L’acquisizione delle sentenze irrevocabili come prove nel processo penale

L’acquisizione delle sentenze irrevocabili come prove nel processo penale

Sommario: 1. Profili introduttivi – 2. Il significato della locuzione “prova di fatto in esse accertato” – 3. La valutazione della sentenza come prova – 4. Prospettive di riforma

1. Profili introduttivi

Apparentemente chiaro e semplice da interpretare, l’art. 238-bis c.p.p. cela delle questioni ermeneutiche particolarmente complesse. Introdotto con il d.l. n. 306/1992, conv. in l. n. 356/1992, in un clima di lotta alla criminalità organizzata, esso dispone che «fermo restando quanto previsto dall’art. 236, le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova di fatto in esse accertato e sono valutate a norma degli articoli 187 e 192 comma 3». L’articolo in esame è frutto di scelte del legislatore finalizzate a bilanciare interessi contrapposti: da un lato, le esigenze di economia processuale, in quanto la norma tende a evitare che ogni giudice sia costretto a ripercorrere le tappe di altri processi per accertare fatti già accertati in sentenze divenute irrevocabili; dall’altro, il rispetto del principio del contraddittorio.

È da escludere la possibilità di acquisire le sentenze non ancora divenute irrevocabili come prove documentali ai sensi dell’art. 234 c.p.p. [1], poiché quest’ultimo si trova, rispetto all’art. 238-bis c.p.p., in un rapporto da genus a species, con conseguente applicazione della norma speciale: condicio sine qua non dell’acquisizione della sentenza come prova è il fatto che essa sia divenuta irrevocabile.

In chiave introduttiva, prima di affrontare le questioni interpretative di maggiore interesse, è opportuna una breve riflessione sulla previsione secondo la quale resta fermo quanto disposto dall’art. 236. Tale precisazione non può essere considerata superflua, in quanto chiarisce che l’introduzione dell’art. 238-bis non ha comportato l’abrogazione dell’art. 236, per cui il primo si applica in ipotesi diverse da quelle previste nell’altro (che consente l’acquisizione «delle sentenze irrevocabili di qualunque giudice italiano e delle sentenze straniere riconosciute, ai fini del giudizio sulla personalità dell’imputato o della persona offesa dal reato, se il fatto per il quale si procede deve essere valutato in relazione al comportamento o alle qualità morali di questa»). Inoltre, va rilevato che l’art. 236 non prevede alcun vincolo circa le modalità valutative.

Ci si è limitati, in questo primo paragrafo, a esporre alcuni profili introduttivi relativi alla norma in esame. Nei paragrafi che seguono si soffermerà l’attenzione sulle principali questioni ermeneutiche: seguendo il testo dell’art. 238-bis, prima ci si dedicherà al significato della locuzione “prova di fatto in esse accertato”, per poi affrontare il delicato problema relativo alla valutazione della sentenza come prova.

2. Il significato della locuzione “prova di fatto in esse accertato”

L’eleganza e la chiarezza espositiva dovrebbero essere caratteristiche di qualunque testo normativo, ma la locuzione “prova di fatto in esse accertato” se ne discosta in maniera evidente. Non è eccessivo affermare che, per il giurista, tale espressione può essere paragonata a una stonatura all’interno di un’armoniosa sinfonia. In dottrina, infatti, si è parlato di una «tecnica legislativa sconcertante» [2] – probabilmente frutto di un’affrettata compilazione per far fronte all’esigenza di contrastare la criminalità organizzata – in quanto il legislatore avrebbe dovuto fare riferimento alla prova “dei fatti” o “di un fatto”, anziché alla “prova di fatto” accertato nella sentenza. Non reggerebbe l’interpretazione che ricollega il participio passato “accertato” al sostantivo femminile “prova” non solo perché si determinerebbe una discordanza di genere, ma anche perché, pur sorvolando su una possibile svista grammaticale del legislatore, oggetto di accertamento non è la prova, bensì un fatto.

Ci si chiede come debba essere interpretato il termine “fatto”, cioè se l’uso del singolare sia frutto di una precisa scelta del legislatore di riferirsi solo a quello oggetto dell’imputazione. Per rispondere al quesito, è utile leggere l’art. 238-bis c.p.p. in relazione all’art. 187 c.p.p. a cui, peraltro, il primo rinvia. Per “fatti che si riferiscono all’imputazione”, richiamati dall’art. 187, non si intende solo il fatto oggetto dell’imputazione (c.d. “fatto principale”), ma anche i cc.dd. “fatti secondari” che possono essere intesi in due accezioni diverse: in una prima accezione, costituiscono fatti che consentono di formulare inferenze sull’esistenza o inesistenza del fatto principale; in una seconda accezione, sono fatti che consentono di formulare inferenze sull’attendibilità della prova del fatto principale [3]. La giurisprudenza, inoltre, ammette «l’utilizzazione ai fini del decidere delle risultanze di fatto emergenti anche dalla motivazione, e non solo dal dispositivo, delle sentenze divenute irrevocabili acquisite ex art. 238-bis» [4].

A conferma di questa interpretazione, è utile una lettura in relazione all’art. 654 c.p.p., ai sensi del quale «nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa». L’espressione “fatti materiali” si riferisce non solo ai fatti oggetto dell’imputazione, ma a tutti quelli che sono stati oggetto del precedente accertamento giudiziale, purché, come previsto dalla norma in esame, “siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale”. Sostenendosi diversamente, tale limitazione sarebbe superflua, atteso che i fatti dedotti nell’imputazione rilevano di per sé ai fini della decisione penale. Questa considerazione rafforza la tesi secondo cui l’uso del singolare nell’art. 238-bis c.p.p. non è indice della volontà del legislatore di limitarne la portata al solo fatto oggetto dell’imputazione: alla luce di un’interpretazione sistematica, se l’art. 654 fa riferimento anche a fatti diversi, riconoscendo alla sentenza penale efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, a fortiori ciò dovrebbe valere per l’operatività dell’art. 238-bis, il quale non prevede un’ipotesi di efficacia di giudicato della sentenza, bensì la possibilità di acquisirla come prova in un altro processo penale.

Così come interpretato, l’art. 238-bis può costituire uno strumento per la risoluzione preventiva dei contrasti tra giudicati, ipotesi contemplata dall’art. 630 lett. a) c.p.p., ai sensi del quale la revisione può essere richiesta «se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale». In altre parole, attraverso l’acquisizione di una sentenza irrevocabile ai fini della prova dei fatti in essa accertati, il giudice potrà evitare di pronunciare una sentenza che si fondi su fatti che non possono conciliarsi con quelli stabiliti nella sentenza acquisita come prova.

3. La valutazione della sentenza come prova

L’art. 238-bis impone al giudice di valutare le sentenze irrevocabili a norma degli artt. 187 e 192 c. 3.

Il rinvio all’art. 187 avrebbe potuto essere omesso, in quanto i fatti da provare devono comunque rientrare nel thema probandum da esso delineato.

Maggiori riflessioni merita il rinvio all’art. 192 c. 3, introdotto in sede di conversione del d.l. n. 306/1992 in l. n. 356/1992. Esso dispone che «le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità» [5]. La ratio della norma è facilmente desumibile: si presume che le dichiarazioni di tali soggetti siano inattendibili, per cui sono necessari riscontri per la conferma della loro attendibilità. Il rinvio all’art. 192 c. 3 operato dall’art. 238-bis – in virtù del quale il giudice deve valutare la sentenza unitamente ad altri elementi di prova – ha, invece, una diversa ragion d’essere poiché non può fondarsi su una presunzione di inattendibilità di quanto affermato da un altro giudice in una sentenza divenuta irrevocabile. Tale rinvio, dunque, presuppone che il giudice debba valutare la sentenza secondo il suo libero convincimento e le limitazioni derivanti dall’art. 192 c. 3 sono volte a evitare che egli motivi la propria decisione semplicemente richiamando il contenuto di un precedente giudicato [6], a conferma del fatto che l’art. 238-bis non contempla un’ipotesi di efficacia di giudicato della sentenza, ma la possibilità di acquisirla come prova. Inoltre, la previsione per cui le sentenze devono essere valutate a norma dell’art. 192 c. 3 è uno strumento di cui si è servito il legislatore per evitare un totale sacrificio del principio del contraddittorio sull’altare dell’efficientismo, in quanto tende a favorire il confronto dialettico tra le parti.

Sul problema della compatibilità dell’art. 238-bis c.p.p. con il principio del contraddittorio è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 29 del 2009, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale che era stata sollevata in riferimento all’art. 111 commi 4 e 5 Cost. Nella sentenza viene affermato che la portata del principio del contraddittorio va individuata in considerazione della specificità dei singoli mezzi di prova. La sentenza irrevocabile non può essere considerata un documento in senso proprio, poiché è caratterizzata dal fatto di contenere un insieme di valutazioni di un materiale probatorio acquisito in un diverso giudizio, né è equiparabile alla prova orale. Si riportano le parole della Consulta: «Ne consegue che, in relazione alla specifica natura della sentenza irrevocabile, il principio del contraddittorio trova il suo naturale momento di esplicazione non nell’atto dell’acquisizione – nel quale, del resto, non sarebbe ipotizzabile alcun contraddittorio, se non in ordine all’an dell’acquisizione – ma in quello successivo della valutazione e utilizzazione. Una volta che la sentenza è acquisita, le parti rimangono libere di indirizzare la critica che si andrà a svolgere, in contraddittorio, in funzione delle rispettive esigenze.». Si sottolinea, inoltre, che la libertà di valutazione del giudice che acquisisce la sentenza irrevocabile e la necessità di riscontri confermativi in virtù del rinvio all’art. 192 c. 3 costituiscono garanzia sufficiente del rispetto delle prerogative dell’imputato.

La sentenza che è stata brevemente esaminata non risolve alcune questioni. Occorre rilevare che la Corte Costituzionale avrebbe dovuto soffermarsi maggiormente sul problema della classificazione della sentenza tra le prove documentali, su cui aveva espresso dubbi il giudice remittente. Questi, infatti, aveva affermato che l’art. 238-bis non prevede una prova documentale in senso stretto poiché la sentenza irrevocabile non contiene la rappresentazione di un fatto, ma la sua valutazione, su cui le parti non hanno la possibilità di confrontarsi. Tale questione merita riflessioni ulteriori rispetto a quelle che si leggono nella sentenza della Consulta. Come osservato in dottrina, occorre considerare non solo che il nostro sistema processualpenalistico ammette prove a carattere valutativo (si pensi, per esempio, alla testimonianza, caratterizzata anche da aspetti valutativi sul fatto), ma anche che dall’ampia definizione di prova documentale emergente dall’art. 234 c.p.p. si desume che nel concetto di “fatto” è compresa pure «la rappresentazione del fatto che un certo atto – e, cioè, il giudizio contenuto nella sentenza – è avvenuto» [7].

Inoltre, sarebbe stato opportuno che la Corte affermasse il principio – sebbene facilmente desumibile attraverso uno sforzo ermeneutico – per cui la sentenza non può essere valutata unitamente a elementi su cui la stessa si fonda poiché, ritenendo diversamente, si cadrebbe nella contraddizione logica di rendere inoperante il rinvio all’art. 192 c. 3.

4. Prospettive di riforma

Alla luce delle riflessioni fin qui condotte, possiamo concludere che a causa delle scelte lessicali poco felici, delle complesse questioni ermeneutiche e dei dubbi di legittimità costituzionale l’art. 238-bis è, certamente, uno dei più controversi dell’intero impianto codicistico.

In una prospettiva de iure condendo, vediamo quali sono i possibili scenari futuri.

Il primo consiste nell’abrogazione dell’articolo oggetto di analisi. Tale soluzione è auspicata non solo dai sostenitori dell’incostituzionalità della norma, in quanto contrastante con il principio del contraddittorio, ma anche da coloro i quali affermano che l’art. 238-bis contiene una “finta norma”, che non sarebbe mai applicabile, in quanto l’autentica discende dall’art. 238 [8]. Tuttavia, è poco probabile un intervento di tale portata per due ragioni: in primo luogo, rimane viva l’esigenza di economia processuale che ha spinto il legislatore a introdurre la norma, specialmente se consideriamo che l’intento originario era quello di reprimere con maggiore forza la criminalità organizzata; in secondo luogo, occorre prendere atto di quanto affermato dalla Consulta nella citata sentenza n. 29 del 2009, sebbene essa sia criticabile per i motivi prima esposti.

Più probabile, dunque, oltre che auspicabile, è un intervento legislativo che si limiti ad apportare delle modifiche. Innanzitutto, è opportuno correggere le imprecisioni lessicali al fine di facilitare l’interpretazione. Inoltre, non è da escludere una limitazione dell’ambito di operatività della norma a procedimenti relativi a reati di particolare allarme sociale. In tale prospettiva, si potrebbe riprendere l’art. 4 del disegno di legge n. 1440 del 2009, il quale prevedeva che l’art. 238-bis fosse sostituito dal seguente: «Fermo quanto previsto dall’articolo 236, nei procedimenti relativi ai delitti di cui agli articoli 51, commi 3-bis e 3-quater, e 407, comma 2, lettera a), le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato e sono valutate a norma degli articoli 187 e 192, comma 3.». Questa modifica sarebbe in linea con l’idea originaria del legislatore, cioè quella di rendere l’art. 238-bis uno strumento finalizzato a una più efficace repressione di fattispecie di particolare gravità. Inoltre, comprimendo il meno possibile il principio del contraddittorio, verrebbe adottata una tecnica legislativa non nuova al codice di rito. Si pensi, ad esempio, all’art. 270 c. 1 c.p.p. che, subordinando la possibilità di utilizzare in procedimenti diversi i risultati delle intercettazioni alla condizione che «risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’articolo 266, comma 1», tende a comprimere il meno possibile i diritti di cui all’art. 15 Cost.

Per il momento, non resta che affidarsi alle soluzioni interpretative proposte dalla giurisprudenza, in attesa di un intervento del legislatore che faccia maggiore chiarezza su una disposizione che, a distanza di quasi trent’anni dalla sua introduzione, risulta ancora estremamente oscura agli interpreti.

 

 


[1] Art. 234 c. 1 c.p.p.: «È consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo.».
[2] L. MARAFIOTI, Trasmigrazione di atti, prova “per sentenze” e libero convincimento del giudice, in A. GAITO, Studi sul processo penale in ricordo di Assunta Mazzarra, CEDAM, Padova, 1996, pp. 252, 253
[3] In tal senso, L. IAFISCO, La sentenza penale come mezzo di prova, Giappichelli Editore, Torino, 2002, pp. 157, 158.
[4] Cass. pen., Sez. I, 16 novembre 1998, Hass e Priebke, n. 12595, in Cass. pen., 1999, p. 2292.
[5] La disposizione del comma 3, secondo quanto previsto dal comma 4, si applica anche alle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall’articolo 371 comma 2 lettera b).
[6] In tal senso: Cass. pen., Sez. II, 19 maggio 1994, n. 6755, Rapanà, n. 6755, in C.E.D. Cass., 198107; Cass. pen., Sez. I, 16 novembre 1998, n. 12595, Hass e Priebke, n. 12595, in Cass. pen., 1999, p. 2292; Cass. pen., Sez. I, 5 aprile 2013, n. 18398, in C.E.D. Cass., 255879; Cass. pen., Sez. IV, 2 aprile 2014, Festante e altri, n. 19267, in C.E.D. Cass., 259370.
[7] L. IAFISCO, Acquisizione della prova-sentenza ex art. 238-bis c.p.p. e contraddittorio nel momento di formazione della prova (commento a C. Cost., 6 febbraio 2009, n. 29), in Giur. Cost., 2009, pp. 220, 221, Interessante la critica di T. RAFARACI, Le specifiche dinamiche probatorie, in D. NEGRI e R. ORLANDI (a cura di), Le erosioni silenziose del contraddittorio, Giappichelli Editore, Torino, 2017, p. 76, il quale ritiene che elevare a rango di prova la valutazione sia una «forzatura cognitiva, che cerca compromissoria compensazione nel carattere non vincolante dell’accertamento contenuto in sentenza, nella dialettica delle prove contrarie e, non ultimo, nella necessità dei riscontri».
[8] F. CORDERO, Procedura penale, IX edizione, Giuffrè Editore, Milano, 2012, p. 803.

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