eliminazione dell’illecito di cui si è reso responsabile lo Stato italiano, a causa della violazione del diritto dell’UE, con l’introduzione, appunto, di adeguati ristori per il personale interessato, optando per lo strumento del risarcimento in forma specifica.
Ricalcando tale pronuncia, recenti sentenze della Suprema Corte, seppur ribadendo a più riprese la volontà di dare continuità ai principi affermati in passato dalla stessa Corte (v. supra), hanno ritenuto che “La legge n. 107 del 2015, come affermato dalla sentenza 187 della Corte Costituzionale, ha senz’altro cancellato l’illecito comunitario perché, per il futuro, ha previsto le misure idonee ad evitare la irragionevole reiterazione senza limiti delle supplenze nella scuola (c. 131) nella quale la Corte di Giustizia ha ravvisato l’illecito stesso […]. Ebbene, ad avviso del Collegio, il rilievo che deve essere attribuito alle disposizioni transitorie contenute nell’art. 1 c. 95 della L. 107/2015, consegue dal fatto che l’ordinamento nazionale ha inteso, in tal modo, adottare una misura […] idonea a sanare l’illecito, apprestando, con previsione rigorosa di tempi, la strada satisfattiva della immissione in ruolo. Si tratta […] di una riparazione ragionevole e soddisfacente […] in quanto attribuisce al soggetto interessato il bene della vita, la cui certezza di acquisizione era stata lesa dalla condotta inadempiente realizzata dalla Amministrazione” (Cass. civ., sez. L., nn. 22552, 22553, 22554, 22555, 22556, 22557 del 7 novembre 2016).
Alla luce di ciò, la “stabilizzazione” disposta dal legislatore del 2015, viene a configurarsi quale misura ben più satisfattiva di quella per equivalente, di cui avrebbe beneficiato il personale scolastico assunto con una serie di contratti a termine contra ius sulla scorta del “diritto vivente”, costituito dai principi affermati dalle SSUU della Cassazione nella sentenza n. 5072/2016, principi ai quali la Suprema Corte ha ritenuto di dar continuità.
Medesima considerazione, peraltro, viene ribadita per il personale della scuola che abbia ottenuto l’immissione in ruolo avvalendosi del sistema di avanzamento reso possibile dalle previgenti norme sul reclutamento (c.d. stabilizzazione medio tempore). Ed invero, l’immissione in ruolo, anche in questi casi, viene ritenuta rispettosa dei principi di equivalenza ed effettività, in quanto il soggetto leso dall’abusivo ricorso ai contratti a termine ha, nonostante tutto, ottenuto il medesimo “bene della vita“, potendo, pertanto, ritenere l’illecito commesso tendenzialmente riparato.
In sintesi si è ritenuto che sia “misura proporzionata, effettiva, sufficientemente energica ed idonea a sanzionare debitamente l’abuso stesso” ed a “cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione” la misura della stabilizzazione prevista dalla legge 107/2015, introducendo un piano straordinario volto alla copertura di tutti i posti comuni e di sostegno dell’organico di diritto, relativamente al personale docente.
E tale idoneità sussiste sia nell’ipotesi di concreta assegnazione del posto di ruolo quanto nel caso della certezza di fruirne, “in tempi certi e ravvicinati”. Di contro, l’astratta “chance” di stabilizzazione, non può, secondo la Corte, essere ritenuta “misura proporzionata, effettiva, sufficientemente energica, ed idonea a sanzionare debitamente l’abuso ed a cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione”, in quanto caratterizzata da un’intrinseca aleatorietà. Nelle predette ipotesi, oltre che in quelle nelle quali l’interessato ruota al di fuori dell’alveo di una c.d. prospettiva di stabilizzazione, deve essere riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in conformità a quanto previsto nell’Accordo Quadro, allegato alla Direttiva, alla luce dei principi enunciati nella sentenza Mascolo, nonché di quelli di “finalizzata ma chiara agevolazione probatoria” affermati dalla stessa Corte, nella più volte citata sentenza a SSUU n. 5072 del 2016, ai quali il Collegio ha ritenuto, come ripetutamente osservato, di dare continuità.
Continua la Corte, affermando che, in ogni caso, rimane “impregiudicata, in applicazione dei principi affermati dalle SSUU nella richiamata sentenza n. 5072 del 2016, la possibilità del docente che si ritenga leso dalla illegittima reiterazione di assunzioni a tempo determinato di allegare e provare danni ulteriori e diversi rispetto a quelli “risarciti” dalla immissione in ruolo, con la precisazione che l’ onere della prova di siffatti danni ulteriori grava sul lavoratore, non operando il beneficio della prova agevolata”. All’interessato spetta, pertanto, un risarcimento del danno ulteriore, nel caso sia data la prova del maggior pregiudizio sofferto, con la precisazione che l’onere di allegazione e di prova grava sul lavoratore, differentemente dall’agevolazione probatoria sancita dalle SSUU della Corte nella sentenza n. 5072 del 2016 a favore del lavoratore pubblico.
La Corte di Giustizia nella sentenza Mascolo ha affermato che “la sostituzione temporanea di un altro dipendente al fine di soddisfare esigenze provvisorie del datore di lavoro in termini di personale, al pari della necessità per lo Stato di organizzare il servizio scolastico in modo da garantire un adeguamento costante tra numero di docenti e numero degli scolari, in relazione a non preventivabili flussi migratori interni ed esterni ed alle scelte di indirizzi scolastici da parte degli scolari, possono, in linea di principio, costituire una “ragione obiettiva”, ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’ Accordo quadro per il ricorso ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato al fine di rispondere adeguatamente alla domanda scolastica ed evitare allo Stato, datore di lavoro, di immettere in ruolo un numero di docenti significativamente superiore a quello effettivamente necessario”. Da ciò deriva, pertanto, che non può realizzarsi, con riferimento ai posti individuati per le supplenze su “organico di fatto” e per le supplenze temporanee, l’abuso contrario alla Direttiva 1999/70/CE, “salvo che non sia allegato e provato da parte del lavoratore che, nella concreta attribuzione delle supplenze della tipologia in esame, vi sia stato un uso improprio o distorto del potere di organizzazione del servizio scolastico, delegato dal legislatore al Ministero”, e, quindi, realizzandosi non soltanto la reiterazione dei contratti, ma, altresì, circostanze sintomatiche di un uso fuorviante del potere organizzativo scolastico, quali ad esempio il susseguirsi delle assegnazioni del docente presso lo stesso Istituto e con riguardo alla stessa cattedra.
Infine, per il personale ATA, la legge n. 107/2015, come già accennato, non ha introdotto alcun piano straordinario di assunzione. Tuttavia, la Corte, ripercorrendo le considerazioni svolte, ha ritenuto specularmente che, “nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, stipulati ai sensi dell’art. 4 c. 11 L. 124/1999, il conseguimento del posto di ruolo da parte di detto personale costituisca misura proporzionata, effettiva, sufficientemente energica, ed idonea a sanzionare debitamente l’abuso ed a cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione, salvo, in ogni caso il diritto al risarcimento del danno ulteriore ai sensi dei principi affermati dalle SSUU di questa Corte nella sentenza 5072/2016”. Peraltro, anche per questa tipologia di personale, ove l’inserimento in ruolo non sia stato ottenuto, così come affermato anche dalla Corte Costituzionale (v. supra), si è ritenuto che, nelle ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 4 c. 11 L. 124/1999, deve essere senz’altro riconosciuto il diritto al risarcimento del danno nella misura e secondo i principi affermati nella già richiamata sentenza delle SSUU della Cassazione n. 5072/2016.
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Roberto Priolo
Nato a Sondrio nel 1991, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nel luglio 2015 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Palermo. Nel settembre 2016 ha conseguito il master in "Giurista d'impresa" presso la Business School MeliusForm di Roma. Ha collaborato con l’Avvocatura INPS di Trapani occupandosi, prevalentemente, di contenzioso in materia previdenziale. Inoltre, ha collaborato con il Tribunale di Trapani, Sezione Lavoro, nella redazione dei vari provvedimenti dell'Ufficio, comprese le sentenze.