L’abuso di dipendenza economica e l’abuso di posizione dominante
L’abuso di dipendenza economica e l’abuso di posizione dominante sono due differenti fattispecie, le quali si accomunano per l’esercizio di un comportamento abusivo da parte di un’impresa.
Entrambe richiedono la sussistenza di due specifici presupposti: in primo luogo, è necessario accertare la situazione di dipendenza economica o quella di posizione dominante in cui un’impresa si trova a danno o a vantaggio delle altre; in secondo luogo, occorre procedere a verificarne lo sfruttamento abusivo, ovvero la presenza di un comportamento arbitrario dell’impresa interessata, la quale ha sfruttato illegittimamente la condizione di favore in cui si trova.
La ratio perseguita dal legislatore non è infatti quella di sanzionare una mera condizione di superiorità economica ovvero di posizione dominante da parte di una specifica impresa, quanto piuttosto quello di impedirne l’arbitrario sfruttamento a danno delle altre, prevenendo così la realizzazione di condotte abusive e la conclusione di negozi ingiustificatamente squilibrati.
L’abuso di dipendenza economica è previsto dall’art. 9 l. n. 192/98, in base al quale è vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, un’impresa cliente o fornitrice.
Con l’emanazione della legge citata, pertanto, si compie un ulteriore ed importante passo in avanti verso una tutela completa della parte debole del rapporto contrattuale, prevedendo per l’autorità giudiziaria la possibilità di valutare la correttezza sostanziale di un rapporto tra due o più parti che, sebbene apparentemente munite dello stesso potere negoziale in quanto appartenenti alla medesima categoria professionale, si trovino tuttavia in una condizione di inferiorità economica l’una rispetto all’altra, tale da consentire ad una di esse di determinare in suo favore le condizioni del rapporto contrattuale e di influire così sull’equilibrio dei diritti e degli obblighi da esso derivanti.
Con specifico riferimento al negozio potenzialmente squilibrato in ragione della posizione di dipendenza economica di un’impresa rispetto ad un’altra, la dottrina parla di “terzo contratto”.
La figura rappresenta certamente una rilevante evoluzione normativa in ottica di “tutela protezionistica”, ovvero di salvaguardia del soggetto debole del rapporto contrattuale, la quale ha da sempre costituto uno degli scopi che il legislatore si è promesso di perseguire.
Nell’ordinamento nazionale, la tutela protezionistica fa il suo esordio con l’introduzione delle norme per la tutela del lavoro subordinato (l. n. 300/70), naturalmente caratterizzato dalla soggezione del lavoratore al potere di organizzazione e direzione del datore di lavoro, e prosegue con l’emanazione del codice del consumo (d. lgs. n. 206/05), con il quale si riconosce particolare dignità giuridica alla figura del consumatore, attribuendogli una serie di diritti nei confronti della controparte professionale.
L’espressione “terzo contratto”, in particolare, è stata elaborata nell’intento di accomunare, sotto il profilo funzionale, la fattispecie in parola ad altra analoga, denominata “secondo contratto”, evidenziando al contempo la necessità di distinzione dogmatica tra le due figure.
Per “secondo contratto”, infatti, si intende quel rapporto contrattuale instaurato tra soggetti non appartenenti alla medesima categoria professionale (si pensi appunto a quello intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore subordinato ovvero a quello tra professionista e consumatore) e dunque intercorrente tra parti non aventi lo stesso potere contrattuale.
Quest’ultima fattispecie, pertanto, condivide con il “terzo contratto” la medesima finalità protezionistica, ma da esso si distingue in considerazione del fatto che lo squilibrio negoziale è certamente ex ante prevedibile in ragione di una chiara posizione di inferiorità che una parte riveste nei confronti dell’altra, non appartenendo le stesse al medesimo statuto professionale e/o imprenditoriale.
Si parla di “primo contratto”, invece, per indicare quel negozio intercorrente tra parti appartenenti alla medesima categoria ed aventi il medesimo potere contrattuale, in relazione al quale non si pongono, di conseguenza, particolari esigenze protezionistiche.
Tanto premesso, si considera “dipendenza economica” la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi. La dipendenza economica, d’altra parte, è valutata tenendo conto della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.
Nonostante la rubrica della legge n. 192/98 lasci intendere che la nuova disciplina si applichi esclusivamente al contratto di subfornitura, la lettera della norma, la quale parla genericamente d’impresa, e la ratio della stessa, identificata nella tutela del soggetto debole nell’ambito dei contratti c.d. asimmetrici, fanno certamente ritenere che la normativa in materia di abuso di dipendenza economica abbia in realtà applicazione generale e sia pertanto estendibile ad ogni tipologia di contratto tra imprese, sia esso tipico o atipico.
Come previsto dalla norma citata, l’abuso può consistere nel rifiuto di vendere o di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie o nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.
Dall’analisi della normativa in materia, dunque, è chiaro come il divieto di abuso di dipendenza economica sia formulato in termini di norma a fattispecie aperta: alla definizione generale del concetto di dipendenza economica di un’impresa nei confronti di un’altra, infatti, segue l’indicazione di una serie di ipotesi esemplificative dello sfruttamento, il cui accertamento evidenzia certamente una condotta abusiva, ma la cui elencazione non deve considerarsi tassativa in ordine alla sussistenza di una situazione di sfruttamento abusivo.
Nonostante la norma riferisca l’aggettivo “arbitrario” alla sola interruzione delle relazioni commerciali in atto, deve ritenersi, come poc’anzi precisato, che l’abusività della condotta sia in realtà un elemento in comune a tutte le fattispecie riconducibili all’alveo applicativo della disposizione, siano esse tipiche, ovvero rientranti in quelle espressamente previste dalla legge, o atipiche, e quindi frutto di un’interpretazione estensiva ed analogica della disposizione.
Lo sfruttamento abusivo di una condizione di superiorità economica, dunque, non può ritenersi sussistente solo sulla base di un accertato squilibrio degli obblighi derivanti dal contratto, dovendo questo essere la conseguenza di un comportamento arbitrario da parte dell’impresa e non, invece, del legittimo esercizio dell’autonomia contrattuale delle parti, così come ad esse riconosciuta dall’art. 1322 c.c.
La prima delle fattispecie tipiche di abuso di dipendenza economica si identifica nel “rifiuto di vendere e comprare”, il quale può ritenersi “abusivo” solo qualora sia ingiustificato, ovvero non trovi la propria ragion d’essere nel comportamento della controparte ovvero nella sussistenza di circostanze tali da renderlo ragionevole.
Il “rifiuto” al quale si fa riferimento, nello specifico, può manifestarsi con modalità differenti, qualificandosi come una disdetta da un contratto a termine rinnovabile, come un recesso da un contratto a tempo indeterminato, come un mancato rinnovo o un inadempimento contrattuale, ovvero anche identificarsi in comportamenti pretestuosamente dilatori nel corso delle trattative contrattuali.
La seconda fattispecie prevista dalla norma, invece, consiste nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustamente gravose e discriminatorie. Anche in questo caso, dunque, l’avverbio “ingiustamente” consente di attribuire rilevanza, non al semplice squilibrio contrattuale, quanto al fatto che questo sia la conseguenza di un comportamento illegittimo dell’impresa, la quale ha sfruttato abusivamente la posizione di vantaggio in cui si trova.
L’ultima delle fattispecie tipiche, infine, denominata “interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto”, si sostanzia in un ingiustificato abbandono delle trattative contrattuali ovvero nell’inserimento all’interno del negozio di clausole estintive o risolutive preordinate a consentire lo scioglimento del rapporto contrattuale a discrezione del contraente più forte o comunque a permettere l’esercizio del potere di scioglimento con modalità difformi da quelle previste dalla legge. Si pensi, per esempio, alla previsione di una facoltà di recesso senza il rispetto del termine di preavviso.
Il patto nel quale si realizza l’abuso è nullo: trattasi, in particolare, di una nullità di protezione avente carattere parziale, la quale può come tale essere fatta valere solo dalla vittima della condotta abusiva e non si estende all’intero negozio.
La legge prevede inoltre la possibilità di esercitare l’azione inibitoria, ossia la facoltà per la vittima dell’abuso di rivolgersi al giudice civile al fine di ottenere un provvedimento inibitorio dell’altrui condotta arbitraria.
Con l’aggiunta del comma 3 bis all’art. 9 citato, inoltre, il legislatore ha espressamente riconosciuto la possibilità che le condotte di abuso di dipendenza economica possano altresì determinare degli effetti distorsivi della concorrenza, prevedendo a tal proposito uno specifico richiamo alla l. n. 287/90 e, con essa, ai poteri di diffida e sanzione dell’AGCM.
Detto questo, come accennato all’inizio della trattazione, l’istituto dell’abuso di dipendenza economica presenta notevoli affinità con quello dell’abuso di posizione dominante di cui all’art. 3 l. n. 287/90.
Anche tale norma, infatti, sancisce un generale divieto di abuso di posizione dominante, procedendo poi all’identificazione di una serie di condotte tipiche quali indici sintomatici dell’abuso. Analogamente a quanto avviene in materia di abuso di dipendenza economica, inoltre, anche la fattispecie di cui al citato art. 3 presuppone l’accertamento della posizione dominante e successivamente la verifica del suo sfruttamento abusivo.
Con riferimento alla “posizione dominante”, essa è definita come quella situazione di potenza economica in virtù della quale l’impresa che la detiene si trova nella condizione di pregiudicare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato, avendo la possibilità di tenere comportamenti indipendenti nei confronti dei suoi concorrenti, dei clienti e dei consumatori.
Al fine di individuare la sussistenza di una posizione dominante e di valutarne gli effetti distorsivi sulla concorrenza, occorre anzitutto procedere all’identificazione del c.d. mercato rilevante.
Si definisce tale, in particolare, quell’area di intersezione tra il mercato del prodotto, inteso come l’ambito merceologico di prodotti e servizi considerati intercambiabili da parte dei consumatori, ed il mercato geografico, inteso come zona di operatività delle imprese interessate.
In secondo luogo, è necessario procedere all’accertamento di una condotta di sfruttamento abusivo di tale posizione.
Secondo la norma citata, per esempio, costituisce abuso di posizione dominante l’imposizione di prezzi o di altre condizioni contrattuali ingiustamente gravose; la limitazione o l’impedimento degli sbocchi o dell’accesso al mercato, ovvero dello sviluppo e del progresso tecnologico di esso; l’applicazione nei rapporti commerciali con altri contraenti di condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti; la subordinazione dei contratti all’effettuazione di prestazioni supplementari che non abbiano alcuna connessione con l’oggetto degli stessi.
Dall’elencazione effettuata dall’art. 3 l. n. 287/90, e in particolare dall’indicazione di condotte analoghe a quelle integranti la diversa fattispecie di cui all’art. 9 l. n. 192/98, risulta evidente come alcuni dei comportamenti descritti siano potenzialmente suscettibili di integrare al contempo sia un abuso di dipendenza economica che un illecito sfruttamento di posizione dominante, andando poi a costituire l’una o l’altra fattispecie a seconda dell’effetto conseguente, nel primo caso limitato alle parti contraenti, mentre nel secondo esteso al mercato di riferimento.
Ne deriva, d’altra parte, che anche l’abuso di dipendenza economica è suscettibile di comportare una restrizione della concorrenza o comunque di integrare un abuso di posizione dominante, e come tale può essere sanzionato dall’Antitrust.
Con specifico riferimento all’accertamento della condizione di sfruttamento abusivo della posizione dominante, tuttavia, si sono nella giurisprudenza succeduti due diversi orientamenti: secondo una prima interpretazione, infatti, il carattere abusivo della condotta posta in essere dall’impresa in posizione dominante non presuppone necessariamente la sua illiceità, potendo al contrario derivare esclusivamente dall’effetto potenzialmente restrittivo della concorrenza che da tale condotta consegue, indipendentemente cioè dalla illegittimità della stessa.
Di diverso avviso è invece un’altra impostazione, per la quale la condotta dell’impresa può ritenersi abusiva solo ove si manifesti nell’utilizzo di metodi concorrenziali differenti da quelli ordinari, presentandosi come antigiuridica.
Un’altra questione di particolare importanza in tema di abuso di posizione dominante, d’altronde, concerne la natura oggettiva o soggettiva dell’illecito: ci si chiede, in particolare, se ai fini della sussistenza della fattispecie sia necessaria o meno la prova dell’intento restrittivo della condotta.
Per la concezione attualmente prevalente, in realtà, deve escludersi che una pratica commerciale possa considerarsi abusiva per il solo fatto di essere stata posta in essere da un’impresa che detiene una quota significativa del mercato, in quanto diversamente ci si porrebbe in contrasto con le disposizioni dettate in materia di iniziativa economica libera e con l’obiettivo posto alla base della creazione del mercato unico, rappresentato dalla massimizzazione del benessere dei consumatori.
A sostengo di tale soluzione, inoltre, si richiamano le disposizioni dettate in materia di intese restrittive della concorrenza per oggetto, in relazione alle quali il legislatore ha espressamente qualificato la condotta come illecita ex se, ossia indipendentemente dall’effetto in concerto verificatosi.
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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo.
L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile.
Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale.
Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori.
Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.
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