L’abuso del processo

L’abuso del processo

Il concetto di abuso del processo è stato definito dalla giurisprudenza per la prima volta con la sentenza della Corte di Cassazione a Sezione Unite del 2007.

Con questa pronuncia, la Suprema Corte ha stabilito che il titolare di un diritto di credito non può esercitare una richiesta di adempimento frazionata in più processi, in ognuno dei quali sia richiesto il pagamento di una sola, singola parte della somma di denaro.

Secondo le Sezioni Unite, il frazionamento del credito è evidentemente una pratica illegittima, caratterizzata da un abuso del diritto processuale, riconosciuto in capo al creditore.

La presentazione di più domande processuali per il soddisfacimento di un unico diritto di credito non è in sé illegittima: tale modalità di esercizio del diritto processuale, infatti, non è in contrasto con alcuna norma imperativa.

Tuttavia, agire in questo modo significa creare inevitabili disagi in capo al debitore, anche in contrasto con il principio della giusta durata del processo, previsto dall’art 111 Cost.

Frammentare la richiesta di adempimento del debito, infatti, significa costringere il debitore a sopportare maggiori spese processuali, rispetto a quelle che avrebbe dovuto affrontare se il creditore avesse scelto di presentare un’unica domanda giudiziale.

Il disagio del debitore, dunque, è di gran lunga maggiore rispetto al vantaggio che il creditore riuscirebbe a garantire per sé attraverso il frazionamento del proprio credito.

A tutto ciò, si aggiunga anche che tale pratica comporterebbe un ingiustificato prolungamento della durata del tempo del processo per ottenere l’adempimento del debito, entrando, come accennato in precedenza, inevitabilmente in rotta di collisione con il principio della giusta durata del processo, ai sensi dell’art 111 Cost.

Alla luce di tali osservazioni, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione valutano illegittimo il frazionamento del credito, essendo una pratica in contrasto con il principio del divieto dell’abuso del diritto.

Dato che quello abusato è un diritto di natura processuale, le Sezioni Unite del 2007 definiscono il frazionamento del credito come un caso di abuso del processo, coniando per la prima volta questa espressione, poi ripresa in diverse sentenze della giurisprudenza, anche amministrativa.

Nel 2012, infatti, la V sezione del Consiglio di Stato, richiamando, tra l’altro, anche la su esposta sentenza delle Sezioni Unite del 2007, si è pronunciata sulla legittimità di un’altra fattispecie concreta, poi valutata come preciso caso di abuso del processo.

Più nello specifico, i giudici di palazzo Spada si sono concentrati sulla legittimità dell’appello, attraverso il quale è sollevata la questione del difetto di giurisdizione, presentato dallo stesso ricorrente in primo grado, alla conclusione del quale risulta soccombente nel merito.

In questo caso si nota subito il contrasto con un principio fondamentale: il divieto di venire contra factum proprium.

Secondo tale principio, non ci si può dimostrare in contraddizione con un comportamento già assunto in passato.

Nel caso in analisi, se colui il quale presenta ricorso di fronte al tar, dopo essere soccombente nel merito in primo grado, decide di impugnare in appello la sentenza in cui risulta soccombente, sollevando la questione di difetto di giurisdizione, inevitabilmente entra in contraddizione col proprio precedente agire.

Più nello specifico, se il ricorrente presenta ricorso al tar, implicitamente riconosce la giurisdizione del giudice amministrativo. Per questo motivo, se contro la sentenza di primo grado, che lo definisce soccombente, il ricorrente decide di presentare ricorso in appello, sollevando questione di difetto di giurisdizione, è chiaro che quest’ultimo tentativo sia contraddittorio alla propria linea di azione processuale inizialmente seguita.

Secondo il Consiglio di Stato, dunque, il caso in analisi si dimostra inequivocabilmente in contrasto con il generale principio del divieto di venire contra factum proprium.

Il Consiglio di Stato riconosce anche che la condotta assunta dall’appellante inevitabilmente provoca dei disagi e svantaggi economici alla controparte, la quale è tenuta a sopportare ulteriori spese processuali.

Ora, poiché lo svantaggio in questione risulta essere più grave del vantaggio che l’appellante potrebbe assumere attraverso l’impugnazione della sentenza, la modalità di esercizio del diritto processuale promossa dal titolare, non può che essere valutata come abusiva.

Inoltre, in linea alle conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite del 2007, la V Sezione del Consiglio di Stato, anche nel caso posto alla propria attenzione, riconosce un contrasto con il principio di giusta durata del processo, previsto dall’art 111 Cost.

Continuare il processo sollevando, con ricorso in appello, questione di difetto di giurisdizione, dopo che lo stesso appellante è pure ricorrente al tar, significa, infatti, prolungare in maniera illegittima e abusiva lo stesso processo, in contrasto con il principio definito dall’art 111 Cost.

Alla luce di tutto quanto esposto, la V sezione del Consiglio di Stato, con sentenza del 2012, definisce questa fattispecie illegittima, valutandola come evidente abuso del processo.

Anche la giurisprudenza ordinaria affronta tale circostanza, raggiungendo le stesse conclusioni, pur partendo da premesse diverse.

Nel 2016, infatti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si riferiscono in particolare al principio della soccombenza, per valutare l’illegittimità dell’appello, attraverso cui è sollevata questione di difetto di giurisdizione, promosso da chi, in precedenza, abbia presentato ricorso al tar.

Secondo tale ultimo principio, chiunque abbia intenzione di impugnare una precedente pronuncia, deve dimostrarsi, in essa, parte soccombente.

Partendo da ciò, le Sezioni Unite riconoscono che quella del difetto di giurisdizione è questione pregiudiziale e autonoma, rispetto alla stessa principale che il ricorrente presenta all’attenzione del giudice adìto.

Ciò considerato, nel proporre ricorso al GA, il ricorrente, in relazione alla questione della giurisdizione, si dimostra implicitamente consapevole della giurisdizione del giudice amministrativo.

Da parte sua, il GA, qualora si pronuncia con sentenza nel merito della questione principale, in maniera implicita si pronuncia anche in relazione alla questione della giurisdizione, riconoscendo la propria giurisdizione.

Qualora, dunque, colui che propone ricorso di fronte al tar, risulti soccombente nel merito nella successiva sentenza emanata dal GA, non sarà allo stesso modo soccombente relativamente alla questione della giurisdizione. Ciò perché il giudice amministrativo, emanando la sentenza di primo grado, si pronuncia favorevolmente e in maniera implicita circa la questione sulla giurisdizione, che il ricorrente ha proposto, in misura altrettanto implicita, semplicemente presentando il ricorso.

In conclusione, poiché il ricorrente, circa la questione del difetto di giurisdizione, non risulta soccombente, lo stesso, secondo le Sezioni Unite del 2016, non è legittimato a presentare appello avverso la sentenza di primo grado proprio per sollevare difetto di giurisdizione, pur essendo, in essa, soccombente nel merito.


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